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Neri come la morte: Lo squadrismo italiano dalle origini al regime
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E-book521 pagine7 ore

Neri come la morte: Lo squadrismo italiano dalle origini al regime

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Info su questo ebook

Il periodo che va dalla fine della Prima guerra mondiale alla marcia su Roma, con la presa del potere di Mussolini, rappresenta una delle epoche più convulse e tumultuose della storia nazionale. In questi quattro anni, percorsi da una guerra civile strisciante, un fenomeno inedito come lo squadrismo fascista fu protagonista della dinamica storica e politica del nostro Paese, ergendosi poi a modello europeo. In questo libro si entra nel vivo di quel laboratorio, analizzandone la composizione sociale, l’organizzazione della violenza, lo sviluppo politico e i personaggi di spicco, oltre che l’immaginario culturale, e si ripercorre l’evoluzione storica del movimento fascista da attore eversivo a forza istituzionale attraverso la lente privilegiata degli squadristi, delle loro azioni, dei loro simboli, in quello che è stato un passaggio cruciale, non solo italiano, del Novecento.
LinguaItaliano
EditoreDiarkos
Data di uscita2 feb 2023
ISBN9788836162673
Neri come la morte: Lo squadrismo italiano dalle origini al regime

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    Anteprima del libro

    Neri come la morte - Nicolò Rettagliata

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    Nicolò Rettagliata

    Neri come la morte

    Lo squadrismo italiano dalle origini al regime

    Il fascismo non è né un potere al di sopra delle classi, né il potere della piccola borghesia o del sottoproletariato sul capitale finanziario. Il fascismo è il potere dello stesso capitale finanziario. È l’organizzazione della repressione terroristica contro la classe operaia e contro la parte rivoluzionaria dei contadini e degli intellettuali.

    G. Dimitrov,

    Dal fronte antifascista alla democrazia popolare, Edizioni Rinascita, Roma 1950

    Pecuniae omnia parent.

    Quinto Orazio Flacco

    Introduzione

    Tra il 1918 e il 1922 l’Italia passò attraverso una serie di rivolgimenti sociali e politici che non avevano precedenti nella storia del Paese. I liberali, che fin dal 1861 avevano strettamente tenuto nelle proprie mani il timone del governo, mostravano sempre più evidenti segni di inadeguatezza e incapacità di reagire rispetto alle novità che si agitavano sul piano nazionale. Il sistema di contrappesi e compromessi che aveva permesso al blocco di potere tradizionale di mantenere l’egemonia e di agire quale forza d’ordine si rivelava stretto da una crisi intrinseca che lo rendeva inerme di fronte alle sollecitazioni che il dopoguerra presentava.

    La legittimità dell’apparato di governo era messa in discussione, e questo andava a intersecarsi, in una tempesta perfetta, con la dilagante disoccupazione, l’insoddisfazione dei reduci, il diffuso malessere sociale del proletariato e la crescita di forze politiche di ispirazione rivoluzionaria che prendevano esempio e modello dalla Russia leninista. Il liberalismo non aveva ricette a disposizione che permettessero di intervenire così profondamente nella società in modo da evitare cambiamenti ben più drastici.

    Un collasso politico, economico e sociale, a cui neanche il Partito socialista italiano, la più grande organizzazione del Paese, riusciva a dare una risposta. Le sue strutture, i sindacati, le cooperative, le sezioni, i circoli, contavano centinaia di migliaia di federati, ma mancava la capacità di indirizzare queste forze verso una reale presa del potere. Gli echi della rivoluzione sovietica erano arrivati in Europa e attiravano l’interesse dei dirigenti tanto quanto spaventavano gli industriali, gli agrari e i liberali.

    Quale elemento di novità vi era anche la comparsa sulla scena politica della classe media, che aveva trovato un inedito protagonismo grazie al conflitto. Dai suoi ranghi proveniva la maggior parte degli ufficiali di complemento, e proprio in questa neonata borghesia si ritrovavano i cittadini tendenzialmente più ideologizzati dalla propaganda nazionalista agitata dal governo per sostenere lo sforzo bellico. Un nuovo attore che non nutriva la minima fiducia nella vecchia classe dirigente, considerata sconfitta e lontana dalle necessità reali del Paese, e che al contempo avversava profondamente il bolscevismo. Rivendicava dunque una propria rappresentanza e legittimità senza trovare partiti che potessero raccoglierne il potenziale.

    Un contesto drammatico che sancì una serie di punti di svolta cruciali per la storia italiana. Nell’arco di quattro anni si innesteranno, in rapidissima sequenza, una sequenza di dinamiche senza precedenti che porteranno a un completo stravolgimento della situazione di partenza, per cui un giornalista espulso dal Psi si ritroverà a guida della nazione e lo stesso Partito socialista ridotto ai minimi termini.

    Questo straordinario susseguirsi di avvenimenti, che appare a tratti caotico e a tratti, al contrario, fatalmente determinato, è stato già numerose volte oggetto di ricerca e di discussione. Il fascismo rappresenta un fenomeno fondamentale per il passato del nostro Paese, e la sua identità è profondamente radicata nella finestra che intercorre tra la sua nascita e l’instaurazione del regime. Necessario è quindi interrogarsi su quali siano state le dinamiche che abbiano permesso questo tipo di sviluppo e come lo abbiano a sua volta influenzato.

    A questo avviso lo squadrismo, l’espressione pratica, armata, sul campo, del fascismo non fu soltanto uno dei lati del movimento mussoliniano, irriducibile a pura milizia che si occupava del lavoro sporco, ma fu un elemento ineliminabile e determinante di questo stesso movimento, in più di un momento orientandone le scelte e imponendone le direttive. Non il semplice braccio armato ma il vero e proprio cuore pulsante di un’ideologia che fece dell’azione il suo centro. Lo studio in essere è dunque intenzionato a fare luce non solo su quella che fu nella pratica la storia dello squadrismo e degli uomini che ne furono i protagonisti, ma anche il rapporto che intercorse tra questi e il fascismo come forza politica di per se stessa.

    Si è scelto per questo di prendere quale punto di partenza del primo capitolo il termine del primo conflitto mondiale; la guerra agì infatti come incubatrice per una serie di novità nel contesto nazionale, accelerando e aggravando allo stesso tempo le problematiche strutturali che erano preesistenti. Intuire l’ampiezza e la profondità della crisi che investì la società italiana è necessario per riuscire a comprendere gli sviluppi del quadriennio successivo dalla prospettiva della crescita e della salita al potere del fascismo. La paura della rivoluzione, la disoccupazione, la svalutazione e l’inflazione, la disaffezione dei cittadini nei confronti del sistema di potere tradizionale, l’insoddisfazione dei reduci, le rivendicazioni di operai e contadini: tutto questo si univa in una tempesta perfetta che infuriava su un Paese che sedeva al tavolo dei vincitori ma il cui posto era costato più di mezzo milione di morti. Un contesto di tensione in cui l’abitudine alla violenza, maturata nel corso del conflitto, e la complicità tra industriali, partiti di governo e forze dell’ordine, giocarono un ruolo fondamentale e drammatico. Le prime aggressioni e intimidazioni ai danni di pacifisti, socialisti e lavoratori datano già al novembre del 1918, e precedono dunque la nascita ufficiale del movimento fascista che renderà poi sistematico questo modus operandi.

    Poste le necessarie premesse, il secondo capitolo è focalizzato sulla prima metà del 1919. In questi mesi infatti assistiamo a una serie di dinamiche in rapidissimo sviluppo che portano prepotentemente all’attenzione dell’osservatore Benito Mussolini, all’epoca direttore de «Il popolo d’Italia». È lui a rendersi protagonista e organizzatore già a gennaio del boicottaggio contro il socialdemocratico Leonida Bissolati, provocando la prima importante frattura tra il nazionalismo di matrice interventista radicale e il resto delle forze che avevano comunque sostenuto lo sforzo bellico. Due mesi dopo, nell’ottica di dare corpo a un’organizzazione che potesse coniugare combattentismo e istanze rivoluzionarie, fonda i Fasci italiani di combattimento, radunando poche centinaia di sostenitori tra reduci, futuristi, repubblicani fuoriusciti e socialisti indipendenti. Il carattere di milizia di questa prima embrionale struttura si manifesta già a marzo, quando la sede de «L’avanti!», la testata del Psi, viene assaltata e incendiata in quello che si può definire come battesimo del fuoco e primo atto ufficiale dello squadrismo italiano.

    Il terzo capitolo prosegue in ordine cronologico la ricostruzione dello sviluppo del movimento fascista, trattando della seconda parte del 1919 fino alle elezioni di novembre. I termini temporali sono stati selezionati per meglio seguire gli avvenimenti dell’estate, che videro l’esplosione dei conflitti sul lavoro, con un moltiplicarsi di scontri e scioperi che alimentarono in tutto il Paese la sensazione che il pericolo rosso non fosse solo reale ma anche estremamente incombente. Fu in questo frangente che andò definendosi l’identità concreta della formazione mussoliniana, che conobbe una rapida crescita in termini di militanti e si impegnò in prima linea a contrastare i socialisti e le iniziative sindacali, ricorrendo spesso e volentieri all’uso della forza. Lo stesso può dirsi per la chiamata alle urne di novembre, quando la metodologia di intervento squadrista, fatta di pestaggi, intimidazioni e aggressioni, divenne un elemento essenziale della campagna elettorale dei Fasci, contribuendo a rafforzarne l’identità quale movimento d’azione e segnandone profondamento i successivi sviluppi.

    Il 1920 è trattato come un’organica unità nel quarto capitolo per meglio analizzare il percorso che porta dalla clamorosa sconfitta elettorale alla riorganizzazione del movimento nel corso dell’anno. Percorso da fratture interne e posto sotto l’attenzione giudiziaria, il fascismo attraversa un periodo critico che trova una soluzione proprio nel qualificarsi definitivamente come forza d’ordine controrivoluzionaria, allineata al potere liberale. Quella che era stata una tendenza, il ricorso alla violenza, divenne il fulcro stesso dell’identità del movimento, una brutalità d’altronde precisamente indirizzata e orchestrata che permise a Mussolini di accreditarsi quale garante della stabilità di fronte all’opinione pubblica. Gli squadristi agivano al di fuori della legalità, evitando al contempo ogni attrito con carabinieri e guardia regia, in nome di un interesse più alto, la lotta al bolscevismo, cosa che gli garantì il supporto dei giornali liberali e l’attenzione di Giovanni Giolitti che puntò su di loro quale utile strumento per spezzare i socialisti e uscire dalla crisi che attanagliava il Paese concedendo il meno possibile. Si vede dunque l’evoluzione definitiva in una forza reazionaria, militarizzata e che ottiene il consenso istituzionale, vero e proprio lasciapassare verso una totale libertà d’azione.

    Il quinto e sesto capitolo racchiudono temporalmente quello che fu l’apice della parabola squadrista, incentrandosi sul biennio 1920-1921. In questi due anni, infatti, si possono osservare gli effetti di questo sviluppo in una crescita vertiginosa sia nel numero che nella violenza delle azioni. Il movimento è in costante crescita, grazie tanto all’impunità e all’attenzione di cui gode quanto ai risultati che ottiene. Si è all’apice dello scontro aperto tra le forze progressiste e radicali e quelle conservatrici, e la brutalità squadrista diventa la cifra caratterizzante del periodo. Centinaia sono le Case del lavoro, le tipografie, le cooperative, le sedi di partito assaltate, devastate, bruciate; si moltiplicano i pestaggi, gli omicidi, le intimidazioni, le incursioni armate contro le manifestazioni. Lo squadrismo inizia una nuova metamorfosi, a seguito dei numeri di militanti in aumento, che lo vede concentrarsi nelle campagne più che nelle grandi città, beneficiando del supporto degli agrari e costruendo una vera e propria rete di potere parallela a quella istituzionale. A colpi di manganello i fascisti inaugurano nuove forme di caporalato, grazie a cui riescono a gestire il collocamento agricolo in intere province. È il momento della guerra aperta, a cui le forze dell’ordine assistono con indifferenza, quando non aiutando attivamente i fascisti. I ras, i capi locali delle camicie nere, acquisiscono sempre più prestigio e influenza, tanto che la segreteria del movimento, la testa, appare quasi ostaggio del braccio, che rappresenta in effetti il garante del successo che il fascismo sta raccogliendo. Il capitolo si chiude sul congresso dell’ottobre 1921 che sancisce la necessaria metamorfosi dei Fasci in Partito nazionale fascista. Passaggio obbligatorio per disciplinare i miliziani, riaffermare la centralità della figura di Mussolini, e per consentire a questa forza dispiegata in campo di strutturare un’azione più propriamente politica che possa evolvere nella presa del potere.

    Il settimo capitolo è interamente dedicato al 1922, anno in cui si conclude cronologicamente il tema trattato, che mostra il punto di arrivo della traiettoria che aveva iniziato a delinearsi nel 1918. Il fascismo è una forza organizzata, che può contare su migliaia di militanti e che si dispiega sull’intero territorio nazionale. I liberali, che hanno tentato di cavalcarlo per frenare le spinte rivoluzionarie nel Paese, si ritrovano completamente imbelli di fronte alla marea avanzante. Due governi cadono nel giro di sei mesi; Luigi Facta, l’uomo che si ritrova a gestire questo contesto di crisi, è totalmente in balia delle circostanze. La lunga e consolidata complicità tra le istituzioni, le forze dell’ordine, industriali e agrari e gli squadristi ha portato alla nascita di un vero e proprio contropotere in camicia nera, che si è incancrenito all’interno della società italiana e dello Stato liberale. È a questo punto che si consuma l’atto finale: sono i mesi delle occupazioni delle città da parte delle squadre, delle minacce di guerra aperta in Parlamento. È in questo frangente che Mussolini decide di tentare il tutto per tutto per giungere alla guida del Paese, intervenendo nella crisi che aveva contribuito a creare, ponendo come base d’appoggio a questa conquista la forza bruta di cui il suo partito disponeva. Una rivoluzione che fu tale più sulla carta che nella pratica, in quanto ancora una volta le forze dell’ordine e l’esercito furono tenute a freno, lasciando libero il campo per la salita al Quirinale di Benito Mussolini.

    Infine, si è scelto di approfondire nell’ottavo e conclusivo capitolo quella che fu la cultura dello squadrismo. Il movimento fu infatti una florida forza mitopoietica, capace di raccontarsi, propagandarsi, reinventarsi, creando un’epica di se stesso. Che fosse aderente o meno alla realtà, questa narrazione creava un’immagine accattivante, romantica e nichilista, patriottica e rivoluzionaria, della militanza fascista, che rispondeva a codici e immagini differenti ma immediatamente riconoscibili. Questa attenzione fu uno dei fattori che moltiplicò esponenzialmente la capacità di attrazione: diventare uno squadrista non significava soltanto prendere la tessera di un partito ma abbracciare una filosofia e un’identità sociale ben precisa che si strutturava e riproduceva nei simboli, negli stemmi, nei canti, nei motti, negli scritti. In questa sezione dunque si compie una ricerca su quello che fu il deposito di immaginario costruito dalle camicie nere, attraverso le sue differenze e diramazioni, osservandone i punti comuni e quelli divergenti. Attenzione è stata dedicata anche a quelle che furono le pellicole prodotte durante il regime sullo squadrismo come fenomeno in sé. Questo per individuare nel cinema di propaganda i meccanismi di quello che sarà il processo di normalizzazione e istituzionalizzazione che Mussolini, una volta preso il potere, decise di imporre al movimento, in nome di una forzosa pacificazione nazionale e per sventare qualsiasi idea di una eventuale reale rivoluzione.

    In coda è stata integrata un’appendice che presenta documenti di varia natura, per offrire al lettore la possibilità di interagire direttamente con alcune delle fonti che sono state utilizzate nel presente studio, basato soprattutto sull’attenta e privilegiata scansione dei giornali dell’epoca. Vi si trovano trascrizioni di discorsi e interviste, nonché comunicati e ordinanze emanati in seno ai Fasci italiani di combattimento prima e al Partito nazionale fascista poi.

    Questo fu dunque il contesto in cui si sviluppò il fascismo, seguendo un arco di crescita vertiginoso, che lo condurrà dai circa ottocento iscritti dell’adunata di Sansepolcro del 1919 ai 250 mila del 1922. Il movimento di Mussolini presentava delle caratteristiche che lo rendevano uno strumento utilissimo per la classe dirigente nell’ottica di un mantenimento dell’ordine costituito. Malleabile e duttile, la teoria del fascismo era onnivora e adatta a integrare qualsiasi spunto che le potesse servire. Venivano così uniti Sorel e Proudhon al protezionismo e alle istanze antisindacali, il revanscismo agli appelli al proletariato, in una mescolanza di indirizzi contraddittori. I Fasci prima e il Pnf poi furono capaci di interpretare gli umori del pubblico, cambiando forma e colore a seconda dell’utilità e della circostanza.

    Interpretando questa ascesa la stella polare fu la conquista del potere, e in questa prospettiva l’ideologia rimase solo uno strumento, intercambiabile a seconda della necessità. Nei suoi primi anni l’essenza del fascismo non fu nella teoria quanto piuttosto nella pratica: nell’azione esprimeva la sua potenzialità e la sua reale ideologia. Non è casuale che sia proprio nelle strade, nelle aggressioni e nelle minacce che il nucleo originario si strutturò e trovò una sua identità. L’ideologia della guerra, il culto della violenza e dello sprezzo della vita si era trasferito nelle strade dell’Italia postbellica e ora entrava nel dibattito politico, rompendo equilibri e logiche che sembravano intoccabili. Dalle trincee alle piazze, come si era combattuto il nemico straniero al fronte, ora era necessario opporsi a quello interno, che minava l’esistenza civile della nazione. E in questa sua lotta trovava l’entusiastico applauso dei liberali, dei giornali, di industriali e proprietari terrieri, che sotto il paramento rivoluzionario del fascismo vedeva la sua reale natura antibolscevica, antiproletaria e reazionaria.

    Criminali comuni, reduci, transfughi delusi da altri partiti, studenti, analfabeti e intellettuali, si unirono alla milizia di mussolini, indossando la camicia nera. Ad attirarli era la chiamata alla salvezza della patria ma anche lo spirito goliardico, la disabitudine alla pace, il gusto per la violenza impunita, il tornaconto personale. Un movimento tutt’altro che univoco e omogeneo che esprimeva la reale natura del fascismo ben più degli articoli di teoria politica che uscivano sulle diverse testate del movimento.

    Per quattro anni, dal 1918 al 1922, l’Italia vide una guerra civile a bassa intensità e totalmente asimmetrica. Da un lato vi erano i socialisti, i sindacati, le associazioni di lavoratori, numericamente maggioritari, organizzati in strutture di massa ma percorsi da fratture e divisioni interne: impreparati ad affrontare una violenza politica che non aveva precedenti nella storia moderna. Dall’altro si posizionavano gli squadristi, supportati da industriali, giornali, partiti di governo e forze dell’ordine: di fronte a quella che veniva percepita come la minaccia rossa, la violenza veniva giustificata, coperta e legittimata. Si combatteva il bolscevismo, si sanificava la patria dai mali intestini e si fermavano le rivendicazioni di operai e contadini.

    La storia dell’ascesa del fascismo è quindi la storia dello squadrismo, che in certi periodi arrivò a comandarne la testa, a prendere il controllo del movimento, rappresentandone l’anima e la ragione di esistere.

    1. L’Italia vittoriosa

    Si apre il dopoguerra

    Il 3 novembre 1918 con la firma dell’armistizio di Villa Giusti a Padova, per l’Italia si conclude il primo conflitto mondiale. «I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo risalgono in disordine e senza speranza le valli che avevano discese con orgogliosa sicurezza»,¹ ma il Paese che si lasciano alle spalle appare seriamente provato dallo sforzo bellico. La guerra, protrattasi per circa quaranta mesi e costata 680 mila morti, ha inciso radicalmente nel tessuto nazionale: la vittoria contro l’Austria-Ungheria asburgica mette la parola fine al conflitto sul fronte italiano ma non ferma le mutazioni che da questo sono state innescate.

    Il Paese, per tre anni impegnato in uno sforzo bellico senza precedenti, è infatti interessato da profonde trasformazioni che ne cambiano profondamente il volto. Gli equilibri sociali tradizionali sono stati stravolti dalla grande mobilità di uomini, provenienti da tutto il Paese, arruolati nell’esercito. Le donne hanno messo piede in territori che fino a quel momento erano stati loro preclusi: nelle fabbriche, negli uffici, ma anche nella sanità e nella politica. Spesso sono organizzatrici di manifestazioni e cortei, sia a favore che contro la guerra. La classe media, che ha messo radici dalla fine dell’Ottocento, ha conosciuto un protagonismo inedito. I contadini, chiamati al fronte e a riempire i vuoti nelle industrie, allacciano per la prima volta contatti con la popolazione urbana e con gli operai, spesso già integrati in realtà politiche organizzate.

    La Grande guerra ha agito come un immenso innesco che ha accelerato processi già preesistenti, ma il cui sviluppo è stato condensato in un periodo di tempo brevissimo. Da questo punto di vista si tratta, per certi versi, di un fenomeno comune a livello europeo: in Inghilterra e Francia la presenza femminile nelle fabbriche era aumentata di diverse centinaia di migliaia di unità tra il 1915 e il 1918. Avvenimenti, dunque, che rientrano sia in un piano più ampio e generale, sia che rispecchiano la particolarità nazionale italiana. D’altro canto i problemi endemici e strutturali che affliggevano il sistema nazionale non erano stati risolti con la guerra, come avevano sperato gli interventisti, ma, al contrario, alla sua conclusione si ripresentavano con rinnovata urgenza. La piaga della disoccupazione, passata in secondo piano grazie all’assorbimento nelle fabbriche della manodopera necessaria a coprire i richiamati e ai piani di intervento pubblico,² era destinata a riesplodere non appena questo impiego straordinario fosse giunto al termine.

    Vi è una diffusa sfiducia nella classe dirigente che ha condotto l’Italia a una guerra rivelatasi molto più pesante del previsto e che deve ora gestire la riconversione dell’apparato industriale. Il peggioramento progressivo delle condizioni economiche su larga scala ha d’altronde acuito il dissenso politico, ingrossando i ranghi dei socialisti e dei sindacalisti, favorendone l’ala radicale. La situazione del Paese reale stride con il quadro istituzionale dove la maggioranza si è stretta in un esecutivo di unità nazionale, che raggruppa radicali, democratici, nazionalisti, socialisti riformisti e indipendenti allo schieramento liberale. Un esperimento guidato da Vittorio Emanuele Orlando composto dopo la rotta di Caporetto dell’ottobre 1917. L’equilibrio parlamentare è infatti lontano dal rappresentare un quadro veritiero di quanto avviene nell’Italia fuori dai palazzi, e questo non fa che aumentare la cesura in senso orizzontale tra elettori ed eletti.

    Il dissenso verso la condotta dal governo si era già espressa in forma sensazionale con i moti di Torino dell’agosto 1917. Un ritardo nei rifornimenti di farina in città fu la miccia per l’esplosione di una serie di scontri che coinvolsero l’intero capoluogo piemontese. Le tensioni a lungo trattenute si espressero in sei giorni di guerriglia urbana che presero una chiara connotazione antimilitarista e antigovernativa. Migliaia di lavoratori e militanti politici socialisti e anarchici si opposero all’esercito e alla polizia, che operarono una repressione durissima: il bilancio finale contava cinquanta morti, duecento feriti e circa un migliaio di arrestati.³

    Lungi dall’essere terminate con la pacificazione violenta di Torino, le agitazioni annonarie riesplosero nuovamente nel novembre dello stesso anno, questa volta estendendosi all’intero territorio nazionale. L’insurrezione di agosto fu un episodio rilevante, il culmine dei disordini, ma fu solo l’espressione di un sentire molto più diffuso di quanto non si volesse ammettere a livello istituzionale.

    Queste agitazioni sociali erano d’altronde il naturale sviluppo di una serie di sommovimenti che avevano percorso le classi popolari già dal primo decennio del Novecento, e non un fenomeno inedito. La settimana rossa del 1914⁴, ad esempio, aveva avuto una tale portata e fatto un’impressione così vivida alle classi medie da spingerle verso l’interventismo come segno di opposizione al riformismo neutralista. Questo aveva preparato il campo alla successiva accettazione della limitazioni delle libertà civili che il reazionario Antonio Salandra avrebbe strumentalmente implementato con l’entrata in guerra.⁵ Già il 23 maggio 1915, alla vigilia dell’apertura delle ostilità contro l’Austria-Ungheria, venne data facoltà ai prefetti di vietare riunioni pubbliche, a invito privato e assembramenti, nonché di sciogliere le associazioni considerate responsabili di eventuali turbative dell’ordine pubblico.⁶ Va ricordato che il dissenso verso il conflitto era diffuso trasversalmente, non limitato alle formazioni ufficiali sindacaliste, anarchiche e socialiste e che, con l’andare del tempo, il peggioramento delle condizioni di vita e l’aumentare dei lutti il sentimento antigovernativo si sarebbe allargato sempre di più.

    La rigida disciplina attuata con ampia discrezionalità dalle istituzioni allo scopo di non far crollare il fronte interno impedì l’esplodere su scala realmente ampia di manifestazioni, reprimendo anche il diritto allo sciopero⁷, ma il fuoco covava sotto la cenere. Nonostante la repressione e una regolamentazione sempre più rigida che arrivava quasi a equiparare fabbriche e caserme per regime disciplinare, si ebbero 132.166 aderenti agli scioperi nel 1915, 123.616 nel 1916, 168.626 nel 1917 e 158.036 nel 1918.⁸ Nelle campagne il bracciantato, da sempre la componente più povera e riottosa politicamente, pagò il prezzo più alto, in quanto le famiglie dei richiamati ricevevano sussidi insufficienti alla sopravvivenza. D’altro canto anche mezzadri, affittuari e piccoli proprietari furono ugualmente sacrificati ai prezzi imposti dall’alto, alle requisizioni e a specifici divieti di commercio.

    Questa enorme massa contadina che costituiva la parte preponderante del Paese, sia per il numero di addetti che per la quota di Pil generato⁹, visse con profondo disagio il conflitto. Non furono rare le rivolte e le proteste per la pace che si trasformavano in vere e proprie manifestazioni antigovernative.

    L’abdicazione della politica alle direttive militari, che usò il potere legislativo per colpire ogni eventuale forma di disfattismo e protesta,¹⁰ non aveva, agli occhi della popolazione, sollevato la classe dirigente dalle responsabilità delle scelte fatte. Con la fine della guerra questo dissenso diffuso, frammentato, organizzato e spontaneo, fino a quel momento incanalato negli argini ristretti di un Paese in situazione eccezionale, doveva necessariamente trovare uno sfogo.

    Il disastro sociale – nel senso di un’esplosione delle tensioni e del collasso dello Stato – sarebbe stato, forse, tamponabile con una profonda riforma strutturale che prendesse in carico una seria politica di assistenza e supporto alle famiglie. Questo unito a una riorganizzazione in senso progressista del diritto del lavoro avrebbe potuto, eventualmente, alleggerire le spinte insurrezionali che minavano dall’interno il sistema istituzionale. Le casse dello Stato, però, risultavano profondamente provate dallo sforzo bellico: la spesa militare che ammontava a 2,4 miliardi nel 1915-1916 era arrivata ai 20,6 miliardi nel 1917-1918, con un aumento del 758,3 per cento.¹¹ La spesa dello Stato era passata da una cifra equivalente a 9.914.935,5 migliaia di euro nel 1910 a 39.580.033,4 nel 1916 per arrivare al picco dei 42.596.118,2 del 1917.¹² Questo, unito alla propensione politica dei liberali nei confronti di uno stato sociale poco sviluppato, impediva di fatto di poter gettare le fondamenta di una svolta così importante, che potesse stemperare il disagio sociale. L’esempio bolscevico in Russia e un dissenso serpeggiante che percorreva i gruppi radicali a destra come a sinistra, d’altronde, non garantiva che una formula del genere potesse realmente funzionare. Lo Stato liberale, forgiato nel corso degli ultimi due decenni dall’azione moderatamente riformista di Giolitti e protetto con il pugno di ferro da polizia e magistrature, si ritrovava assediato. Le ricette tradizionali si rivelavano non più utilizzabili, e la dura realtà del dopoguerra avrebbe dimostrato la loro inutilità.

    A peggiorare il tutto vi era che il prezzo della guerra non era stato pagato in soli termini economici: l’Italia aveva lasciato sul campo 680 mila caduti, un milione e 100 mila feriti, di cui circa 460 mila grandi invalidi,¹³ e 500 mila prigionieri. Su una popolazione che si avvicinava ai 36 milioni nel 1911,¹⁴ la sola somma delle prime due categorie ammontava a circa il 5 per cento dei cittadini. I mobilitati, seppur minori in termini assoluti rispetto a Francia e Gran Bretagna, erano maggiori in termini percentuali, arrivando al 13,78 per cento.¹⁵ Un trionfo celebrato ad ogni livello, quello del 4 novembre, che però aveva richiesto un prezzo esoso. Se le popolazioni delle regioni riprese nell’ultima offensiva potevano «baciare nel fulgore della Vittoria, le lacere gloriose bandiere dell’Esercito liberatore»,¹⁶ l’Italia doveva comunque fare i conti con una catastrofe di proporzioni inedite. Per dare un’idea delle dimensioni che il conflitto aveva assunto e dell’impatto che ebbe sulla società, si consideri che l’intera guerra d’Abissinia, combattuta tra il 1895 e il 1896 e considerata disastrosa, aveva contato in totale circa 9000 morti. Un numero già eguagliato dalle due iniziali offensive dell’Isonzo, portate avanti tra il giugno e l’agosto 1915, che rappresentarono solo il primo attacco italiano del conflitto.

    Per la destra nazionalista, quindi, l’enorme tributo di sangue versato alla vittoria esigeva una contropartita adeguata che potesse dare al Paese la sicurezza che il sacrificio non era stato vano, entrando in una nuova fase storica. A sinistra invece si era intenzionati a fare come in Russia e utilizzare le crepe aperte in quegli ultimi tre anni per spaccare definitivamente il sistema, accendendo quell’incendio di cui si vedevano le scintille serpeggiare. In questa prospettiva si apriva il dopoguerra italiano.

    Le trasformazioni sociali

    «La guerra ha lasciato ovunque, se se ne esclude una minoranza di rapinatori, un malcontento che non trova tregua, né limite».¹⁷ Così Antonio Gramsci, giovane dirigente socialista, futuro fondatore del Partito comunista d’Italia, sulle colonne de «L’ordine nuovo», nel 1919.

    L’Italia aveva attraversato la guerra come una tempesta che ne aveva scosso profondamente gli equilibri, facendo emergere trasformazioni importanti ma non risolvendone, però, i problemi preesistenti. Se è vero che aveva spinto l’economia nazionale a un balzo in avanti, è vero anche che questo era stato ottenuto a costo di sacrifici importanti. Sacrifici scaricati sulle masse dei lavoratori¹⁸ che si ritrovavano ora in condizioni disastrose e tra cui serpeggiava un’insofferenza profonda.

    Si è visto come la repressione poliziesca non avesse fermato gli operai dall’entrare in sciopero a centinaia di migliaia nel corso del conflitto. La pace non ferma questa tendenza ma, al contrario, la aggrava. Gli scioperanti agricoli passano da 254.131 nel 1907 a 505.128 nel 1919 per arrivare a 1.045.732 nel 1919.¹⁹ In campagna molti sono rovinati dalla crescita dell’inflazione che aveva visto un aumento costante: nel 1918 i biglietti di Stato erano più che quadruplicati rispetto al 1914, mentre la circolazione cartacea era passata, nello stesso lasso di tempo, da 735 milioni a 6481.²⁰ I percettori di reddito fisso, la parte preponderante della popolazione, furono i più colpiti, vedendo calare radicalmente la loro capacità d’acquisto. Una situazione aggravata dal blocco degli affitti, che ebbe come principale risultato il fallimento di molti piccoli proprietari terrieri, e la conseguente vendita al ribasso di un gran numero di appezzamenti. A guadagnarci furono i grandi possidenti, assecondando quella tendenza storicamente incistata nell’economia agricola nazionale che tendeva alla concentrazione di terre e al latifondo.²¹

    La situazione nelle campagne era quindi a un punto critico: al peggioramento generale delle condizioni di vita e lavoro, conseguenza del cronicizzarsi dei punti deboli tradizionali del settore, si aggiungeva l’insofferenza dei reduci, tornati a casa dal fronte con una nuova coscienza, una diversa visione del mondo e una più ampia capacità politica. La guerra aveva strappato da un isolamento secolare anche e soprattutto i contadini: spesso analfabeti, con una scarsa conoscenza persino dell’italiano, avevano costituito la spina dorsale dell’esercito durante l’intera durata del conflitto. Per braccianti, piccoli proprietari contadini, mezzadri, l’esercito era stato il mezzo attraverso cui uscire dall’orizzonte limitato e immutabile della cascina, del borgo, della provincia. Imparano a leggere e a scrivere per sopperire alla necessità di comunicare con la casa lontana,²² entrando in contatto con giornali, idee, persone. La trincea aveva infuso loro una nuova identità, politicizzandoli, spesso non nella direzione desiderata dalle istituzioni.

    La classe politica tradizionale si rivela impreparata alla gestione della riconversione della struttura industriale nazionale che, sebbene si sia allargata durante i tre anni del conflitto, manca di solidità e di capacità di pianificazione a lungo termine. Gli operai, per quanto non siano ancora la parte preponderante della popolazione, sono aumentati di numero e dal Meridione in molti si sono spostati per lavorare nelle fabbriche del Nord. Queste masse, rapidamente urbanizzate e inserite in un contesto produttivo inedito, sono il referente politico naturale di socialisti e anarchici. Nelle città si trova il cuore economico della nazione, e anche meridionalisti attenti come Gramsci vedono nell’agitazione operaia il primo necessario passo per un cambiamento rivoluzionario di tutto il sistema.²³ Si tratta quindi della crescita muscolare di una nuova classe, con una grossa potenzialità di conflitto, che vive sulla propria pelle le contraddizioni dell’industrializzazione forzata dalla guerra.

    Il Psi, nominalmente rivoluzionario e massimalista, diviene la loro forza di riferimento, grazie alle strutture territoriali che riescono ad avere un approccio di massa e ai contatti con le organizzazioni di lavoratori. Nel 1920 gli iscritti ai sindacati avrebbero superato i 3.500.000, di cui più della metà appartenenti alla socialista Confederazione generale del lavoro.²⁴Le donne, similmente, acquisiscono un peso cruciale nell’andamento del sistema-Paese. Fino a quel momento presenza marginale, esse entrano massicciamente nella vita economica italiana, dando un contributo essenziale alla tenuta industriale nazionale.

    Fenomeno importante è l’emergere di una nuova borghesia degli affari, affiorata dal mondo multiforme degli strati intermedi della società, che ora cerca un suo protagonismo. Dai suoi ranghi è uscita la grande maggioranza degli ufficiali di truppa che hanno servito durante la guerra e che costituiscono la parte realmente ideologizzata dell’esercito. Questo ceto medio che non ha un reale referente politico, lontano dal notabilato liberale quanto dal proletariato socialista, compie un progressivo avvicinamento alle posizioni della destra nazionalista e interventista. Qui gli viene riconosciuto il peso e il ruolo centrale che questo nuovo soggetto sente di aver acquisito.²⁵

    I gruppi industriali, che hanno conosciuto un’enorme espansione durante il conflitto, cercano anch’essi un nuovo referente. Avendo il settore superato la capacità di assorbimento della società italiana, una volta tornata la pace quello che si rendeva necessario era un sistema di forti aiuti statali per evitare fallimenti²⁶ e riconvertire la produzione a un’economia non più di guerra. Le banche, messe in difficoltà dall’enorme circolazione di denaro contante, assistettero impotenti all’assalto dei grandi industriali che tentarono la loro scalata, mandando in crisi il tradizionale equilibrio tra i due settori.²⁷ Nascevano così cartelli oligopolistici ramificati sul territorio nazionale e con un peso inedito. La sola Fiat era passata dall’impiego di 4000 operai a 40 mila; l’azienda, il cui capitale sociale nel 1915 era di 17 milioni, aveva distribuito profitti per 19 milioni agli azionisti durante la guerra²⁸, e non si trattava di un caso isolato.²⁹ La genovese Ansaldo, protagonista dell’industria bellica, nel solo 1918 registrò incassi per lavori per un valore di 380 milioni.³⁰

    L’intervento a fianco dell’Intesa, fortemente voluto proprio dai grandi cartelli capitalisti nazionali, aveva garantito loro una crescita senza precedenti nel quadro nazionale e a questo corrispondeva una rinnovata richiesta di peso nel governo del sistema Paese. Il gruppo dirigente tradizionale non corrispondeva più alla nuova classe economicamente dominante. Tra gli industriali comincia a prevalere un sentimento antipolitico, una spiccata insofferenza per le procedure istituzionali³¹ che si traduce in un antiparlamentarismo istintivo. Il governo Nitti, con le sue tendenze riformistiche e welfaristiche e l’atteggiamento attendista, è mal tollerato. Di fronte all’ondata di scioperi e occupazioni che infiamma campagne e industrie si chiede il pugno di ferro, la repressione dura e immediata dei rivoltosi. La proposta di una patrimoniale, portata avanti dal leader radicale, non fa altro che confermare il sospetto dei grandi oligopolisti e capitalisti italiani nei confronti del nuovo esecutivo.

    Vi era nel 1919 una diffusa paura del pericolo rosso tanto tra la borghesia quanto tra i grandi capitalisti agrari e industriali. I primi vedevano nelle lotte proletarie una minaccia al peso da poco conquistato, al protagonismo recentemente acquisito, a quello status quo in cui trovavano finalmente unaa posizione forte. Questo avanzamento era, per i molti che avevano servito nell’esercito, inestricabilmente legato alle tematiche nazionaliste e revansciste: la classe media si dimostrerà infatti il terreno di coltura della destra fascista in quanto essa fu capace di connettere, a livello ideologico, la difesa degli interessi socioeconomici della classe media con i suoi topoi politici. Non rappresentati dai liberali, spaventati dai socialisti, erano il target perfetto della destra mussoliniana, capace di parlare a tutti.

    L’ideale dei produttori, un concetto interclassista che fondeva organicamente borghesia industriale e classe operaia per il supremo valore dell’interesse nazionale, era perfetto per un gruppo senza una precisazione collocazione che si identificava proprio grazie al ruolo economico che rivestiva. La retorica sulla guerra, d’altronde, era perfetta per una classe che aveva fornito, come si è detto, la maggior parte degli ufficiali di truppa. Mussolini e i fascisti, capaci di mostrarsi radicali o ragionevoli a seconda delle necessità, erano d’altronde il referente ideale anche per i piccoli proprietari agrari, spaventati all’idea di perdere la terra appena conquistata, per la cui difesa si schierarono con la reazione più intransigente contro scioperanti e occupanti. I grandi nomi dell’economia italiana, d’altro canto, non avevano bisogno di ulteriori conferme sul pubblicista romagnolo: già nel corso della guerra «Il popolo d’Italia» aveva ricevuto importanti finanziamenti da aziende quali Fiat, Edison, Ansaldo, Unione zuccheri e Società siderurgica Savona.³² Su questa paura, che nasceva dalle mobilitazioni proletarie generate dal malcontento, i fascisti costruiranno la loro prima reale base politica, offrendosi come braccio armato a difesa dello status quo.

    La vittoria mutilata

    L’Italia era entrata in guerra nella primavera del 1915 dopo aver siglato il cosiddetto patto di Londra, che impegnava nominalmente le potenze dell’Intesa a garantire una serie di acquisizioni importanti per il Paese. Le trattative avvennero in un clima favorevole all’Italia in quanto come potenza neutrale, strategicamente posizionata nell’Europa meridionale, il suo schierarsi da un lato piuttosto che dall’altro poteva avere un peso determinante nel corso degli eventi.

    Il fatto che il patto avrebbe impegnato l’Italia a entrare in guerra entro un mese dalla firma dello stesso è una spia dell’urgenza che animava le potenze dell’Intesa, interessate tanto ad avere un quarto alleato quanto a far sì che questi non si affiancasse agli Imperi centrali. Partendo da queste basi più che favorevoli, il governo di Francesco Salandra, con l’avvallo di Vittorio Emanuele III di Savoia scavalcò il Parlamento, che non fu messo al corrente né dei negoziati né tantomeno del documento in sé. Trattando con la pistola alla tempia dell’Intesa, come ebbe a commentare Thèophile Delcassé,³³ Sidney Sonnino, ministro degli Esteri, ottenne ottime condizioni in cambio dell’impegno bellico. Venivano difatti garantite l’annessione del Trentino, dell’Alto Adige e del Venezia Giulia, così come estese acquisizioni territoriali sulla sponda orientale dell’Adriatico. A queste si aggiungevano concessioni in Albania, Turchia e Africa settentrionale. L’idea era quella di chiudere l’arco alpino e terminare il processo risorgimentale e irredentista, e al contempo rafforzare il ruolo italiano nel Mediterraneo, puntando alla costruzione di un’egemonia navale nella regione. Proprio per questo la città di Fiume, possedimento legato alla corona ungherese, non venne inclusa nelle future annessioni: avrebbe costituito l’unico sbocco sul mare per l’Austria, che in questa prospettiva avrebbe perso completamente il proprio territorio costiero.

    L’accordo, così strutturato, venne firmato il 26 aprile: ventotto giorni dopo, fedele all’impegno preso, l’Italia dichiarò guerra all’Impero asburgico, entrando ufficialmente nella Prima guerra mondiale. Si trattava di un patto segreto, nell’ottica della tradizione diplomatica europea in uso fino a quel momento. Condizioni e obblighi specifici verranno tenuti nel più stretto riserbo fino alla fine del 1917, quando i bolscevichi ne pubblicizzeranno il contenuto in Europa.

    La conclusione della guerra si accompagnò a importanti aspettative sia a livello governativo che popolare. Era necessario per il governo Orlando riuscire a ottenere il massimo dalla redistribuzione che i vincitori avevano in programma di fare. A livello estero avrebbero garantito, finalmente, l’imporsi italiano a livello continentale nel consesso delle grandi potenze, un obiettivo che era stato inseguito fin dall’unificazione del Paese. All’interno, al contempo, si rivelava quantomeno necessario fornire una contropartita considerabile come degna rispetto allo sforzo e al sangue profuso nel conflitto. Questo era reso ancora più urgente dal carico retorico che era stato assegnato all’ideale irredentista che aveva accompagnato gli scontri nelle regioni nord-orientali del Paese. Visto il prezzo pagato, in termini economici e di vite umane, per la tenuta istituzionale del governo si rivelava necessario riuscire a ottenere un successo nelle trattative di pace che si andavano preparando.

    Alla conferenza di Parigi, apertasi il 18 gennaio 1919 e dedicata proprio alla riorganizzazione territoriale continentale, parte delle promesse vennero ritrattate: da un lato vi era la poca predisposizione anglo-francese a permettere l’instaurarsi di una così importante influenza italiana sul commercio nell’area adriatica ed est-europea; dall’altro vi era il rifiuto intransigente dello statunitense Wilson di rispettare il trattato, e questo per una serie di ragioni. Va specificato come il presidente americano non si ritenesse impegnato da un memorandum firmato quando non era ancora intervenuto nella guerra e che, tra l’altro, aveva seguito il corso della diplomazia segreta, una pratica da lui aborrita. L’applicazione del memorandum alla lettera, come richiesta da Sonnino, avrebbe impedito il processo di autodeterminazione nazionale che era sua intenzione appoggiare nella regione balcanica.³⁴

    Sia le potenze continentali che il nuovo

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