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Racconti africani e non
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E-book296 pagine4 ore

Racconti africani e non

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Racconti africani e non è un collage di storie nelle quali l’autrice dà voce a una donna che racconta in maniera autobiografica episodi che l’hanno segnata intensamente nel corso della sua vita. Esperienze che abbracciano fasi e consapevolezze diverse, dal dolore derivante dalla perdita di una cara amica al coraggio e all’intraprendenza mostrati nella scelta di partire per il Continente nero come cooperante, e che accompagnano la protagonista alla ricerca costante del senso profondo delle nostre esistenze.


Patrizia Pirazzini è nata a Lugo (Ra) il 09/10/1955.
Laureata in scienze infermieristiche, ha svolto una parte del suo lavoro nella odierna Repubblica Democratica del Congo (Zaire, all’epoca); si è occupata di studi di pedagogia e di medicina a livello universitario senza conseguimento di lauree. Lettrice appassionata fin dall’infanzia, vive sull’Appennino tosco-emiliano.
LinguaItaliano
Data di uscita31 dic 2022
ISBN9788830675339
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    Anteprima del libro

    Racconti africani e non - Patrizia Pirazzini

    Nuove Voci

    Prefazione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterley. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov.

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    Ai miei due figli Matteo e Linda,

    primo e seconda solo in ordine di arrivo;

    per la continuazione della specie,

    per la santità della Vita,

    per Amore…

    RITA

    E quello per cui i morti non trovano parole, da vivi, ve lo possono dire da morti: essi comunicano con lingue di fuoco al di là del linguaggio dei vivi.

    Quattro quartetti, T.S. Eliot

    I

    Quando ti ho conosciuta avrò avuto diciassette anni. Tu avevi la patente e io ancora no. Quindi tu ne avrai avuti diciotto. All’incirca… Ricordare tutto… non è possibile… Una delle prime cose che mi è apparsa di te è stata la tua forza. Una forza che si camuffava dietro a un fare scanzonato, uno sguardo ironico, mai sprezzante, ma sempre gentile e sensibile soprattutto nei confronti delle creature che tu, nel tuo percepire le profondità, avvertivi bisognose e fragili. Forse tua madre ti aveva passato un po’ di questa materia. Lei era autonoma, se ne andava ogni anno in Africa, in missione, era una donna caritatevole e forte, con due mani preziose che sapevano cucire ad arte… Le tue mani erano almeno altrettanto preziose: sapevano disegnare, disegnavi benissimo… Era il tuo dono e a quello hai dedicato gran parte della tua vita. La tua forza era accompagnata da una grande generosità, quella spontanea, che dimentica, quella della quale viene detto che la destra non sa quel che fa la sinistra e viceversa. Ieri ero lì davanti alla tua bara, una cassetta piccola, come te, di colore chiaro… sopra un cuscino di fiori: rose di color rosa tenue, e gigli bianchi, delicatissimo… All’ingresso, prima di entrare alla pieve, meravigliosa, antica, ho notato che sporgeva dalla ringhiera del campetto su cui dà la sagrestia, una rosa rossa pienamente sbocciata e profumatissima! Una giornata di sole tiepido in pieno inverno a celebrare la tua dipartita: la rosa, un bel cuscino di trifogli fioriti, il cielo azzurro, il calore sulla pelle. Me ne sono stata lì in piedi a guardarti e ti vedevo nonostante tutto, percepivo la presenza di quel tuo corpo fragile, quel tuo piccolo candido e dolce involucro di carne chiara, un poco anemica – ti avevano pure trovato il mieloma in questi ultimi anni –, quel corpicino che pensavo avranno temuto di rompere quelli che ti hanno presa in braccio e vestita, e sistemata. La malattia, la furia che si è scaraventata su di te, ti ha resa ancor più fragile. Ti ho sentita, ogni volta che ti ho abbracciata, è accaduto spesso di recente, avevo timore di farti male. Anche nelle ultime passeggiate, così ristoratrici per il tuo sentirti ancora al mondo, e così appaganti per me che ho avuto l’onore di sorreggerti…sentivo il tuo corpo essersi fatto più diafano e leggero appoggiarsi a me, ne percepivo l’instabilità, la leggerezza, insieme alla volontà forte di essere presente, di esserci. Sei sempre stata generosa, senza nemmeno rendertene conto. Nemmeno riuscivi a ricordare di un periodo piuttosto lungo, di alcuni mesi, nei quali mi avevi ospitata in casa tua, molti anni fa, in effetti. Venivo da un dramma pesantissimo, avevo chiuso il matrimonio con Roberto, un’esperienza che si era trasformata dall’idillio mistico-sovrannaturale al peggiore degli incubi. Non avevo un posto dove stare, pochi mezzi per sostenermi, avevo iniziato da poco a lavorare come infermiera, dopo aver mollato gli studi di medicina. Mi offristi la tua casa, la tua presenza discreta, i tuoi mezzi. Non ho mai dimenticato, non avrei saputo come fare. Avevo ancora il lavoro a Casalecchio a Villa Chiara, ma riuscii presto ad ottenere un ruolo al Bellaria, che da lì, da via Rialto, era facile raggiungere. Fu una grande opportunità per me: di allontanarmi innanzitutto dai luoghi degli orrori, dove avevo abitato con Roberto, e senza essere costretta ad andare a stare con mia madre, dove mi sarei sentita in prigione e avrei dovuto fare la pendolare, con troppi chilometri di distanza. Una soluzione che si rivelò opportuna e ideale e della quale in quel tempo non ebbi modo di esserti nemmeno riconoscente, mi ero talmente chiusa nel mio stare male da essere diventata egoista e ingrata… E tu hai dimenticato tutto… la tua generosità intendo e il mio egocentrismo…

    Questi ultimi periodi di condivisione sono stati bellissimi. Avevo ancora tante cose da dire, e da fare con te! Ieri avrei dovuto venire a casa tua, per stare tutta la giornata insieme, avremmo messo a punto tanti piccoli progetti… E invece eccomi lì davanti alla tua bara, non potevo più abbracciarti, né accarezzarti o prenderti le mani… Ho pensato alla tua voce, ai tuoi sorrisi, a quelli infinitamente grati che mi hai regalato, tanti e tanto in questo periodo, in questo calvario che hai affrontato, a testa alta, sempre, con dignità. Ho ripensato alle cose che ci siamo dette, che sono uscite così, spontanee come l’acqua che esce dalla roccia e scorre in un ruscello montano… Mi hai fatto il dono di te, il più bello che si possa avere da qualcuno, chissà se mai potrò comprendere appieno questa cosa prima di seguirti appresso… Ho ripensato al dolore che ti devastava, che ti ha fatta urlare, che ti svegliava all’improvviso e non ti lasciava riposare… Avevi persino cambiato postura, ti contorcevi in tutti i modi possibili per sentire meno dolore, per illuderti di sentirlo meno… e ti torcevi e contorcevi passando dal letto al divano… Tranne piccole pause. E quelle pause erano feste. Di piccoli manicaretti preparati e gustati insieme, di parole e di sguardi, di intimità profonde. Siamo state bene insieme in quei brevi periodi che in questo momento mi appaiono talmente dilatati! Tanto che le poche manciate di giorni, di weekend passati assieme sembrano un tempo eterno, lo sono… Espansi nell’infinito dall’intensità del bene che siamo riuscite a donarci l’un l’altra. Quale ricompensa maggiore per averti sostenuta alle quattro di notte in preda ai dolori, averti preparato una tisana calda, la morfina da assumere e un po’ di compagnia davanti alle tazze fumanti, alla frutta secca da sbocconcellare, il burro di alta montagna, la marmellata di more fatta da me, che ti avevo portata da casa, il pane integrale…e pian piano vederti sorridere di nuovo, il dolore che si calma, i lineamenti distendersi… tornare a fare un sonnellino ristoratore prima di affrontare un’altra battaglia… Sì, perché è stato un vero bombardamento quello che ti è piombato addosso e che nessuno, nessuno, nemmeno io, ha potuto allontanare da te. Eravamo a settembre quando con Maurizio cercammo di programmare più volte di andare nella tua deliziosa casetta a Saturnia, per passare un breve periodo di vacanza, dopo esserci arresi più volte a causa di un tempo inclemente. E sono venuta a trovarti. Avevi già qualche dolore che ti infastidiva alla spalla destra. Abbiamo fatto fare la copia delle chiavi in strada Maggiore, al ferramenta del centro, da Castaldini. La data della partenza era definita, ma poi il meteo, peggiorato oltre ogni immaginazione, ci ha spinti a rinviare ancora una volta. Ultimamente andavamo a spasso a braccetto, deliziosamente, con affetto, come due sorelline. La verità se ripenso a te dalle prime volte che ti ho vista: mi sei apparsa bianca, diafana e fragile nel corpo, un po’ anemica in effetti lo sei sempre stata. Infatti nei primi giorni di ricovero, prima di sottoporti alle immunologiche e dopo i vari controlli, ti hanno pure somministrata una sacca di sangue. Più i diuretici, il catetere, del quale eri spaventatissima, la morfina a pacchi, il cortisone, ecc., tutto quello che non avresti mai voluto assumere. Ti curavi con la medicina naturale di regola. Io ero allibita dalla quantità di barattoli e boccette. Ingoiavi roba a tutte le ore! La tua amica dottoressa curava così… e tu molto diligentemente osservavi le prescrizioni, e siccome amavi essere precisa, scrivevi tutto. Non solo per quel che concerneva il prenderti cura della tua salute, ma per tutte le cose che ti riguardavano. Progetti, appuntamenti… sul tavolo bianco era tutto un pullulare di biglietti. Eri convinta di essere smemorata e ricorrevi a vari stratagemmi per ovviare all’inconveniente. Quando era ora di uscire ad esempio, anziché mettere una collana – sempre sei stata un poco spartana, ma ultimamente sembrava tu avessi rinunciato alla tua femminilità esteriore e ti vestivi in modo esageratamente semplice e comodo: tute, pantaloni, felpe, tutto nero così, dicevi, evitavi il problema di coordinare i colori – ti mettevi al collo una grande cordella di stoffa con appese le chiavi. E infine la giacca e lo zainetto, e via! Devo per amor di verità aggiustare questa idea di sobrietà che ti sto incollando addosso… forse la tua vita precedente, quella più buia per me che ti ho persa di vista per molti anni, aveva influito nel senso di una ricerca del raro, del particolare, di una pura raffinatezza. Ma è indubbio che la bellezza ha avuto una gran parte nella tua vita. Una bellezza scarna, essenziale, priva di ghirigori, detestavi il barocco ad esempio, e mai niente di grossolano. Volevo stare con te, ancora un po’…

    Ho apprezzato il discorso che ha fatto il prete: è stato molto semplice, breve e condivisibile, al di là, mi è apparso, di quelle che possono essere varie ideologie di tipo religioso. In sostanza riferendosi alla morte ha detto che non si deve pensare a una eternità che viene dopo. L’eternità è qui e adesso. Questa è la fede. Se credi, se hai fede, credi nell’eternità qui e ora. Mi ha scossa da un certo torpore che mi aveva preso in quel momento, mi è apparso talmente in linea con ciò che sento da apparirmi rivoluzionario. Benedire in fondo al nostro cuore, questo è quanto ci deve riguardare, ogni creatura, ogni esistenza, benedire e benedire ancora! Ieri sera ho sentito Maria, è positiva al virus, come prevedibile. Per fortuna sta bene. Domenica notte ha avuto un gran mal di testa. In più le si era insinuata una tosse stizzosa e secca, molto pesante, che al momento pare si stia dileguando. Lo spero vivamente.

    Maria è una gran persona, proprio come mi hai sempre descritto. Ora è rinchiusa nel suo appartamento, con il benestare di tuo cognato. Dovrà fare la quarantena, e poi rifare il tampone. Mi auguro ne uscirà. Per te non è andata bene, non poteva… Credo di potere oggi accogliere la tua morte come un fatto naturale. Mi ci è voluto tanto, una vita intera per capire che la morte non è nulla in sé stessa. Solo una faccia della medaglia, una delle infinite porte che traversiamo. In fondo la vita altro non è che un gran prepararsi a quel passaggio, se solo sapessimo guardare serenamente al di là di quella soglia. Forse riusciremmo a intravedere un mare dorato, una nave che ci aspetta, verso un mondo fatto di libertà e di consapevolezza.

    Rita aveva molte consapevolezze, era avanti, non so se ha potuto con facilità superare quella porta. Di certo conosceva molti dei suoi limiti e dei suoi attaccamenti. Più della media delle persone che conosco. E in cuor mio posso solo benedire quel suo andare verso il compimento della sua missione. Lei che si alzava tutte le mattine alle sei e andava ai giardini Margherita per lanciare i pesci all’airone vecchio e malato (Tesoro piccolo, scricciolo che hai fatto il nido nella mia anima, resterai per sempre nel mio cuore!). Lei che desiderava lasciare gran parte dei suoi beni a una donna che si occupa di riabilitazione degli uccelli, in collaborazione con il Lipu di Bologna. Ripenso spesso, ora, a tutto quello che abbiamo vissuto insieme, tanti eventi importanti, veri e propri cardini nella vita, non so bene da che parte cominciare.

    Una sera, inizio estate, pomeriggio tardi, mi telefonasti a casa. «Patty, andiamo a Taranto in autostop? Da Sandro. Se arriviamo a Napoli lui ci viene a prendere lì, insieme a un amico». Dovevamo partire in serata e lei, dopo poco, passò a prendermi a casa con la sua Cinquecento, dopo che avevo lasciato un biglietto a mia madre. Alle venti e trenta avevamo lasciato la sua auto – non ricordo il posto preciso – ed eravamo al casello dell’autostrada, pronte, con il dito fuori. Una cosa che avevamo in comune era una gran testa di ricci, come Angela Davis, a quel tempo. Riesco a rivedere noi due, piccole e minute, gran teste di ricci, a implorare un passaggio. Emozionate, ma non spaventate. A quei tempi bastava aver un po’ di sale in zucca e difficilmente ti sarebbe capitato qualcosa di male facendo l’autostop. Per me che ancora non avevo la patente era una pratica piuttosto usuale. Ma di solito andavo a Bologna, o a Bagnacavallo dalle amiche. In tutti i modi si trattava di tratti brevi. Ma quello era un vero e proprio viaggio, zaino in spalla e tanta gioia ed entusiasmo! Ancora non era buio, trovammo un passaggio in auto fino a Firenze. Ci lasciarono a un Motta grill. Da lì cominciammo a guardarci intorno e a chiedere. Un camionista ci offrì due posti nel suo camion, diritte fino a Napoli. Fantastico, saremmo state lì all’alba più o meno, così telefonammo a Sandro per aggiornarlo. Sandro era il suo ragazzo – si diceva così a quel tempo –, uno dei suoi, ma sicuro quello che amava di più. Uno dei due uomini che ha amato di più nella sua breve vita. Una notte esaltante, non dormimmo mai, chiacchieravamo di continuo e tenemmo ben bene sveglio il nostro autista. Arrivammo a Napoli che faceva giorno da poco…Sandro e Pasquale dovevano ancora arrivare. Facemmo alcuni passi nel sole, fra lunghe ombre sull’asfalto, assonnate, come in sogno, senza allontanarci troppo… Arrivarono dopo circa un’ora mi sembra, un tempo non troppo lungo, ci caricarono e via a tutta birra, sparati verso Taranto. Inutile forse aggiungere che erano provvisti di fumo, marijuana e tutto il corredo necessario. Estasi artificiale, certo, ma estasi fu e arrivammo a Taranto che ci serviva un letto, per dormire. Punto. Erano gli anni in cui si facevano quelle esperienze. Mi innamorai di Alan Stivell che roteava tutto il giorno su un giradischi e creava immagini fiabesche di dame, cavalli, foreste… Pasquale aveva molti 33 giri di musica notevole. In quegli anni si ascoltava solo musica notevole. La sua casa era piccola ma funzionale, nel soppalco di legno aveva allestito un grande letto per ospitarci. Io per qualche giorno mi innamorai di lui, ma durò poco. Sentivo che mi spegneva, una grande dolcezza, ma poca incisività. E io a quel tempo cercavo altro. Ma fummo amici e questo rimase… Loro lavoravano entrambi in siderurgia. La famosa ILVA di Taranto. Ci portarono di notte a vedere quanto tingeva di rosso il cielo. Io e Rita trovammo posto come lavapiatti in un ristorante, giusto per pagarci le spese.

    A Taranto rimasi più di un mese, quaranta giorni forse. Non ho troppi ricordi a parte l’ILVA di notte che infuocava il cielo, i sorrisi caldi e avvolgenti di Sandro, la sua ironia e quel suo fremito costante, senza pause… Ci portarono a vedere il tramonto sul mare tutte le sere, ci sdraiavamo sugli scogli, fumati da far spavento… imparai a fare il minestrone di verdure con i ceci. Si fece anche una puntata ad Alberobello, non a vedere i trulli, ma a cenare in un trullo, dove una giovane coppia di amici di Sandro e Pasquale ci avevano invitati a cena. Forse si erano sposati da poco oppure no, in ogni modo avevano un bambino, piccolo, molto piccolo, di poche settimane di vita, un maschietto mi sembra. Venire al mondo in un trullo, che cosa buffa e particolare mi apparve. Avevo idea di essere entrata in un presepio, fra i panni stesi dentro, su uno stendino di fortuna e la scala a chiocciola, fra animali domestici e una tavola imbandita… L’idea era distante da me a quel tempo. Non pensavo a un bambino come possibile figlio mio, e nemmeno a un compagno troppo fisso, per nulla a un marito… ma trovai tutto molto dolce. Poi un giorno presi il treno e me ne tornai su un regionale allucinante sul quale rimasi in piedi per la maggior parte del tempo a causa dell’affollamento. Rita si trattenne ancora, forse altre due settimane o giù di lì…

    (Oggi il vento fischia e urla contro i muri di casa. Sembra una creatura in agonia. Si lamenta con tutta la forza che ha… si piega in avanti. E si incurva su sé stesso. Così hai fatto anche tu ogni volta che il dolore ti ha aggredita. E io ti guardavo, reggendo il tuo sguardo mi impegnavo a reggere il tuo dolore, facevo il possibile perché tu lo sentissi meno violento, sopportabile. Ti sorridevo, cercavo di infonderti serenità. Tu lo capivi e mi eri grata, sorridevi anche tu e riuscivi persino a tirare fuori qualche battuta ironica. È incredibile il potere che possiede l’Amore. Se solo sapessimo sprigionarlo).

    Abbiamo avuto storie intense e pause importanti. Una di queste ultime è durata più di vent’anni. Un giorno, tre anni e mezzo fa, mi sono messa in testa di cercarti. Ho provato il vecchio numero di telefono, ma mi rispondeva una straniera che ti era del tutto estranea. Ho pensato di cercarti su Facebook. Le ultime notizie che avevo di te erano che te ne stavi in Svizzera, a Lugano mi sembrava. Avevo Matteo in braccio di pochi mesi l’ultima volta che ti avevo sentita al telefono. Preparavi una piccola mostra. Pensavo di venirti a trovare, ma mi scoraggiasti dal farlo, per via del bambino piccolo. Sarebbe stato tutto troppo faticoso dal tuo punto di vista e alla fine ti diedi retta. Un po’ a malincuore, ma lo feci. Con Linda, la mia seconda figlia, non pensai più a cercarti, quel che avevo da fare era abbastanza! E fu silenzio, per tanto tempo! Quando ti cercai su Facebook non trovai proprio nulla. Ma mi venne in mente di cercare Mario, un amico che avevamo in comune e che sapevo essere stato importante per te. Lo rintracciai facilmente, si occupava di cinema, rimasto anche lui in un discorso artistico-culturale. Mi consigliò di scriverti una mail, dopo avermi passato un altro telefono che non ti apparteneva più. Con l’indirizzo mail fui più fortunata, mi rispondesti subito e scoprii che eri di nuovo a Bologna, in via Rialto, già da qualche anno, dove ti avevo lasciata. Alcune vicissitudini famigliari ti avevano spinta a rientrare dalla Svizzera prima del tempo previsto. Ci accordammo e un pomeriggio di primavera, con certi biscotti integrali fatti da me per te, mi presentai in via Rialto. Invecchiate, ovvio, riprendemmo da dove eravamo rimaste, con molta naturalezza. Fra le altre cose mi proponesti di prendere un fascicolo del tribunale che riguardava la denuncia di apologia di reato che ci avevano sporto alcuni operatori ATC per quel nostro intricato pasticcio, la notte in cui avevano ucciso Moro. Rifiutai gentilmente, assicurandoti che un giorno lo avrei preso. Mi parlasti delle vicende importanti che erano accadute in quegli anni. L’appartamento era in attesa di alcune porte che avevi fatto restaurare, dopo l’incendio che lo aveva devastato. La causa: un contatto elettrico nella stanza piccola, quella degli ospiti, dove anche io era stata ospite. Era bruciato tutto, compresi i tuoi anni di lavoro, i materiali, i pennelli, i tuoi disegni, quelli di alcuni tuoi colleghi e dei tuoi studenti. Una catastrofe! Che era nulla, ebbi modo di comprendere abbastanza rapidamente. Nulla, in confronto alla tragedia avvenuta nella tua famiglia. Vera, la sorella più grande, la più bella e assennata della famiglia (quando eravamo giovani la giudicavi un poco, ricordo, borghese; così si definivano gli affiliati al sistema, ma ora era diverso…) si era ammalata di cancro alla mammella e nonostante le cure più ricercate e costose non c’era stato niente da fare. Addio alla bellezza, alla giovinezza, al marito che l’adorava, ai capelli rossi e alle lentiggini… Passato un anno, un altro calvario, la mamma novantenne e devastata dalla perdita della figlia cominciò a delirare e per altri due anni corresti facendo la spola fra Svizzera e Bagnacavallo, massacrandoti fisicamente e di sensi di colpa… Dovevi licenziarti e seguire tua madre? Alla fine ottenesti un posto per insegnare a Bologna, al liceo artistico. Era stato tutto molto difficile, pesante, traumatico naturalmente! Tutto quel dolore! E le perdite ravvicinate, pensavi di non avere fatto abbastanza… e scoppiasti in singhiozzi. Era la prima volta che ti vedevo piangere. Non durò molto, tornasti in te in fretta, come se ti vergognassi, ma ebbi modo di contemplare una grande devastazione che si era compiuta nel tuo essere. E compresi anche che a causa di tutto quel dolore e dello smarrimento che ne era derivato ti eri rinchiusa al mondo. Vera comunque, come era nel tuo stile, incapace di fingere, spartana ed essenziale, e sempre dolcissima e generosa. Ma eri spaventata e un po’ meno scanzonata. La vita a volte ci mette alla prova molto seriamente. Decisi che ero troppo contenta di averti ritrovata e che non ti avrei più persa.

    Ora sento Maria quasi tutti i giorni, per farle un po’ di compagnia, e per parlare di te. L’altra sera abbiamo parlato parecchio, e ho potuto colmare alcuni buchi vuoti della tua vita. Questa orrenda malattia che ti ha sorpresa alle spalle e che ti ha gettata nella fucina di un demonio ha sconvolto tutti, anche me che ti stavo seguendo passo passo, e speravo davvero, contavo, di riuscire a darti una mano. Desideravi alcuni mesi, un anno di vita. C’era una

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