Risaia Crudele: Quei giorni dell'inverno '45
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Info su questo ebook
In un torrido pomeriggio d’agosto, a distanza di più di cinquant’anni da quegli eventi, tra le risaie della sua terra, nel piccolo cimitero di Casoni Borroni, rivivono negli occhi e nei ricordi del vecchio Lisandro le vite di Cristina, don Dalmazio, Leone, Santino, Modesta, dell’allora giovane Lisandro... e di tutte quelle figure che la memoria si è portata via, trasportata dalle acque inarrestabili del fiume Agogna”.
Alessandro Reali
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Anteprima del libro
Risaia Crudele - Alessandro Reali
PROLOGO
Cascina Rivoltata, gennaio 1945
Gli uomini avanzarono lenti. La nebbia calante nascondeva il cascinale e il pioppeto scheletrico che lo circondava. La neve era dura e i ragazzi, calpestandola, temevano di fare rumore. Erano mesi che vivevano con la paura di fare rumore.
Qualche cornacchia grigia, appena visibile, si alzò in volo nel silenzio. Un silenzio pesante e freddo, che metteva in bocca, con la paura, uno strano gusto di ruggine.
Entrarono in tre. Gli altri cinque restarono sotto al portico, nascosti.
Salirono le scale odorando l’aroma caldo del tabacco e di qualche cosa da mangiare, segno che la casa era stata abbandonata da poco. Al piano superiore, dopo un breve corridoio, si trovarono di fronte la stanza.
– Guarda là – disse quello con la barba e il fucile, aprendo la porta.
Due corpi: un uomo in terra nel suo sangue; una donna sul letto, metà volto sfigurato e un unico occhio aperto.
UNO
Tra lapidi e ciuffi d’erba
Casoni Borroni, agosto 1998
La strada, in discesa verso il piccolo cimitero, era bianca di polvere. I sassi scottavano. Le lucertole di pianura ne approfittavano come fanciulle stese al sole, beate nella luce liquida del pomeriggio.
Le risaie, gialle e immobili – non c’era un filo d’aria – palesavano una pace del tutto fasulla, insidiosa, inquietante, come la testolina di smeraldo del ramarro che sbucava nell’erba secca, bruciata dal sole.
Lisandro camminava lentamente. Era stanco, probabilmente avvilito. Portava il gilet slacciato sui pantaloni neri e aveva le scarpe impolverate. La camicia bianca era impregnata di sudore e la cravatta a righe pendeva tutta storta.
Ma perché era arrivato fin lì? Si chiedeva...
Il taxi, che l’aveva abbandonato poco prima sulla riva sinistra del torrente Agogna, rantolava già sulla via del ritorno, tutta curve, verso Sannazzaro de’ Burgondi, la cittadina che da quel punto s’intuiva appena, nella calura spessa, oltre la spianata bionda delle risaie da cui sbucavano – curioso effetto ottico – le sfere, le colonne, i reattori e le ciminiere della grande Raffineria ENI, in direzione Ferrera.
Il sole era alto e non splendeva affatto, anzi, sembrava soffocare anche lui, dietro la patina umida di nuvole di cenere. Il torrente scorreva magro…
Il cimitero di Casoni Borroni, il villaggio da cui Lisandro era partito tanti anni prima, era lì, come un fantasma, dimenticato da tutti, a custodire quei segreti ormai buoni soltanto per i suoi occhi color grigio perla, incrostati di rughe antiche e profonde, veri e propri solchi entro cui suo nipote, il piccolo Alex, adorava scivolare in esplorazione con le piccole dita abbronzate. Ma questo succedeva a casa loro, lontano, in California.
Erano stati i ricordi a fregarlo?
Già, i ricordi ti fregano sempre: i pozzi maleodoranti della memoria che ciascuno di noi agghinda con nastri fantasiosi, rose e pellicole posticce. Chiunque abbia attraversato il Novecento ne porta appresso l’odore. Non c’è mai stato un secolo travolgente come quello, e mai più ci sarà. Ma chi vive in altre epoche, probabilmente, direbbe la stessa cosa. E a Lisandro di questo non importava nulla. Lui non si era mai preoccupato delle cose grandi, lui pensava a se stesso, come aveva fatto in quel giorno lontano, quand’era scappato. Ma adesso era lì. Era tornato, e si era fermato come uno stupido sulla soglia di quel cimitero che conservava le spoglie di tutti coloro che avevano avuto a che fare con la sua storia. Tutti morti. Di sicuro quelli chiusi lì dentro, oltre le cappelle mute o sotto la terra, dietro le lapidi di marmo e i mazzi di fiori che appassivano in fretta. Come la vita, del resto.
Intanto una lucertola, unico essere vivente con qualche mosca ronzante e un paio di noiosi calabroni, spariva in una crepa della terra secca, verso ridicole profondità a cui Lisandro non voleva nemmeno pensare.
Però, colui che gli aveva chiesto di tornare l’obbligava a penetrare con la mente quelle profondità, che celavano vite dimenticate eppure a lui molto vicine. E questa riflessione, questo sentirsi ancora parte di un mondo morto e sepolto, lo turbava parecchio. Cosa era tornato a fare? La sua vita apparteneva a un’altra storia, pienamente vissuta e realizzata tra i filari californiani, tanto distante da quel borgo – rimasto vivo solo per via di un rinomato ristorante – dov’era nato settantacinque anni prima. Un borgo che basava la sua economia sul lavoro dei campi, in mezzo ai quali sorgevano magnifiche cascine, autentici paesi che raccoglievano lavoratori stagionali e mondine che nel duro lavoro in risaia cercavano di vincere la miseria. Oggi il suo paese, escluso dalle arterie principali, ricordava un villaggio fantasma e i vecchi che ancora lo abitavano, poco alla volta, se ne andavano per l’ultimo viaggio nel piccolo cimitero. Il ristorante, dove un tempo c’era l’osteria, era l’unico segnale di vita attuale, con il parcheggio gremito dalle auto dei clienti che fin lì si recavano per assaporare le rane fritte e le lumache in umido.
La camicia era madida ed emanava l’odore della sua pelle abbronzata. Gli occhi gli facevano male ma, purtroppo, aveva scordato gli occhiali neri all’Albergo Italia di Sannazzaro, dove aveva preso una stanza direttamente su piazza Aldo Palestro, accanto all’ex municipio, costruzione di stile littorio.
La gola arsa di polvere implorava una birra gelata o anche un semplice bicchiere d’acqua, qualcosa per sciogliere il formicolio (o l’angoscia?) che si arrampicava con scarponi chiodati attraverso l’esofago. Allora perché non percorrere altri trecento metri e raggiungere il ristorante – proprio dove una volta c’era l’Osteria del Falco Pellegrino – per farsi dare qualcosa da bere e sedersi un po’ a riposare?
No. Lui restava lì. Era quello che doveva fare, prima di ogni altra cosa. Controvoglia, d’accordo, però doveva farlo, ancor prima di puntare verso la piccola chiesa e svoltare a sinistra, sull’unica via che scendeva verso il torrente. Là, in fondo alla strada, sicuramente, abitava ancora colui che gli aveva chiesto di tornare. Ma in quel momento non ci voleva nemmeno pensare. Non si sentiva pronto, e questo lo indispettiva, lo rendeva fragile, lui che fragile non era stato mai. Ma poi perché? In fondo aveva solo ricevuto quella specie d’invito a cui avrebbe anche potuto rispondere picche. O non rispondere affatto, dopo tutto quel tempo! Come si dice: di acqua ne era passata davvero tanta, sotto i ponti, e allora... Nessuno poteva obbligarlo a lasciare la sua bella casa in collina, tra i vigneti, dove viveva con sua moglie, i suoi figli e nipoti, attraversare l’oceano per planare a Linate e raggiungere in taxi prima Sannazzaro e poi Casoni, dove si trovava adesso, in un pomeriggio d’agosto davvero troppo caldo.
La sua mano da contadino, solcata da vene blu, tirò il cancello di ferro nero e, quasi per inerzia, si avviò sul sentiero di ghiaia tra poche lapidi e ciuffi d’erba, fino alla cappella sormontata da una lastra con sopra inciso il nome della sua famiglia. Si appoggiò al vetro verde scuro, smerigliato, lo scostò e mise dentro la testa. La frescura improvvisa, contrastante col soffocante clima esterno, lo fece barcollare. L’oscurità illibata del luogo gli lacerò gli occhi che subito, impauriti, cercarono nell’ovale appeso alla parete il volto sereno di suo padre. E, per la seconda volta, nel giro di pochi minuti, pensò di voltarsi e andarsene e cancellare quell’assurdo viaggio dalla sua mente, così come aveva cancellato quei giorni lontani dalla sua memoria. Avrebbe voluto prendere il primo volo per Los Angeles e tornare a casa sua. Perché, ormai, quella era casa sua.
Lo sguardo di suo padre gli scivolò addosso come un brivido gelato, rendendogli chiaro, contro la sua volontà, quanto il sangue che scorreva nelle sue vene fosse dello stesso tipo di quello che un tempo scorreva nelle vene di quell’uomo che gli assomigliava parecchio. Stessi occhi, come tagli grigio azzurri, fronte spaziosa, baffi curati e rughe profonde, sguardo giustamente severo di chi conosce la miseria, la fatica e il ristoro profondo che solo il vino sa dare.
Eccolo lì, l’uomo dalle spalle larghe, il contadino con addosso il grembiule per fare il pane, il cacciatore taciturno che gli diceva troppo spesso Lisandro stai attento, coi fascisti c’è poco da scherzare, e quelli dei Casoni e della Mezzana, alla nostra famiglia gliel’hanno giurata
...
Sotto alla lastra che custodiva le spoglie di suo padre c’era la tomba di sua madre, che dall’ovale bronzeo della foto lo guardava con gli occhi severi di sempre. Come quando era viva e lui era giovane e vivevano tutti assieme nella corte grande dell’Osteria del Falco Pellegrino. Sua madre, massiccia come una quercia coi capelli grigi raccolti sulla nuca, lo chiama, gli urla qualcosa, ma lui è già fuori, è già lontano, non sente o fa finta di non sentire, con il fucile di suo padre e un pezzo di pane e lardo, nascosto nella tasca, sottratto alla dispensa – il regno su cui sua madre vigilava austera e parsimoniosa – grazie alla chiave di cui Lisandro possedeva una copia.
Sorrise amaro, ripensando a tutti i sotterfugi a cui ricorreva per ingannare la povera donna che, vera padrona di casa, aveva in mano la magra economia della famiglia, tra figli da tirare grandi e vecchi infermi da accudire.
Lisandro tornò alla luce del sole, a quella luce bianco grigia che sporcava il mondo. Si appoggiò al gradino sbrecciato. L’eccessivo calore e la commozione lo spinsero a pensare di estrarre il cellulare e chiamare il taxi per farsi riportare subito a Sannazzaro. Aveva bisogno di bere e riposare. Tutto sommato non era stata una buona idea andare subito lì, senza nemmeno sdraiarsi un poco. Una doccia fresca, una birra grande e gelata e