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La Repubblica di Weimar. Lotta di uomini e ideali
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La Repubblica di Weimar. Lotta di uomini e ideali
E-book415 pagine4 ore

La Repubblica di Weimar. Lotta di uomini e ideali

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La Repubblica di Weimar, la prima tormentata democrazia tedesca, costituì un innovativo e conflittuale laboratorio dove si intrecciarono e si scontrarono le grandi correnti politiche del Novecento. A più di un secolo dalla sua fondazione, il libro si propone di ripensare quest’inedita esperienza attraverso il prisma della violenza politica che contraddistinse quel «tempo di idee combattenti», riprendendo un importante filone di studi internazionale che in Italia ha avuto ancora scarsa eco. La narrazione si addentrerà nella traduzione dei grandi conflitti sociali che segnarono gli anni Venti e Trenta nella vita quotidiana dei militanti politici (comunisti, nazisti, socialdemocratici e anarchici), protagonisti di una vicenda che ha ben poco di epico, di pulito, di facilmente catalogabile e giudicabile. È una storia che invece sa di sangue, di selciato, dei muri ammuffiti delle birrerie e dei caseggiati dove si combatté una lotta senza quartiere contro l’ascesa di Adolf Hitler, in un caleidoscopio di esperienze che parla la lingua di oggi. In un presente, infatti, dove l’estrema destra, forte dei successi elettorali dei partiti cosiddetti populisti, ambisce nuovamente a conquistare le periferie, Weimar risulta ancora quanto mai attuale.
LinguaItaliano
EditoreDiarkos
Data di uscita18 nov 2020
ISBN9788836160730
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    Anteprima del libro

    La Repubblica di Weimar. Lotta di uomini e ideali - David Bernardini

    Elenco delle sigle principali

    Adgb: Allgemeiner Deutscher Gewerkschaftsbund (Confederazione generale dei sindacati tedeschi)

    Brd: Bundesrepublik Deutschland (Repubblica federale tedesca)

    Bvp: Bayerische Volkspartei (Partito popolare bavarese)

    Ddp: Deutsche Demokratische Partei (Partito democratico tedesco)

    Ddr: Deutsche Demokratische Republik (Repubblica democratica tedesca)

    Dnvp: Deutschnationale Volkspartei (Partito popolare nazionale tedesco)

    Dvfp: Deutschvölkische Freiheitspartei (Partito della libertà tedesco-völkisch)

    Dvp: Deutsche Volkspartei (Partito popolare tedesco)

    Faud: Freie Arbeiter Union Deutschlands (Libera unione dei lavoratori tedeschi)

    Kapd: Kommunistische Arbeiterpartei Deutschlands (Partito operaio comunista tedesco)

    Kpd: Kommunistische Partei Deutschlands (Partito comunista tedesco)

    Nsdap: Nationalsozialistische Deutsche Arbeiterpartei (Partito nazionalsocialista tedesco dei lavoratori)

    Oc: Organisation Consul (Organizzazione Consul)

    Ohl: Oberste Heeresleitung (Comando supremo dell’esercito)

    Rdi: Reichsverband der deutschen Industrie (Associazione dell’industria tedesca)

    Rfb: Roter Frontkämpferbund (Lega dei combattenti del Fronte rosso)

    Sa: Sturmabteilung (Sezioni d’assalto)

    Spd: Sozialdemokratische Partei Deutschlands (Partito socialdemocratico tedesco)

    Ss: Schutzstaffeln (Squadre di protezione)

    Uspd: Unabhängige Sozialdemokratische Partei Deutschlands (Partito socialdemocratico indipendente tedesco)

    Germania 1920: le regioni.

    Germania 1920: alcune delle principali città.

    Introduzione

    A Berlino ho trovato il mondo: il grande mondo bellissimo e pieno di confusione […]. Quindi no, cara madre, non tornerò a Colonia. Spero mi capirai. Resterò dove ho trovato l’amore, dove si combatte per la strada, dove riesco a sentire il mondo che sotto i miei piedi gira.

    Jason Lutes, Berlin. La città di fumo

    Alla fine del luglio 1932 Simone Weil lasciava la Francia alla volta di Berlino, dove rimase fino ai primi di settembre. In La Germania in attesa raccolse le sue impressioni, tracciando un quadro estremamente vivido dell’ultima fase della Repubblica di Weimar1. La drammatica crisi economica mondiale del 1929 aveva precarizzato l’esistenza di gran parte dei tedeschi, scriveva, e «chiuso qualsiasi prospettiva per il futuro». Cinque milioni di disoccupati sopravvivevano solamente grazie ai «precari» sussidi statali e comunali, «più di due milioni sono a carico dei loro famigliari, o mendicano o rubano». Per i giovani, in particolare, la crisi «costituisce lo stato di cose normale, l’unico che abbiano conosciuto». Per loro sposarsi, fare una famiglia, avere figli, erano diventate prospettive vuote: «Il pensiero degli anni a venire è privo di qualsiasi contenuto».

    In questa situazione, «il giovane tedesco, operaio o piccolo borghese, non ha più un angolo della sua vita privata al sicuro della crisi» e, quindi, ogni aspetto del suo quotidiano si politicizzava inesorabilmente. La situazione della Germania nell’estate 1932 sembrava pertanto «corrispondere perfettamente alla definizione di una situazione rivoluzionaria». Eppure, Weil era rimasta colpita dall’«assenza di agitazione»: a Berlino «tutto è in attesa», «la calma stessa ha qualcosa di tragico». La crisi economica durava infatti da abbastanza tempo sia per far comprendere a molti che era necessario pensare ad alternative radicali, sia per togliere agli stessi «la forza di cercare una soluzione qualsiasi».

    Gli ultimi mesi della Repubblica di Weimar vedevano contrapporsi tre partiti di massa. Per Weil, il partito nazionalsocialista (Nsdap) di Adolf Hitler si caratterizzava per la capacità di tenere insieme intellettuali, l’«ampia massa di piccolo borghesi», impiegati, contadini e una parte dei disoccupati: «il legame tra elementi così diversi non è costituito tanto da un sistema di idee, quanto da un insieme di sentimenti confusi, basati su una propaganda incoerente», cementata dal «fanatismo nazionalista», dal rimpianto per il «socialismo del fronte» e dalla diffusa convinzione «di essere schiacciati non tanto dal proprio capitalismo quanto dal capitalismo dei paesi vincitori». Ad attirare i consensi non era in ogni caso tanto la propaganda, osservava Weil, quanto il senso di forza emanato dal partito.

    I membri del partito socialdemocratico (Spd) erano «al contrario persone ragionevoli», in gran parte operai qualificati che erano riusciti a mantenere il loro posto di lavoro. Negli anni passati avevano messo in piedi una struttura straordinaria formata da «casse di mutuo soccorso, biblioteche, scuole». Con la crisi, si erano rifugiati «in preda alla paura dietro all’unico elemento di stabilità, il potere dello Stato», per poi rimanere inerti, secondo Weil più preoccupati per una possibile rivoluzione che dal fascismo. Nel partito, tuttavia, i giovani scalpitavano, criticavano la leadership e la sua passività, proclamavano la loro disponibilità alla lotta. Ma non era affatto chiaro quale fosse l’obiettivo. Weimar non sembrava abbastanza, ma l’alternativa non si vedeva. «La questione del regime gli operai socialdemocratici non osano guardarla in faccia», scriveva Weil, e così l’opposizione dei giovani socialisti rimaneva in gran parte «incerta, dispersiva».

    Il partito comunista (Kpd), infine, si componeva in grandissima parte da giovani disoccupati di recentissima politicizzazione: «Così il proletariato tedesco ha come avanguardia, per fare la rivoluzione, solo dei disoccupati, uomini privati di ogni funzione produttiva, respinti dal sistema economico, condannati loro malgrado a vivere da parassiti e inoltre del tutto sprovvisti sia d’esperienza sia di cultura politica». Per Weil, un partito di questo tipo predicava «la rivoluzione senza essere in grado di prepararla». Alla sua sinistra, le piccole correnti rivoluzionarie non riuscivano a essere incisive, a trasformare il «sordo malessere» di molti militanti in qualcosa di più articolato.

    Agli occhi di Weil, nell’estate 1932 si poneva una secca alternativa: o rivoluzione o fascismo. Con i partiti socialdemocratico e comunista intrappolati nelle loro stesse scelte, rimaneva un’unica forza ancora viva nella società tedesca, capace di sbarrare la strada a Hitler: «È impossibile disperare degli operai tedeschi conoscendoli», quei «giovani operai dagli occhi febbrili, dalle guance scavate, che misurano a grandi passi le vie di Berlino», che resistevano «a ogni forma di disperazione», «coscienti della tragica sorte toccata loro», sempre pronti a trovare «qualche soldo per le organizzazioni sportive», a privarsi «del pane per acquistare libri»2. A loro, dunque, e solo a loro Weil guardava con fiducia, assegnandoli un compito enorme e terribile, consistente nel salvare la Germania dal nazismo. Come sappiamo, il tallone di ferro del Terzo Reich avrà la meglio.

    Nel fango delle trincee dove persero la vita milioni di persone tra il 1914 e il 1918 nacque il «secolo breve», cioè il Novecento, e prese le mosse la «guerra civile europea», un ciclo di eventi catastrofici (conflitti, rivoluzioni, controrivoluzioni, crisi economiche) strettamente connessi tra loro che termineranno solamente nel 1945. In tale contesto, le idee e le pratiche politiche subirono una profonda ridefinizione determinando una simbiosi tra politica, violenza e cultura. Alla fine della Prima guerra mondiale e all’indomani della Rivoluzione russa, «tutta la riflessione sulla cultura e sulla politica aveva ora, alle sue spalle, un immediato retroscena catastrofico, non era più soltanto supposizione, ma esperienza viva»3. Era «un tempo di idee combattenti», come avrebbe efficacemente scritto nel 1932 un giornale nazionalrivoluzionario4.

    Tentando di schematizzare alcuni grandi processi storici, si potrebbe osservare che la Prima guerra mondiale aveva mandato in crisi i due filoni politici che si erano contrapposti nel corso della Belle époque, ossia il socialismo riformista e il liberalismo. In questo scenario irruppero due correnti ideologiche, quella rivoluzionaria e quella nazionalista, radicalizzate ed estremamente sfaccettate al loro interno, che non solo si affrontavano tra loro, ma sfidavano anche un mondo percepito come vecchio e antiquato. La Repubblica di Weimar fu uno dei luoghi in cui tale conflitto politico e ideologico raggiunse i più acuti e dispiegati livelli di scontro5.

    Queste pagine si propongono dunque di prendere in esame la lotta di idee, di uomini e di donne che segnò tutta la parabola della prima democrazia tedesca. Sul crinale tra storia politica e storia del pensiero politico cercherò di porre in evidenza alcuni aspetti di quell’intreccio tra dimensione fisica e dimensione simbolica del conflitto politico weimariano, sottolineando due elementi. In primo luogo, mi soffermerò – con l’ausilio della letteratura esistente – sulle organizzazioni paramilitari di cui si dotarono pressoché tutte le forze politiche dell’epoca, sintomo della «militarizzazione sociale della cultura politica della Repubblica di Weimar»6. Per comprendere il Fronte rosso, il Reichsbanner o le Sa, infatti, è necessario collocare questi fenomeni sullo sfondo della storia tedesca tra le due guerre mondiali. In secondo luogo, tenterò di mostrare come tale conflittualità non fosse il prodotto di una cieca violenza, ma avesse dietro di sé i grandi dibattiti ideali e le tensioni sociali, economiche e culturali del Novecento. Come ha affermato a questo proposito lo storico Dirk Schumann nel suo Politische Gewalt in der Weimarer Republik, nelle strade non si combatteva solamente una «guerra per procura» tra destra e sinistra, «ma anche tra i rappresentanti della borghesia e dei lavoratori per la supremazia nella sfera pubblica»7.

    Un ulteriore avvertimento: non si tratta di un volume specialistico. Per i lettori più esperti o appassionati dell’argomento, diversi fatti e interpretazioni qui descritti non suoneranno nuovi in molti casi. Il mio proposito è piuttosto quello di presentare, in una narrazione complessiva e di immediata ricezione, un insieme di problemi dibattuti a livello internazionale che in lingua italiana non hanno trovato lo spazio che meriterebbero e che in parte sono rimasti confinati in lavori accademici o settoriali8. A questi studi faccio riferimento nelle note, che ho comunque cercato di limitare il più possibile per una maggiore fruibilità della narrazione.

    La mia disamina prende le mosse dalla Rivoluzione tedesca (1918-1919). Spesso considerata un evento negativo in quanto rivoluzione ora tradita ora fallita, recentemente alcuni studi sono tornati a porre l’accento sul suo impatto nella storia europea, facendo notare che fece terminare il conflitto mondiale e trasformò l’Impero guglielmino in una democrazia parlamentare9. La narrazione proseguirà con la ricostruzione del putsch di Kapp e della conseguente Armata rossa della Ruhr, del tentativo di insurrezione comunista nella Germania centrale del 1921 (la cosiddetta Azione di Marzo) fino ad arrivare allo «Schicksaljahr» (Anno fatidico), il 1923.

    Come si noterà, ho riservato ampio spazio agli anni centrali della Repubblica di Weimar, i cosiddetti golden years (anni d’oro), straordinario campo di sperimentazione in cui si prepararono tutti i componenti della deflagrazione politico-sociale successiva10. Se si osservano le organizzazioni militanti messe in piedi dalle diverse forze politiche, si noterà che proprio tra il 1924 e il 1929 la lega dei veterani di destra Stahlhelm assunse una dimensione nazionale, nacquero il Reichsbanner repubblicano e il Fronte rosso comunista, si ricostituì la Nsdap e si riorganizzarono le Sa.

    Per quanto riguarda l’ultima fase (1930-1933), oltre alla ricostruzione degli eventi e dei processi principali ho dedicato un certo spazio ad alcuni movimenti e gruppi a sinistra del Partito comunista e a destra del Partito nazista. La sinistra nazionalsocialista di Otto Strasser, i nazionalbolscevichi e gli anarcosindacalisti servono in questa sede a complicare il quadro, a evitare di fare inconsciamente propria l’autorappresentazione delle principali correnti politiche dell’epoca. Non esistevano nella Repubblica di Weimar (né esistono) correnti monolitiche, ma c’era (e c’è) sempre una circolazione di slogan, idee e concetti tra i gruppi maggiori e quelli minoritari, che lo studio di questi ultimi aiuta a cogliere11.

    I brevi capitoli che compongono la seconda parte e chiudono il volume costituiscono ciascuno un focus su un particolare argomento. Il primo affronta l’antisemitismo tedesco attraverso due episodi di violenza contro gli ebrei a Berlino, il secondo mostra i tentativi del Partito comunista di fare propria la questione nazionale, il terzo restituisce un frammento della grande vitalità culturale del movimento operaio weimariano, il quarto prende in esame la dimensione simbolica di alcune organizzazioni militanti incontrate nella prima parte.

    Come si vedrà, quella di Weimar è una vicenda complicata, per nulla rassicurante, contraddistinta da vicoli ciechi, promettenti tentativi caduti nel vuoto, brucianti sconfitte, dolorosi fallimenti e durissime polemiche. Il suo studio non offre risposte facili, non regala soluzioni sicure. Nascoste tra le pieghe della storia, si possono solamente illuminare figure, episodi e idee di quello che storia non è stata e tentare di capire la molteplicità di ragioni per cui le cose in Germania tra gli anni Venti e Trenta andarono proprio in quel modo e non diversamente, sfociando negli orrori del Terzo Reich. Spiegare e capire, senza per questo dare per assunto che doveva necessariamente andare così, senza per questo dimenticare le alternative, perdenti, sicuramente, ma vive e palpitanti, sviluppatesi in quello straordinario laboratorio che fu la Repubblica di Weimar.

    Gran parte di questo libro è stato scritto durante il lockdown, tra il gennaio e il maggio del 2020. Avrei voluto dedicare un capitolo all’epidemia di spagnola che attraversò l’Europa tra il 1918 e il 1920, ma sarebbe stato troppo influenzato dalle mie impressioni personali del momento. Ho preferito quindi lasciar perdere. Le limitazioni all’accesso del patrimonio librario hanno in parte condizionato la direzione presa da alcuni capitoli. Per fortuna avevo raccolto gran parte del materiale necessario nei mesi precedenti. Mi sembra comunque doveroso specificarlo per correttezza nei confronti del lettore. In questi mesi di scrittura, più solitaria del solito, mi sono reso conto dell’importanza della gestione degli spazi. A posteriori, penso che questo abbia influenzato la mia attenzione nei confronti di nomi di strade, quartieri e osterie che si ritroverà in queste pagine.

    Nel corso della progettazione e della stesura del testo Matteo Montaguti ha avuto un importante ruolo di stimolo – è piacevole lavorare con un giovane e attento editor. In un palazzo in quarantena i vicini diventano una presenza rumorosa, molto rumorosa nel mio caso. Purtroppo, non posso cedere alla tentazione di attribuire loro e al contesto generale responsabilità circa errori, imprecisioni e omissioni, che rimangono soltanto mie.

    1. Simone Weil (1909-1943): dopo la laurea in filosofia all’École Normale Supérieure, insegnò nei licei. Nell’estate 1932 si recò in Germania per osservare meglio il fascismo. Al suo ritorno in Francia, oltre a riprendere l’insegnamento, collaborò con riviste come «Libres Propos», «La Révolution prolétarienne» e «L’École emancipée». Conobbe il comunista dissidente Boris Souvarine e si scontrò con Trotskij sulla natura sociale dell’Urss. Nell’inverno 1934 scelse di lavorare in fabbrica per poter «parlare della questione operaia con cognizione di causa». Dopo essersi unità alla colonna Durruti durante la guerra civile spagnola, una banale ferita la costrinse a rientrare in Francia dopo breve tempo. Si interessò di storia delle religioni e di storia della filosofia elaborando un proprio personale sistema di pensiero fortemente marcato in senso mistico e religioso, senza per questo aderire al cattolicesimo. Interrogata più volte a causa dei suoi contatti con la Resistenza francese, si trasferì in Inghilterra dove morì di tubercolosi a soli trentaquattro anni.

    2. S. Weil, La Germania in attesa. Impressioni di agosto e settembre 1932, in S. Weil, Sulla Germania totalitaria, Adelphi, Milano, 1990, pp. 38-64.

    3. Per questo brevissimo inquadramento, i miei punti di riferimento sono: E. J. Hobsbawm, Il secolo breve. 1914-1991, BUR, Milano, 2010; E. Traverso, A ferro e fuoco. La guerra civile europea 1914-1918, il Mulino, Bologna, 2007; K. D. Bracher, Il Novecento secolo delle ideologie, Laterza, Roma-Bari, 1985. L’ultima citazione è in: ibidem, p. 182. Per una riflessione complessiva sul tema della guerra civile europea: C. Cornelissen, La guerra civile europea dei trent’anni, riflessioni su un topos storico-politico, «Ricerche di storia politica», (2015), n. 2, pp. 137-144.

    4. W. Lass, Zur Lage, «Umsturz», (1931), n. 3.

    5. Sulla Repubblica di Weimar esistono in lingua italiana diverse trattazioni generali, alle quali ho fatto in vario modo riferimento nel corso della narrazione. A. Rosenberg, Origini della Repubblica di Weimar, Sansoni, Firenze, 1972 (prima ed.: 1928); E. Eyck, Storia della Repubblica di Weimar, Einaudi, Torino, 1966 (prima ed.: 1954); W. Laqueur, La Repubblica di Weimar 1918-1933. I mali oscuri della democrazia europea, Bur, Milano, 2002 (prima ed.: 1974); H. Schulze, La Repubblica di Weimar. La Germania dal 1918 al 1933, Il Mulino, Bologna, 1987 (prima ed.: 1982); H. A. Winkler, La Repubblica di Weimar, 1918-1933. Storia della prima democrazia tedesca, Donzelli, Roma, 1998 (prima ed.: 1983); M. Broszat, Da Weimar a Hitler, Laterza, Roma-Bari, 1986 (prima ed.: 1984); D. Peukert, La Repubblica di Weimar. Anni di crisi della modernità classica, Bollati Boringhieri, Torino, 1996 (prima ed: 1987); S. Trinchese, La repubblica di vetro. La nascita di Weimar tra rivoluzione e continuità, Studium, Roma, 1993; A. Wirsching, Weimar, cent’anni dopo. La storia e l’eredità: bilancio di un’esperienza controversa, Donzelli, Roma, 2019 (prima ed. della prima parte: 2000); E. Nolte, La Repubblica di Weimar. Un’instabile democrazia fra Lenin e Hitler, Marinotti, Milano, 2006 (prima ed.: 2006); E. D. Weitz, La Germania di Weimar. Utopia e tragedia, Einaudi, Torino, 2008 (prima ed.: 2007); G. Mai, La Repubblica di Weimar, Il Mulino, Bologna, 2011 (prima ed.: 2009); G. Corni, Weimar. La Germania dal 1918 al 1933, Carocci, Roma, 2020. Un momento importante per lo studio di Weimar nel contesto italiano è stato un convegno organizzato l’11-12 novembre 1977 dall’Istituto Gramsci Emilia-Romagna, i cui atti sono contenuti in: Weimar. Lotte sociali e sistema democratico nella Germania degli anni Venti, L. Villari (a cura di), il Mulino, Bologna, 1978. Tra gli intervenuti c’erano studiosi come Enzo Collotti e Gian Enrico Rusconi. Oltre a quelli citati nel corso del testo, segnalo due loro significativi contributi: E. Collotti, La Germania nazista. Dalla Repubblica di Weimar al crollo del Reich hitleriano, Einaudi, Torino, 1962; G. E. Rusconi, La crisi di Weimar. Crisi di sistema e sconfitta operaia, Einaudi, Torino, 1977. Pur non trattandosi di un manuale, segnalo il recente: B. C. Hett, La morte della democrazia. L’ascesa di Hitler e il crollo della repubblica di Weimar, Einaudi, Torino, 2019. Efficace e piuttosto fedele nel cogliere certe atmosfere weimariane è Berlin, graphic novel di Jason Lutes pubblicata in Italia in tre volumi (La città delle pietre, La città di fumo, La città della luce).

    6. S. Reichardt, Camicie nere, camicie brune. Milizie fasciste in Italia e in Germania, il Mulino, Bologna, 2002, p. 227.

    7. Del volume, pubblicato nel 2001, esiste una traduzione inglese a cui farò riferimento in queste pagine. Si tratta di: D. Schumann, Political Violence in the Weimar Republic, 1918-1933. Fight for the Streets and Fear of Civil War, Berghahn Books, New York, 2012, p. 181.

    8. Il pubblico di lingua italiana ha a disposizione sulle organizzazioni paramilitari delle forze politiche weimariane: V. Gentili, Bastardi senza storia. Dagli Arditi del Popolo ai Combattenti Rossi di Prima Linea: la storia rimossa dell’antifascismo europeo, Castelvecchi, Roma, 2011. Il volume ha il merito di presentare, con un taglio molto partecipato, una parte delle vicende che esamineremo in queste pagine.

    9. Per es.: Die vergessene Revolution von 1918/19. Erinnerung und Deutung im Wandel, A. Gallus (a cura di), Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen, 2010; M. Jones, Founding Weimar: Violence and the German Revolution of 1918–1919, Cambridge University Press, Cambridge, 2016; W. A. Pelz, A People’s History of the German Revolution, Pluto Press, London, 2018; R. Gerwarth, Die grösste aller Revolutionen. November 1918 und der Aufbruch in eine neue Zeit, Siedler, München, 2018; The German Revolution and Political Theory, G. Kets- J. Muldoon (a cura di), Palgrave Macmillan, Cham, 2019. Sul tema della Rivoluzione tedesca ma con una cronologia più lunga, segnalo un testo pubblicato diversi anni fa dallo storico trotzkista: P. Broué, Rivoluzione in Germania, Einaudi, Torino, 1978 (prima ed.: 1971)

    10. D. Peukert, La Repubblica di Weimar, cit., p. 12.

    11. Aspetto sottolineato da: N. Lebourg, Le monde vu de la plus extrême droite. Du fascisme au nationalisme-révolutionnaire, Presse Universitaire de Perpignan, Perpignan, 2012, p. 230.

    Parte prima

    «La vostra repubblica –

    un incidente sul lavoro».

    Alfred Döblin, Berlin Alexanderplatz

    La Rivoluzione tedesca

    La Prima guerra mondiale

    L’attentato di Sarajevo all’arciduca Francesco Ferdinando d’Asburgo, erede al trono dell’Impero austro-ungarico, innescò una reazione a catena che trasformò rapidamente una crisi regionale in una guerra di proporzioni fino ad allora mai viste. Il primo agosto il Kaiser dell’Impero tedesco Guglielmo II dichiarò guerra alla Russia, il 4 agosto proclamò la «tregua interna» (Burgfrieden) in nome della difesa della patria. Un’ondata di entusiasmo attraversò una parte del dibattito pubblico tedesco, abilmente ingigantito dalla stampa, mentre le voci pacifiste presenti nel movimento operaio e tra gli intellettuali vennero rapidamente messe a tacere12.

    La propaganda trasformò il conflitto da un lato in una guerra difensiva della Germania contro le pretese espansioniste di Francia e Russia, dall’altro in uno scontro tra la «civiltà» (Kultur) tedesca e la «civilizzazione» (Zivilisation) occidentale. Il 4 ottobre 1914 oltre 4.000 accademici e intellettuali tedeschi firmarono l’Appello dei 93 nel quale affermarono che la lotta dell’Occidente si rivolgeva contro il militarismo e quindi contro la cultura e il popolo tedesco («l’esercito tedesco e il popolo tedesco sono la stessa cosa»). La Kultur si affermava così come il collante mitico della Germania in guerra. A partire dal rifiuto globale di quello che veniva individuato come Occidente, che si esprimeva a sua volta in una civilizzazione artificiale e meccanica, numerosi intellettuali proposero una reinvenzione dell’identità tedesca attraverso la fusione di «filosofia, storia e mito»13.

    In quei mesi si delinearono i contorni della cosiddetta comunità di agosto, un tassello essenziale per comprendere il successivo nazionalismo radicale tedesco. «Per tantissimi», sottolinea a questo proposito lo storico Eric Leed, «l’agosto del 1914 rappresentò l’ultima grande incarnazione del popolo come entità morale unitaria» scagliata contro un nemico assoluto, demonizzato dalla «cultura di guerra»14. Una parte della popolazione vide in altri termini nella guerra un evento positivo, che interrompeva la quotidianità e permetteva di vivere un’esperienza eccezionale, all’insegna di valori eterni (o meglio, percepiti come tali) come virilità, coraggio, forza, eroismo e comunità, rimasti ai margini di una società retta dal calcolo, priva di qualsiasi slancio ideale. In quel frangente si cementò l’immagine di un conflitto che rimodellava le relazioni umane e sociali, le trasformava in qualcosa di autentico, prive di contrasti interni e di egoismi, che si esprimeva nella comunità del fronte e nel cameratismo tra i combattenti15. Si tratta di un insieme di elementi che avrà pesanti ripercussioni nell’immediato dopoguerra, come vedremo, e che contribuirà ad alimentare il senso di estraneità dei reduci dal resto della società.

    Malgrado le dichiarazioni della Seconda Internazionale, i deputati del Partito socialdemocratico tedesco (Sozialdemokratische Partei Deutschlands, Spd) aderirono alla «tregua interna» e votarono a favore della concessione dei finanziamenti militari, fondamentali per la mobilitazione bellica (4 agosto 1914). Su di loro agiva l’ostilità nei confronti dello Zar, la convinzione che si trattasse davvero di una guerra difensiva e il timore di rimanere isolati, compromettendo tutte le conquiste sociali ottenute negli anni precedenti16.

    Il 2 dicembre 1914 il deputato Spd Karl Liebknecht, leader dell’ala più radicale della socialdemocrazia e critico nei confronti della linea patriottica del suo partito sin dall’inizio del conflitto, votò contro i crediti di guerra. Solo un anno dopo, nel dicembre 1915, venne seguito da altri 19 parlamentari. Dopo essere stati espulsi dalla Spd, nell’aprile 1917 i dissidenti diedero vita al Partito socialdemocratico indipendente tedesco (Unabhängige Sozialdemokratische Partei Deutschlands, Uspd).

    Pur partecipando alla sua fondazione, Liebknecht

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