Sambuco e il segreto di Viale Loreto: La nuova indagine di Sambuco & Dell’Oro
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Anteprima del libro
Sambuco e il segreto di Viale Loreto - Alessandro Reali
UNO
Una volta, di fronte al Bar Sarti c’era la pompa di benzina. I vecchi, seduti ai tavolini di fòrmica verde, se la ricordano ancora, gialla e nera nell’afa estiva o sfumata, appena percettibile nella gelatina di un inverno nebbioso.
Ma, in estati come quella, l’odore del carburante mescolato al dolce aroma degli alberi di viale Loreto, attiravano nuvole di zanzare che obbligavano le mamme a cospargere di Autan la pelle tormentata dei bambini mentre i vecchi, sulle panchine, che allora erano di cemento, s’arrangiavano a scacciarle con le frasche.
Stiamo però parlando degli anni ‘70, quando la circonvallazione non era ancora finita e intorno a Sannazzaro de’ Burgondi si potevano osservare, oltre alla spianata delle risaie, i boschi di pioppi ordinati e le rive intricate di robinie piegate sui fossi dove ancora qualche operaio, la sera, faceva il bagno con spugna e sapone. i ragazzini più audaci giocavano alle tombette
– i tuffi di testa – nei punti scuri dove l’acqua era più alta, mentre altri, nelle pozze, con le mani, gettavano sulle rive carpe, anguille e persici sole.
Usanze morte e sepolte, come i poveri fossi.
Adesso…
Adesso Michela Sarti ha cinquantotto anni. Eccola, con la pelle rosea solcata da rughe fini appiccicata alle ossa stanche, dietro al bancone del bar, a servire caffè, vino rosso e bianco, gelati e sigarette, tutti i giorni, da quando aveva dieci anni.
È furba e tenace, Michela; come si suol dire, si è piegata peggio d’un salice piangente, ma non si è mai spezzata del tutto. Ha tenuto duro quando suo marito l’ha abbandonata, vent’anni fa, per andare a morire dentro una cisterna bonificata male dalle parti di Voghera. Povero Giovanni, precipitatosi a salvare il ragazzo più giovane, che ci era finito dentro, alla maledetta cisterna. In seguito all’incidente, c’era stato un processo e tutti sembravano parecchio indignati. Per molti Giovanni era una specie di eroe. Ma ecco, si sa come vanno queste cose: gli avvocati dell’azienda sono riusciti a dimostrare l’imprudenza degli operai nel non aver indossato gli adeguati mezzi di protezione. Così la ditta – con la benedizione di qualche politico compiacente – l’aveva spuntata, senza troppi danni e quel poveraccio di Giovanni – l’altro operaio si era salvato – era finito nel dimenticatoio.
E Michela? Michela aveva ingoiato il rospo – un bestione tipo certi mostri che qualcuno ha visto tra il Po e l’Agogna – dignitosamente, senza versare una lacrima, mentre nel suo corpo minuto, spigoloso, il sangue si faceva ogni giorno più amaro.
Suo figlio, Elio, abita sopra il bar. Non va d’accordo con la madre e dice che lui, dietro al bancone del locale, non ci vuole stare. Così s’arrangia come manovale nelle ditte della Raffineria ENI, tra Sannazzaro e Ferrera, polo industriale voluto da Enrico Mattei nei primi anni ’60.
Fuma un sacco di canne, Elio, e sta con una morettina pallida come un cadavere, che va e viene dal suo letto, sotto lo sguardo velenoso di Michela che disprezza fortemente tanto quella ragazza figlia d’immigrati quanto il tipo di musica – il metal – che ascolta a volume altissimo in compagnia del fidanzato, che la madre di lei chiama abitualmente l’ebete
.
Elio se ne sbatte. Di sua madre non gliene frega niente e suo padre non se lo ricorda nemmeno. Vive alla giornata e si trascina fino a sera tra una pasticca e una canna, sostenendo, quando qualcuno glielo domanda, che a lui sta bene così: non vuole né impegni né tanto meno responsabilità e che sua madre vada pure a fare...
Michela, a volte, lo detesta, però lo ama perché è suo figlio.... dopo tutto. Lo critica spesso ma se qualcun altro s’azzarda a parlare male di lui diventa una belva. E poi, in fondo in fondo, lo capisce. Anche a lei, da ragazza, non importava nulla del bar. Ma allora erano altri tempi e sua madre – suo padre c’era e non c’era a causa del troppo vino – ce l’aveva obbligata a restare là dietro, a servire clienti, mentre lei sognava di fare la cantante. Per questo si esercitava sotto al portico e tra i filari dolcissimi d’uva americana accanto al serraglio coi cani da caccia che, apparentemente, detestavano la sua vocina melodiosa, allenata per accompagnare, un giorno, quella del suo idolo Johnny Dorelli.
Ma i sogni, come spesso accade, finiscono come segatura da cesso; Giovanni, il primo fidanzato, l’aveva messa incinta in una notte di marzo, levigata dal vento e stellata, nella bella campagna del Ponte di Pietra, prima che arrivassero anche lì col cemento.
Le capitava ancora, sorridendo amara, di ricordare quella notte: il desiderio e la paura e poi la sensazione che la vita potesse essere meravigliosa, come si vedeva nei film americani che, negli anni ‘60, avevano iniziato a proiettare al Teatro Sociale di viale Italia. È così, a diciotto anni si può anche morire d’amore, specie se il tuo ragazzo, fantasticando, possiede le spalle e il sorriso corrucciato di Robert Mitchum.
Poi devi imparare ad arrangiarti. I fiori perdono i petali e la realtà, spesso, tende più al grigio che al rosa. E quelli erano tempi difficili, per una ragazza, per poter pensare di fare di testa propria e dar seguito ai sogni che la tenevano sveglia la notte. Molto più facile e, probabilmente, meno doloroso sposarsi quel bravo ragazzo dai riccioli fitti e neri; un’autentica montagna di muscoli senza aspettative né pretese, tanto coraggioso o incosciente o pazzo da fare la fine del topo dentro una lurida cisterna, per tirare fuori e salvare il compagno che ci era caduto dentro.
Era molto più facile accettare le imposizioni di sua madre, cancellare le fantasie e restare lì, dietro al banco rosso e grigio del Bar Sarti, a servire clienti di passaggio – gli operai della Raffineria che si fanno un caffè o un amaro e comprano le sigarette prima d’iniziare o appena finito il lavoro – e clienti abituali che, seduti ai tavolini in fòrmica, fumano e inveiscono con le carte in mano, mentre gli anni passano, le cose cambiano anche se non te ne accorgi mai in tempo. Nei bar non si può più fumare, la cabina telefonica degli anni ‘70 non serve più per via dei cellulari su cui, più o meno, tutti sembrano concentrati e, a parte qualche vecchio incallito, il gioco delle carte è stato sostituito da quello privo di poesia delle macchinette e dei gratta e vinci, dove insospettabili signore spendono pensione e passione.
Dall’altra parte della strada, oltre il giardino fiorito, l’acero, le betulle e l’imponente magnolia, c’è sempre la casa della sua più cara amica, Dina Valsecchi Morbegni sposata Mandrini, una magnifica villa anni ‘30, color ocra stinto con i decori grigi intorno alle finestre e le persiane di legno che, a ben vedere, avrebbero bisogno di una bella mano di vernice.
Dina è la sua amica d’infanzia. La sua amica di sempre. Un tempo la bambina ricca, molto ricca che, all’apparenza, non sapeva neppure di esserlo. Suo padre, il Cavalier Gian Rocco Valsecchi Morbegni, possedeva terreni e cascine, nei campi da Sannazzaro in direzione Pieve del Cairo e poi un casale, sulla prima collina di Casteggio verso Mornico Losana, in Oltrepò Pavese.
Oggi Dina è la nonna felice di tre splendidi nipoti biondi, proprio com’era bionda lei da bambina e com’è biondo suo figlio Roberto, direttore della Popolare di Vigevano, che in questi giorni si trova in Carinzia per un assaggio di ferie, con la moglie Beba, figlia della ricca borghesia pavese, e i tre ragazzi: i genitori impegnati tra passeggiate salutari, centro benessere e cenette bene innaffiate da vini pregiati; i figli a scorrazzare tra l’area giochi, le piscine e un sovraccarico programma di attività sportive.
Il marito di Dina si chiama Renato e, a Sannazzaro, basta dire Renato che hai detto tutto: sessantadue anni magnificamente portati, capelli candidi, fisico asciutto e abbronzato, abbigliamento modaiolo sportivo, buon giocatore di tennis e frequentatore assiduo di un centro estetico di piazza Minerva, a Pavia.
Renato Mandrini detto il René. Se lo ricorda bene, Michela, il più bel ragazzo di Sannazzaro de’ Burgondi. Quando era venuta fuori la storia che aveva messo incinta la Dina Valsecchi Morbegni, s’era sollevato un tale vespaio di pettegolezzi tra le malelingue del paese, dove allora ci si conosceva tutti e una notizia del genere poteva tenere banco anche per un anno.
Però Dina è sempre rimasta la stessa, così tenera... Ma no, bando alle ipocrisie, è un’ingenua o, meglio, una stupida, solo una vecchia stupida. Questo almeno pensa Michela Sarti, che da sempre osserva l’amica alternando affetto, invidia e compassione.
Eccola, Dina, con la sua bella abbronzatura – è da poco rientrata da Sanremo dove possiedono un appartamento in zona Padre Semeria – mentre attraversa la strada nella luce opaca della sera tra pennellate liquide di afa e nugoli di minuscoli appiccicosi moscerini, e si dirige al Bar Sarti, sorride e invita Michela alla loro quasi quotidiana passeggiata.
Un’abitudine storica, per loro due, che risale ai tempi dell’adolescenza: dalla primavera all’autunno e, nelle belle giornate terse, anche in inverno, si avviano verso la chiesetta della Madonna di Loreto, in fondo al viale alberato, chiacchierando o in silenzio, a volte recitano una preghiera e, piano piano, ritornano verso il bar.
Oggi, sulla via del ritorno, Dina ha voluto sedersi su una di quelle orrende panchine di ferro che purtroppo hanno sostituito quelle di una volta, di cemento ben lavorato, prodotte dal vecchio artigiano che aveva il laboratorio proprio all’inizio del viale.
È un caldo giallo arancio, una spugna bagnata che ti spegne ogni volontà e a poco servono le fronde profumate degli alberi. Là, in fondo, i palazzi della metà degli anni ‘70 – quelli della seconda emigrazione dal Sud – trasudano sfiancati dal sole opaco, polveroso che s’accende e si spegne nel cielo sporco. E nel parco, tra le vecchie altalene, non ci sono bambini, solo un cane meticcio e uno stormo di piccioni.
– Te la devo dire, una cosa, ma sì, Michelina, te la devo proprio dire, – dice Dina, che porta un paio d’occhialini viola sulla punta del naso, sottile e sudato.
– Cosa c’è di così grave, che lo dici con una faccia tanto triste? – fa Michela, scrutando le sue ciabatte consumate sul davanti, sorridendo al suo proverbiale disinteresse per ogni questione riguardante l’eleganza. Una volta non era così, una volta ci teneva a certi particolari e capiva pure le differenze tra ciò che è di classe e ciò che è dozzinale. Ma poi le cose sono cambiate, il senso estetico si è impigrito e la straripante massa di gusto chic prodotta e rigettata dalla TV ha fatto il resto. Così il suo disinteresse ha assunto i toni di una sottile forma di protesta.
– Penso proprio che Renato abbia l’amante. Una donna giovane, di sicuro, una di quelle che adesso, come niente fosse, fanno girare la testa agli uomini, – dice Dina, che come sempre è abituata ad essere la protagonista dei loro discorsi; in fondo è lei quella che nella vita ha fatto e conosciuto cose, mentre Michela, quasi stoica, è rimasta dietro al banco del bar, un tempo alveare di sentenze, litigi e pettegolezzi, con la tenacia d’un soldatino dimenticato in trincea.
– Tuo marito, il Renato, ma dai! – butta lì Michela, senza pressione, scoprendo in un angolo del cuore un rivolo di vergognoso piacere. D’altra parte su Renato se ne sono sempre dette tante, il fatto che piace alle donne non è un mistero, ma è anche vero che di concreto poi non c’è stato mai niente.
– Non ridere, stupida, che sto male davvero!
Michela la guarda; cretina, pensa, sei più carina adesso di quando eri giovane, poi dice:
– Non ti prendo in giro, solo che per me sei un po’ fissata, solo questo.
– Anche io vorrei che fosse come dici, ma tu le vedi le donne di oggi? Sapessi come gli girano intorno...
– Ho capito, lo so che Renato è uno che piace, però...
– Piace anche a te?
– Guarda che se non la smetti chiamo il 118 e ti faccio portare via! – dice Michela, tra il serio e il faceto, rammentando gli esaurimenti nervosi che, nel corso degli anni, ciclicamente, hanno afflitto l’amica.
– Forse sarebbe meglio, Michelina, da quando siamo tornati dal mare faccio solo cattivi pensieri. Mi lascio dominare dall’ansia, come un tempo, ma su Renato penso proprio di non sbagliare, purtroppo.
– E questo per quale motivo?
– Gli ho sentito addosso l’odore di un’altra donna, mia cara, e mi vergogno anche a dirlo.
– Stupidaggine più grossa non l’ho mai sentita.
– Non mi credi?
– Credo che sia meglio tu prenda un appuntamento col dottor Ramella, lui ti conosce bene e, quando sei stata male, ti ha sempre suggerito i giusti rimedi. E adesso vieni, torniamo al bar che l’ebete sarà già stufo di sostituirmi, così ti offro un bel gelato che magari ci leva un po’ di questa arsura, – dice Michela alzandosi, avvertendo un certo affanno in mezzo ai minuscoli seni. Intanto pensa al caldo opprimente e alla stupidità della sua vecchia amica.
DUE
Sono le nove di sera e il cielo è ancora chiaro. Una cappa opprimente e oleosa pesa sulla pianura. Il lampione lì davanti è acceso e un grumo di zanzare ci danza attorno.
Intanto, al Bar Sarti il condizionatore è fuori servizio: ma ha mai funzionato quel benedetto affare appeso alla parete?
Luigi, detto il Sindaco, sessantenne elegante buon giocatore di poker, quando ancora andava di moda partire il venerdì sera per certe trasferte a Saint Vincent, esce sui gradini e