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Gli uomini che sfidarono il nazismo
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E-book638 pagine9 ore

Gli uomini che sfidarono il nazismo

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Info su questo ebook

La vera storia dei tedeschi che contrastarono l’ascesa del Terzo Reich

Dopo il 1933, con l’avvento del regime nazista, i cittadini tedeschi che non avevano mai votato per Hitler – di gran lunga la maggioranza del Paese – si trovarono del tutto impreparati: alcuni fuggirono, altri finsero di sostenere il Führer per evitare di essere denunciati, altri ancora vennero uccisi. La propaganda di partito e le notizie false riuscirono a dare l’idea, dentro e fuori dalla Germania, che non esistesse un dissenso interno. Gli orrori del nazismo sono temi ben noti a chi studia la storia della seconda guerra mondiale, ma si sa poco di coloro che hanno vissuto in prima persona l’ascesa del nazismo. Catrine Clay racconta le storie personali di chi si oppose al regime. Sono molti, infatti, i nomi di persone del tutto ordinarie che scelsero di resistere: insegnanti, avvocati, operai di fabbrica e portuali, casalinghe, negozianti, membri della chiesa, sindacalisti, ufficiali dell’esercito, aristocratici, socialisti e comunisti. Questo libro racconta la storia degli uomini e delle donne che si trovarono ad affrontare l’orrore e a prendere decisioni impossibili.

Un libro evento, destinato a cambiare la prospettiva sullo studio dell’ascesa del nazismo
La storia degli uomini e delle donne che osarono sfidare il regime nazista dall’interno

«Questa scrittrice è la prova vivente che anche la saggistica può essere una forma d’arte.»
The Spectator

«Catrine Clay ha un talento incredibile.»
The Telegraph
Catrine Clay
ha lavorato oltre vent’anni per la BBC, dirigendo e producendo documentari televisivi pluripremiati. Ha vinto l’International Documentary Award e il prestigioso Golden Spire per la categoria “documentari storici”. È stata nominata per un BAFTA. È sposata, ha tre figli e vive a Londra.
LinguaItaliano
Data di uscita22 set 2020
ISBN9788822750365
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    Anteprima del libro

    Gli uomini che sfidarono il nazismo - Catrine Clay

    Introduzione

    I tedeschi buoni

    Mio padre diceva sempre che non esistono tedeschi buoni. Immagino possiate intuire il perché: per cinque anni combatté la seconda guerra mondiale. In effetti si tratta di una visione comune a tutta la sua generazione: c’era qualcosa di sbagliato nella psiche tedesca, una sorta di grave tara teutonica. Dapprima non ci avevo dato molto peso, ero troppo presa dalla mia vita. Più avanti, però, ci ho riflettuto sopra: c’erano tedeschi e c’erano nazisti, ma non erano necessariamente la stessa cosa. Ancora più avanti sono venuta a sapere che due terzi dei tedeschi – circa quaranta milioni di cittadini – non avevano mai votato per il partito nazista, com’era noto all’epoca il partito nazionalsocialista tedesco dei lavoratori (

    NSDAP

    ). Le folle che rasentavano l’isteria, mostrate dai cinegiornali dell’epoca mentre gridavano Sieg Heil! e lanciavano bouquet di fiori a Hitler che sfilava sulla sua Mercedes nera, erano in realtà poche centinaia di migliaia di persone. Quando nel 1933 i nazisti salirono al potere, grazie a una fatidica coalizione con i gruppi di estrema destra, gli iscritti al partito ammontavano a circa due milioni. Per loro Hitler era il Führer, l’uomo che li avrebbe condotti fuori dalla disperata situazione in cui erano precipitati dopo l’umiliante sconfitta subita nella prima guerra mondiale e il caos degli anni di Weimar che ne erano seguiti. Ma che dire dei due terzi dei tedeschi che non avevano votato per i nazisti e furono costretti a subire prima il terrore del regime, poi la seconda guerra mondiale e, alla fine, l’infamia del mondo intero, via via che le atrocità commesse dai nazisti – campi di sterminio e tutto il resto – divenivano sempre più di dominio pubblico?

    Ormai sono molti anni che mi dedico saltuariamente al periodo nazista, dapprima realizzando documentari storici per la

    BBC

    e poi scrivendo libri. Adesso, però, sono approdata al nocciolo della questione che ho lasciato in sospeso per tutto questo tempo: che dire di quei due terzi? Come mi sarei comportata io, se avessi dovuto vivere in un regime di terrore – uno qualunque, per quel che vale – sapendo che persino la più piccola indicazione che non fossi una devota nazista avrebbe potuto mettere a repentaglio il mio posto di lavoro o addirittura farmi finire in un campo di concentramento, giustiziata, impiccata o ghigliottinata? Voi come vi sareste comportati?

    Nell’arco di soli sei mesi dalla Machtergreifung, la presa del potere, il 30 gennaio 1933, la democrazia tedesca fu rimpiazzata dal regime nazista: niente più partiti politici, sindacati, sistema giudiziario indipendente, pubblica amministrazione, libertà di stampa o chiesa autonoma. La politica della Gleichschaltung implementata nel marzo del 1933 comportava che chiunque non fosse schierato politicamente – insegnanti, medici, impiegati statali – dovesse essere rimosso dal suo ufficio e, in caso di persistente opposizione al regime, arrestato, spedito in un campo di concentramento, fucilato per aver tentato la fuga o semplicemente giustiziato sul posto. Molti ebrei avevano già perso il posto di lavoro. Il Volksgericht, il Tribunale del popolo, venne istitui-to agli inizi del 1934 quale sistema legale alternativo che bypassasse quello tradizionale, nello specifico per sentenziare in merito ad atti di tradimento. In questa categoria poteva rientrare qualsiasi cosa, dal non aver gridato Heil Hitler con sufficiente enfasi all’aver preso parte a un complotto per assassinare il Führer.

    La guerra rientrò da subito nei grandi piani dei nazisti, come scrisse Hitler nel Mein Kampf (La mia battaglia) agli inizi del 1924, così da potersi conquistare il Lebensraum, lo spazio vitale necessario a realizzare il trionfo della razza eletta e di quello cui Hitler si riferiva come al Reich dei mille anni, o Terzo Reich, il naturale prosieguo del Sacro Romano Impero (Primo Reich) e dell’impero germanico (Secondo Reich).

    Mentre il regime avanzava, la maggioranza dei tedeschi che non erano filonazisti cercò di tenere la testa bassa e proteggere la propria famiglia – si trasferirono all’estero o finsero di dare appoggio al regime per non essere denunciati dai vicini, mentre tentavano di capacitarsi di cosa stesse realmente accadendo nel Reich, assediati com’erano da propaganda e bufale mediatiche. Centinaia di migliaia di tedeschi, per lo più sconosciuti, scelsero invece di resistere al regime, apertamente o nel loro piccolo: comunisti, socialdemocratici, cattolici, protestanti, quaccheri e testimoni di Geova, insegnanti, negozianti, aristocratici prussiani, preti, ufficiali dell’esercito, operai di fabbrica, madri, nonni – ognuno di loro rischiò quotidianamente la propria vita, in quel periodo che durò non più di dodici anni ma costò milioni di vite.

    Una volta che il potere finisce nelle mani sbagliate, c’è poco che i singoli individui possano fare.

    Perciò ho deciso di pubblicare un libro su quei tedeschi buoni che hanno tentato di opporre resistenza ai nazisti, in grande o in piccolo. Ma come? Non volevo scrivere ancora una volta la storia già nota – quella di Hitler, Himmler e Goebbels. Volevo scrivere di persone come voi e come me. Ribaltare la prospettiva: rendere grandi le piccole storie e ridimensionare la grande storia. Ma dove avrei potuto trovare quelle piccole storie personali di coraggio silenzioso – le storie ignote, basate su ricordi, molte delle quali inedite? Per fortuna i numerosi anni di ricerche alle mie spalle mi hanno avvantaggiata: sapevo dove cercare. In più, parlo tedesco.

    Non era mia intenzione ignorare le storie di resistenza al nazismo più famose, come quella del gruppo della Rosa Bianca di Monaco; il mio obiettivo era mostrare che in quegli anni esistevano anche centinaia di migliaia di altre persone sconosciute e attive. Perciò il libro prende avvio dall’anno 1932, nei mesi che precedettero la Machtergreifung del gennaio 1933, e termina nel 1946, quando tutto – il regime di terrore, la guerra, la devastazione, la rovina e i milioni di morti – si concluse, pur lasciando strascichi notevoli.

    Ho deciso di focalizzarmi su sei personaggi, rendendo la mia selezione più varia possibile: lavoratori e aristocratici, comunisti e conservatori, donne e uomini, giovani e anziani. Dal momento che le loro azioni hanno avuto ripercussioni inevitabili su chi li circondava, non sono stati presi in considerazione quali entità isolate, bensì come membri delle rispettive famiglie: un fratello e una sorella, una moglie, un padre di tre figli, un figlio unico, i genitori di una pioniera comunista. Le loro storie si intrecciano in tutto il libro e ognuno di questi personaggi ha vissuto sulla propria pelle gli eventi altisonanti della storia nazista e le loro conseguenze sulla vita quotidiana. Tedeschi buoni, tutti quanti.

    I tedeschi buoni

    Bernt Engelmann

    Nel 1932, all’inizio di questa storia, è un ragazzino di Düsseldorf che frequenta ancora la scuola. Suo padre è un uomo d’affari, sua madre fa la casalinga. È figlio unico. La sua è una famiglia tedesca qualunque, in linea generale socialdemocratica ma senza particolari affiliazioni politiche o religiose. Si uniscono a un gruppo clandestino di resistenza locale composto da gente come loro – un insegnante, un sarto, un avvocato, un pastore –, guidato da zia Ney, che gestisce la panetteria e il caffè all’angolo della strada, accogliendo chiunque, compresi i nazisti del posto; questi non nutrono alcun sospetto nei confronti dell’anziana donna, che li trattava sempre così bene quando erano dei poveretti, prima che ascendessero al potere e a ranghi di un prestigio inimmaginabile. Le motivazioni degli Engelmann: semplicemente non sono in grado di tollerare quanto accade intorno a loro, sotto il nuovo regime di terrore. E per questa ragione sono disposti a rischiare le proprie vite.

    Fabian von Schlabrendorff

    È uno studente della facoltà di Legge di Berlino, serio e determinato. Suo padre è morto quando aveva sedici anni e sua madre ha dovuto tirar su cinque figli da sola. La famiglia è antinazista dal principio. Incontriamo Fabian per la prima volta nel 1933, dopo la Machtergreifung, mentre cammina per le strade della città alla ricerca di un uomo che non conosce e non ha mai incontrato, un uomo di estrazione sociale meno privilegiata della sua: Ernst Niekisch, redattore di una rivista chiamata «Widerstand», cioè resistenza. Fabian sta cercando persone che la pensino come lui per iniziare a opporsi ai nazisti, chiunque esse siano. Tra chi resisteva, le differenze sociali stavano iniziando a venire meno: operai e aristocratici prussiani lavoravano fianco a fianco e scoprivano di avere in comune più di quanto credessero.

    Rudolf Ditzen

    È un uomo di mezza età, già famoso come autore con lo pseudonimo di Hans Fallada, conosciuto per aver pubblicato il romanzo Ognuno muore solo. È anche un eroinomane, un bevitore, un bugiardo e un donnaiolo che ha ucciso un amico in duello quand’era giovane e ha passato del tempo in prigione per frode. È entrato e uscito da cliniche e ospedali psichiatrici, nel tentativo di guarire dalle proprie dipendenze. Rudolf è sposato con Suse, forte nonostante le prolungate sofferenze, e hanno tre bambini piccoli. Vivono a Carwitz, borgo rurale del Meclemburgo, nel nord della Germania, dove Rudolf scrive freneticamente giorno e notte, fumando una sigaretta dietro l’altra. L’argomento, ancora una volta, sono le brave persone tedesche che in qualche modo devono tirare avanti in momenti difficili. Questo è il suo atto di resistenza: rivolgersi ai suoi lettori. Gli atti eroici non fanno per lui. «Sono un uomo debole, ma non sono cattivo», scrisse una volta alla madre. Il problema per Rudolf è come restare vivo sotto al regime di terrore dei nazisti, senza scendere a troppi compromessi e restando comunque fedele ai suoi ideali liberali.

    Irma Thälmann

    Nel 1932 ha tredici anni, è figlia di Ernst Thälmann, carismatico leader del

    KPD

    , il partito comunista tedesco. Nel 1933 Thälmann viene subito arrestato insieme ad altri diecimila comunisti e trascorrerà undici anni e mezzo in isolamento, prima di venire giustiziato ingiustamente poco prima dell’arrivo dei russi, nel marzo del 1945. Irma è figlia unica e vive con la madre Rosa ad Amburgo, non troppo distante dai due nonni, entrambi compagni comunisti. Irma è una combattente, l’immagine sputata del padre. Preferisce essere picchiata tutti i giorni a scuola piuttosto che fare il saluto nazista. Madre e figlia resistono attivamente finché la Gestapo non ha la meglio su di loro. Nel frattempo ci sono occasionali visite al padre, scambi saltuari di corrispondenza e i discorsi del signor Thälmann, che loro leggono e rileggono. «Conosciamo un Paese dove non c’è nazismo», declamava l’uomo, «un Paese dove sarebbe impensabile per i cani nazisti ammazzare gente per strada, versare sangue nei quartieri della classe operaia. Si chiama Unione Sovietica!».

    Fritz-Dietlof von der Schulenburg (Fritzi)

    Sta per sposarsi con Charlotte, quando lo incontriamo la prima volta, nel marzo del 1933. Ha trentun anni ed è un aristocratico prussiano esuberante, sveglio, popolare, pieno di ideali. È anche un convinto nazista. Come tanti altri tedeschi di qualsiasi estrazione sociale, è ancora risentito per i brutali e umilianti termini del Trattato di Varsavia, a seguito della sconfitta subita durante la prima guerra mondiale, e per il collasso dell’economia tedesca avvenuto in seguito al crollo di Wall Street nel 1929. Spera che i nazionalsocialisti rendano di nuovo grande la Germania e crede negli scopi socialisti che sbandierano. Il giorno prima del matrimonio di Fritzi, Hermann Göring lo convoca. Ai nazisti servono figure di spicco dalla loro parte. Göring è così soddisfatto dal giovane e sagace conte che lo porta nella stanza accanto per incontrare il Führer. Entro il 1934, però, Fritzi sta già avendo dei ripensamenti, incoraggiati caldamente dalla sorella Tisa, appassionata socialista in una famiglia di nazisti. Nel 1938 Fritzi si unisce al gruppo segreto di resistenza del generale Beck ed è pronto a rischiare la vita per la causa.

    Julius Leber

    Era uno dei leader del partito socialdemocratico del Reichstag, prima che i nazisti salissero al potere e vietassero tutti i partiti politici alternativi al loro. «Due ore dopo la nostra vittoria, il dottor Leber penzolerà giù da un lampione nella piazza del mercato!», l’avevano schernito i nazisti di Lubecca, la città natale di Leber. L’omone tosto e vivace, però, non si lascia intimorire facilmente. Quando vengono divulgati i risultati ottenuti dalla coalizione di destra, che consegnano a Hitler e ai suoi la possibilità di prendere il potere, lascia la città e si ubriaca. Alle prime ore del mattino finisce coinvolto in una rissa con alcuni nazisti del posto, a seguito della quale viene arrestato e incarcerato a tempo indeterminato. Quando alla sua devota consorte, Annedore, viene negato il permesso di vederlo, la donna riesce a salire su un tetto lì vicino, per poterlo guardare durante l’ora d’aria giornaliera nel cortile della prigione. Quando viene scarcerato, nel 1937, dopo essere stato ripetutamente picchiato e torturato, i nazisti pensano che il dottor Leber non causerà altri problemi. Lui invece si ributta a capofitto nella lotta, ben consapevole di cosa potrebbe costargli alla fine.

    Capitolo 1

    La svastica

    Bernt Engelmann fu accolto da un panorama insolito, quando un lunedì mattina di maggio dell’anno 1932 arrivò a scuola: una bandiera con la svastica sventolava dall’alto di una torretta dell’edificio, così che tutti potessero vederla. Il cortile era invaso da studenti e insegnanti con il naso all’insù, stupefatti. Uno tra i docenti più anziani disse: «Tirate giù subito quella roba! È scandalosa!» ¹. Il bidello si limitò a sogghignare, non riusciva più a trovare le chiavi per accedere alla torretta, si giustificò. Poi assistettero a una scena che fece vergognare tutti: il professore di francese, il dottor Levy, che aveva solo un braccio, si calò da uno degli abbaini e si fece strada sul tetto. Dopo essersi arrampicato sulla scala antincendio, in qualche modo, riuscì a issarsi sopra la ringhiera di ferro che circondava la torretta e a strappare via la bandiera. Sapevano che si trattava di lui, perché avevano notato la manica vuota della giacca che penzolava inerte. In cortile scoppiarono gli applausi, fatta eccezione per quei pochi che fischiarono. Quel giorno la classe di Bernt aveva francese alla seconda ora, ma il dottor Levy non disse una parola, proseguendo a spiegare i verbi irregolari come se nulla fosse successo. Se non che, quando fece scorrere di lato la lavagna anteriore per poter scrivere su quella dietro, ci trovò scarabocchiato sopra con il gessetto bianco

    SALOPE JUIF!

    L’insegnante si voltò verso la sua classe. «È stato uno di voi a scriverlo? No? Vi credo». Poi spiegò che la parola salope significava puttana, perciò juif si sarebbe dovuto accordare al femminile, diventando juive. A quel punto prese la spugna e cancellò l’insulto, rimpiazzandolo con manchot juif. Spiegò che il primo termine in francese si riferiva a un veterano di guerra che aveva perso un braccio, proprio come era accaduto a lui durante la battaglia di Arras del 1917.

    All’epoca Bernt aveva dodici anni e quando tornò a casa per pranzo raccontò l’accaduto ai genitori. Suo padre lavorava nel settore commerciale per una ditta di import-export, sua madre era una casalinga indaffarata. Erano socialdemocratici della classe media e Bernt, figlio unico, era cresciuto durante la guerra civile latente della Repubblica di Weimar, quando i Freikorps paramilitari – di fatto eserciti privati formati da veterani di guerra – combattevano sistematicamente contro comunisti e socialisti, versando sangue per le strade e le piazze. I genitori di Bernt rimasero esterrefatti al racconto del figlio, soprattutto quando, ora di sera, si vociferò che il preside della scuola, che si sospettava simpatizzasse per i nazisti, invece di punire i colpevoli aveva sospeso il dottor Levy fino a data da destinarsi. Il signor Engelmann annuì. «È questo il genere di cose che capita, di questi tempi».

    Eppure, in occasione delle elezioni di novembre, il partito nazionalsocialista perse trentaquattro seggi, non riuscendo ad arrivare alla maggioranza necessaria, nonostante la massiccia propaganda orchestrata da Joseph Goebbels nei soliti modi: altoparlanti, discorsi declamatori, parate militari, Corpi Franchi in marcia, inni a squarciagola e processioni notturne a lume di candela. Per non parlare degli atti di violenza per le strade ².

    Nell’anticamera della loro casa nella periferia di Düsseldorf, il padre di Bernt, ascoltando i risultati delle elezioni alla radio, pensò che in fin dei conti i suoi connazionali dovevano avere un po’ di cervello. Purtroppo si pronunciò troppo presto. Attraverso una serie di dubbie coalizioni con altri partiti di destra, il 30 gennaio 1933 Hitler fu nominato cancelliere dal governo del presidente Hindenburg. Un amico degli Engelmann lavorava al pronto soccorso dell’ospedale cittadino e raccontò loro che quella sera erano stati presi d’assalto dai feriti, molti dei quali anche gravi. I nazisti trionfanti si erano dati a episodi di violenza, aggredendo comunisti, socialisti ed ebrei con qualunque cosa su cui riuscivano a mettere le mani – palle in acciaio ricoperte di cuoio, tirapugni, frustini – e tutto questo a Düsseldorf, dove i socialdemocratici per tradizione la spuntavano sempre. A quanto pareva Felix Fechenbach, caporedattore del «Volksblatt», voce del partito socialdemocratico, era stato pestato a sangue, arrestato e sottoposto a custodia cautelare dalla polizia. Più tardi si era venuto a sapere che gli avevano sparato mentre tentava di fuggire.

    Il 30 gennaio 1933 la famiglia Engelmann rimase al sicuro in casa, così come i due terzi della popolazione. Il rimanente terzo, invece, fu filmato per i cinegiornali della macchina propagandistica del dottor Goebbels mentre era intento a inneggiare in modo isterico al Führer, che sfilava per le strade di Berlino a bordo della sua decappottabile, con la mano alzata nel noto gesto di saluto. Il padre di Bernt scrollò la testa ed entrò nell’altra stanza per ascoltare le notizie in radiodiffusione. «Come un incendio che divampa la notizia si è propagata in tutta la Germania! Adolf Hitler è cancelliere del Reich! Dai cuori ardenti di un milione di tedeschi traboccano gioia e gratitudine […] Una processione di migliaia di persone sta sfilando lungo Wilhelmstraße, centinaia di migliaia di voci che nella notte invocano con giubilo "Sieg Heil! Sieg Heil!³. Il signor Engelmann si prese la testa tra le mani. Era incredibile – persino la voce del commentatore era cambiata: più acuta, più stridula. «Distruggeranno tutto, leggi, ordine, civiltà, tutto ciò che per noi conta qualcosa», disse.

    Il Reichstag era in tumulto dopo le elezioni, indette per disperazione dal governo di Weimar, ancora piagato per i problemi socioeconomici derivanti dalla sconfitta subita dalla Germania durante la Grande Guerra del ’14-’18 e per i termini impietosi del Trattato di Versailles del 1919, aggravati ulteriormente dalla disastrosa crisi economica conseguente al crollo di Wall Street del 1929. L’anno peggiore era stato il 1923, quando l’iperinflazione aveva raggiunto livelli tali che la gente era costretta a pagare un sacco di patate un milione di marchi. A seguito del piano Dawes del 1924 – che aveva fissato il tetto delle riparazioni di guerra a cinquanta miliardi di marchi e consentito un prestito dall’America e negoziazioni per il ritiro delle truppe francesi e belga dalla Ruhr, così che l’industria mineraria e le acciaierie tedesche potessero rimettersi in moto –, l’economia si era gradualmente assestata. Finché il crollo della borsa statunitense non aveva mandato di nuovo tutto all’aria. Risultato: costanti tafferugli di estremisti violenti, sia di destra sia di sinistra; la sinistra incolpava i capitalisti, la destra scaricava le responsabilità su comunisti ed ebrei. Ora del 1930 venne redatto il piano Young, che riduceva i pagamenti del venti per cento. Il popolo, però, era ormai ridotto alla fame e tutti erano alla ricerca di un salvatore.

    Nelle elezioni precedenti, nel luglio del 1932, il partito nazista (

    NSDAP

    ) si era guadagnato il 37,27% dei voti, assicurandosi 230 seggi su 584, e ci si aspettava che potesse arrivare ai 293 necessari per la maggioranza nelle elezioni successive, soprattutto se Goebbels continuava a portare avanti il suo lavoro di propaganda. Fu una sorpresa per tutti quando a votare si presentò più dell’ottanta per cento della popolazione: questo la diceva lunga su come si sentissero i tedeschi in quel periodo ⁴.

    Fu il partito comunista

    KPD

    , guidato dal carismatico Ernst Thälmann, che puntava in continuazione il dito sui pericoli e la precarietà del sistema capitalista, a guadagnarsi inaspettatamente 11 seggi in più, sottratti a nazisti e socialdemocratici. I deputati del Reichstag rimasero basiti di fronte al trionfo di Thälmann e dei suoi: finalmente il proletariato aveva aperto gli occhi sul fatto che solo gli integerrimi comunisti avevano la soluzione e che gli infiniti compromessi politici dei socialdemocratici erano soltanto una delusione. Ora del 1932 il numero dei disoccupati nel Reich era salito a sei milioni, e ventisettemila aziende agricole avevano chiuso i battenti. A Berlino tre quarti dei residenti vivevano in un monolocale, comprese le famiglie con figli ⁵. La democrazia di Weimar aveva chiaramente fallito nel risolvere il problema della povertà, del caos politico e della forte disillusione postbellica. Quindi, al di là dei patrioti tradizionalisti che ancora votavano per il conservatore

    DNVP

    , il partito popolare nazionale tedesco, gli altri si erano rivolti a forze politiche estremiste affinché mettessero fine ai loro guai, esacerbando ulteriormente la polarizzazione del Paese. I lavoratori tendevano a votare per la sinistra, cioè per l’

    SPD

    , il partito socialdemocratico, o per il

    KPD

    , quello comunista, anche se ormai l’ago della bilancia pendeva più in favore del secondo, dato che i socialdemocratici avevano perso dodici seggi. I lavoratori costituivano il 45,9% dei votanti, ma solo il 28% di loro votava per i nazisti. Erano gli strati inferiori della classe media, i negozianti e i colletti bianchi a votare per il partito di Hitler, ovvero un quarto degli iscritti pur rappresentando di fatto solo il 12% della popolazione.

    Hitler decise che era arrivato il momento di servirsi di altri mezzi: abolire la democrazia, il Reichstag, i comunisti e i socialisti, dare la colpa agli ebrei e toglierli di mezzo. Chiunque avesse orecchie per sentire e occhi per leggere il manifesto politico di Hitler, il Mein Kampf, pubblicato in due volumi nel 1925 e nel 1927, avrebbe potuto prevederlo. Un intero capitolo era dedicato alla politica sul fronte orientale. La razza pura tedesca, scrisse, aveva bisogno di un Lebensraum, di una terra in cui vivere, e se la sarebbe guadagnata espandendosi a oriente, verso Polonia e Russia, e questo significava necessariamente entrare in guerra. Non solo con i non ariani, gli slavi subumani, ma anche con i comunisti.

    Per quanto concerneva gli ebrei tedeschi: «Non appena avrò il potere, farò costruire schiere di patiboli, a Marienplatz per esempio», raccontò Hitler ai suoi galoppini durante una delle sue riunioni private, agli inizi degli anni Venti. «Gli ebrei verranno impiccati uno dopo l’altro e rimarranno lì appesi a marcire. Resteranno in piena vista, entro i limiti dell’igiene. Non appena verranno calati giù, sarà la volta del secondo gruppo e poi di quello successivo, finché anche l’ultimo ebreo di Monaco non sarà stato sterminato. La stessa identica procedura verrà adottata in tutte le altre città, fino a che l’intera Germania non sarà stata epurata da tutti gli ebrei!» ⁶.

    Intanto ad Amburgo Ernst Thälmann si rivolgeva ai suoi compagni, in occasione di un raduno di massa di comunisti, il 10 luglio 1932. «Non vi è menzogna più indegna da raccontare alle masse di quella che vi stanno propinando: i nazisti presto esauriranno il carburante, lasciateli sfogare. Bisogna prendere nota di ogni commento di questo tenore e rifiutarlo aspramente. È uno schiaffo in faccia a tutti i lavoratori antinazisti e socialdemocratici […] Siamo testimoni dell’espansione del movimento nazista in Germania, dell’aumento di nazisti nei posti di lavoro e nel nostro esercito, e della crescita dei loro voti. Non solo si servono dei metodi più brutali per reprimere il lavoratore, ma si stanno anche preparando a una guerra contro l’Unione Sovietica» ⁷.

    A Berlino, uno studente di Legge aspirante procuratore, Fabian von Schlabrendorff, stava cercando di capacitarsi dei recenti avvenimenti nella Germania che lui conosceva e amava. Aveva venticinque anni, i capelli scuri, gli occhiali, la testa sulle spalle e un fine ingegno, e godeva della sicurezza innata di chi aveva trascorso un’infanzia serena. La sua famiglia era di origini nobili, anche se non spiccava come i Bismarck o i Moltke e non era particolarmente ricca, ma in quei circoli tutti si conoscevano tra loro e molti erano anche imparentati alla lontana. Le famiglie possedevano vasti appezzamenti terrieri nelle campagne, spesso interi villaggi, e si fregiavano di titoli come Graf, Freiherr o Baron, che venivano tramandati di padre in figlio. Al di là della gestione delle proprietà terriere, i padri spesso ricoprivano anche posizioni di prestigio nell’amministrazione prussiana o avevano un grado elevato nell’esercito. A livello politico tendevano a essere conservatori, votavano per il

    DNVP

    o per il centro, e a livello di classe credevano nei valori tradizionali di onore e patriottismo, famiglia, dovere, responsabilità sociale, decoro e ordine naturale; la nobiltà prussiana si trovava un gradino sopra al resto della popolazione.

    La loro era una società paternalistica e tanto meglio, ritenevano. Di domenica l’intera famiglia andava a messa: la maggior parte era protestanti, ma si trovava anche qualche cattolico seduto nelle file davanti, mentre i paesani e i lavoratori alle loro dipendenze si tenevano rispettosamente in disparte nelle file dietro. Gli anni turbolenti della Repubblica di Weimar avevano lasciato i nobili con sentimenti contrastanti nei riguardi della democrazia. Erano abituati ai Kaiser e il loro eroe era Bismarck, pugno di ferro con annessi e connessi. La repubblica era troppo fragile, per loro, lasciava confuso Reich e popolo ed era l’anticamera del conflitto, perciò si tenevano stretti l’eredità prussiana e i legami con conoscenti e affini. Se i loro figli non entravano in uno dei reggimenti dell’esercito prussiano, finivano con ogni probabilità a studiare Giurisprudenza, dopo aver frequentato il Gymnasium ed essersi fatti buone basi negli studi classici – la legge era la via d’accesso a tutto il resto ⁸.

    Questa era la storia di Fabian. Nel 1932 viveva nell’appartamento di famiglia a Berlino e stava portando avanti gli studi. I Von Schlabrendorff erano soldati prussiani da entrambi i rami familiari, ma Fabian era intenzionato a perseguire le proprie aspirazioni in un altro campo, magari nel dipartimento legale dell’amministrazione prussiana. Aveva idee politiche vicine alla sinistra per qualcuno con le sue origini ed era determinato a farsi strada con le proprie forze. In effetti non aveva molta scelta: suo padre, di vent’anni più anziano della madre, era morto quando lui ne aveva sedici. Era l’unico maschio, aveva quattro sorelle, e la loro mamma aveva faticato parecchio per arrivare alla fine del mese. L’orientamento politico del padre era conservatore e aveva sempre simpatizzato a fatica con la Repubblica di Weimar. Da soldato era consapevole che alla Germania servissero un leader forte e un esercito coeso. Pochi dei suoi colleghi ufficiali sarebbero stati in disaccordo con lui, ma non erano in molti a condividere la sua idea che il primo e principale compito dell’esercito fosse quello di evitare la guerra, non di andarsela a cercare.

    Nel 1914, allo scoppio della Grande Guerra, Fabian era solo un ragazzo, ma ricordava il tripudio e l’esaltazione di tutti, tranne che di suo padre: «Il Reich tedesco perderà questa guerra», aveva detto, «e con essa la monarchia». Tutti avevano pensato che Von Schlabrendorff stesse dando sfogo al suo ben noto pessimismo, ma con il passare del tempo la situazione si complicava, il cibo scarseggiava e le vittorie si facevano desiderare, e la gente si rese conto che aveva avuto ragione lui. Alla sua morte aveva lasciato a Fabian una copia del Tramonto dell’Occidente di Oswald Spengler, il libro che tutti stavano leggendo all’epoca, scritto sull’eco della guerra. Fabian lo teneva sempre con sé: gli fornì una guida spirituale per il resto della sua vita.

    Se il padre di Fabian era un uomo taciturno, la madre era l’opposto: chiacchierona nata, non faceva nulla per tenere a freno il suo tratto ciarliero. Quando il marito aveva pronosticato la sconfitta della Germania, lei ne aveva parlato con chiunque, suscitando un certo scalpore. Era una donna energica, vivace, calorosa, di temperamento ribelle e adorata dai cinque figli. E dal silenzioso marito che, interrogato a proposito delle dichiarazioni antipatriottiche della consorte, aveva rifiutato di scusarsi, sostenendo che avesse diritto alle proprie opinioni, come chiunque altro. La signora Von Schlabrendorff più avanti divenne una fervente antinazista. Qualche anno più tardi i nazisti tentarono di premiarla con la Croce d’onore per le madri tedesche. Per potersi guadagnare un tale riconoscimento era necessario dimostrare la purezza della propria ascendenza fino ai nonni e avere almeno quattro figli. La gente per strada scherniva l’onorificenza, affibbiandole il soprannome di Ordine del coniglio. La signora Von Schlabrendorff aveva cinque figli e viveva in ristrettezze economiche da quando il marito era morto, per tanto avrebbe potuto ricevere qualcosa di più di una medaglia – magari un alloggio più spazioso, lasciato libero da una famiglia ebrea. Quando gli ufficiali nazisti del posto andarono a congratularsi con lei, però, la signora li accolse con un: «Immagino che siate venuti a portarmi in un campo di concentramento!». E la cosa finì lì.

    Quel giorno del 1932 Fabian stava attraversando Berlino alla ricerca di uno sconosciuto che difficilmente avrebbe incontrato in altre circostanze, dal momento che il loro status sociale era molto diverso. Gli era capitato per le mani un giornale dal titolo «Widerstand», resistenza, pubblicato da Ernst Niekisch, uomo di spicco di un movimento noto come nazionalbolscevismo ⁹. Legato alla lontana con il partito comunista, aveva riunito forze tedesche eterogenee che, per varie ragioni, avevano ricusato i termini del Trattato di Versailles, preferendo il potere sovietico a quello americano, senza smettere di sostenere il nazionalismo tedesco. Fabian sapeva che nel 1919, durante la guerra civile latente in cui era sprofondata la Germania dopo la guerra, Niekisch aveva contribuito alla fondazione della seppur breve Repubblica Sovietica Bavarese e passato un periodo in prigione per aver sostenuto la rivoluzione in Baviera. Sapeva inoltre che pur essendo membro dell’

    SPD

    , almeno a livello nominale, Niekisch si opponeva al suo supposto pacifismo, e per questa ragione era stato espulso dal partito nel 1926, anno in cui aveva fondato «Widerstand». Nel 1932 aveva pubblicato un libello dal titolo Hitler, ein deutsches Verhängnis (Hitler, una fatalità tedesca), attacco diretto al nazismo. Ecco perché Fabian lo stava cercando.

    Fabian aveva letto il Mein Kampf a Halle, all’università di Legge. Si era trattato di una scelta curiosa per un giovane uomo con tendenze sinistrorse, in quanto persino allora la città era un ricettacolo di idee di estrema destra, prospera sede di partito dei nazisti. Lì viveva però lo zio Alfred, l’unico fratello di sua madre e presenza importante nella vita del giovane, essendo una figura su cui poter contare, apprezzata e rispettata dalla comunità a prescindere dall’estrazione sociale o dall’orientamento politico. Lavorava per l’amministrazione pubblica, era liberale e uno scapolo incallito. Nel 1933, quando i nazisti si sforzavano ancora di dare l’impressione di attenersi alla legge, gli avevano offerto la carica di capo della polizia di Halle, ma lui l’aveva rifiutata. Questo aveva dimostrato a Fabian che si poteva essere un ufficiale del Terzo Reich senza per questo cedere ai nazisti. E infatti lo zio Alfred non si arrese mai, neppure sul finire del 1944, quando sostenne pubblicamente alcuni amici coinvolti nel complotto del 20 luglio ordito per assassinare Hitler. Allo stesso modo, quando alla fine Fabian venne arrestato e incarcerato nel quartier generale della Gestapo di Prinz Albrecht Straße, lo zio Alfred andò a Berlino a trovarlo.

    Fabian aveva iniziato a studiare a Halle su sollecitazione dello zio, perché era un’università eccellente con una biblioteca molto famosa. Era lì che aveva trovato il Mein Kampf. Qualsiasi dubbio avesse potuto nutrire venne spazzato via all’istante: da quel momento in poi avrebbe combattuto i nazisti in qualsiasi modo possibile. Ma da dove cominciare? Le persone che conosceva provenivano da un ambiente simile al suo e, nel 1932, la maggior parte di loro era ancora alla ricerca di un leader carismatico che ponesse fine al caos della Repubblica di Weimar. Fabian si era messo con determinazione alla ricerca di qualcuno che condividesse la sua visione e i suoi scopi e, giunto a Berlino per proseguire gli studi, si era imbattuto in «Widerstand».

    Ernst Niekisch non si aspettava visite, quando sentì bussare alla porta della sua casa in Hallesches Ufer, quartiere ordinario di Berlino, molto lontano da quello elegante in cui era situato l’appartamento di Von Schlabrendorff. Quando andò ad aprire, sulla soglia trovò un giovanotto di chiara ascendenza prussiana, perché cose del genere si intuivano a prima vista. La deduzione fu confermata come Fabian aprì bocca. Nel suo tono educato da uomo di cultura, si scusò con un piccolo inchino per essersi palesato senza preavviso, si presentò e spiegò le ragioni della sua visita. Dal canto suo, Fabian si trovò di fronte un uomo di mezza età di bassa statura e tarchiato, appartenente alla classe media e con un’espressione dura e determinata in viso. «Probabilmente era l’uomo più importante che avessi mai incontrato. Les extrêmes se touchent», aveva detto in seguito, riferendosi alla forza di attrazione tra gli opposti. I due si presero subito in simpatia e rimasero in buoni rapporti fino al giorno in cui Niekisch morì.

    Una volta in casa, Fabian si accorse subito di aver fatto la cosa giusta e di aver trovato l’uomo che stava cercando. Niekisch se la cavava bene con le parole e aveva un modo di fare aperto e diretto, preoccupandosi unicamente di esprimere la propria opinione con chiarezza e decisione. Non si rivolse mai a Fabian con accondiscendenza, anche se aveva di fronte un giovane studente, ma presto riuscì a convincerlo che c’era un altro modo di vedere le cose. Per Fabian si trattava del primo incontro faccia a faccia con un vero repubblicano: fino ad allora aveva letto le idee di Niekisch solo sui giornali e se l’era immaginato marxista, in linea generale, ma con un orientamento più nazionalista che internazionalista. Ora che si trovava davanti l’uomo in carne e ossa, Fabian si rese conto con chiarezza che dinanzi a lui si era dischiuso un nuovo mondo. Anche anni più tardi avrebbe continuato a conservare un ricordo vivido di quel primo incontro.

    «Come mi ha trovato?», gli domandò Niekisch.

    «Su Widerstand».

    In tal modo Niekisch comprese di non dover iniziare dalle basi: il giovanotto le conosceva già. Per quanto insolito potesse sembrare, Fabian von Schlabrendorff era giunto alla sua stessa conclusione: Hitler e i nazisti erano una forza caotica e distruttiva per la Germania, cui bisognava opporre resistenza a qualunque costo. Niekisch pensava che dal caos della Repubblica di Weimar dovesse emergere una nuova era, quella del proletario, del lavoratore, così da contrastare il populismo hitleriano con tutti i suoi discorsi sul Volk, la razza e la guerra. E il suo odio per gli ebrei. Fabian si domandò per un istante se l’uomo di fronte a lui avesse sangue semita nelle vene, probabilmente era così. In merito al proletariato, per quanto ne sapesse lui, molti lavoratori stavano riponendo le proprie speranze nel nazismo.

    «Pensa che Hitler sia una specie di Napoleone

    III

    ?», gli domandò.

    «No, no», dissentì Niekisch. «Più un Napoleone

    I

    . Trascinerà il mondo intero in guerra, inizierà con grandi vittorie, sbandierando la sua svastica, prima dell’inevitabile rovina e distruzione». Lo disse nel 1932, ricordò in seguito Fabian, molto tempo prima dell’effettivo tracollo e della sconfitta del Paese.

    Fabian si rese conto di avere molto da imparare. Lo sorprese constatare che Niekisch non ammirava Gustav Stresemann, il politico di Weimar che era stato cancelliere e ministro degli Esteri negli anni Venti, guidando la Germania durante la crisi di iperinflazione causata dai duri termini del Trattato di Versailles. Come tanti altri democratici, Von Schlabrendorff nutriva ammirazione per il modo in cui Stresemann, in collaborazione con gli alleati occidentali, era riuscito a far ridurre il costo delle riparazioni di guerra, convertendone una parte in forniture di materie prime quali carbone e ghisa, e per il suo ruolo nelle negoziazioni tra Germania e Francia riguardo alla ritirata francese dal bacino industriale della Ruhr. Il nazionalbolscevico Niekisch, però, non era d’accordo. Non era rimasto colpito dal suo modo di corteggiare gli alleati stranieri, i veri responsabili dei termini rovinosi del trattato. Aveva preferito invece le condizioni del Trattato di Rapallo del 1922 tra la Germania e la nuova repubblica socialista sovietica, in base alle quali i due governi si impegnavano a collaborare per perseguire obiettivi economici condivisi, rinunciando a pretese territoriali e finanziarie. In pubblico le due parti avevano convenuto di riallacciare le relazioni diplomatiche; in segreto, entro il 1926, avevano anche preso accordi per cooperazioni di natura militare.

    Quello era un segreto piuttosto grande. Niekisch non era a favore del pacifismo ed era profondamente risentito che il trattato avesse proibito il riarmo alla Germania, fatta eccezione per un esiguo esercito di centomila uomini. Quando Fabian lo conobbe, Niekisch agiva da collegamento segreto tra la Germania e la Russia sovietica, lavorando al fianco di Karl Radek, comunista rientrato in Germania da Mosca nel 1923, che aveva iniziato a prendere contatti con ciò che rimaneva della Reichswehr, la forza di difesa del Reich, cioè l’esercito tedesco. Il piano era di allestire in gran segreto un reggimento di carri armati e una nuova divisione aerea in Russia, violando apertamente le disposizioni di Versailles. Non è chiaro quanto successo ebbe il piano, ma una cosa è certa: Niekisch godette della protezione dell’esercito tedesco per tutta l’epoca nazista. Fabian, però, lo scoprì solo in seguito. Per il momento si limitava a cercare altri che condividessero le sue preoccupazioni riguardo ai pericoli del nazismo. Il popolo era una cosa buona e giusta, com’era solito dire Niekisch, ma era solo lo Stato ad avere il diritto di governare. E Fabian, con le sue radici prussiane, non poteva che essere d’accordo.

    Se Fabian aveva ben chiaro tutto questo, non altrettanto si poteva dire di un uomo che si chiamava Rudolf Ditzen. Descritto da alcuni come un ladro, un bugiardo, un alcolizzato, un drogato e un donnaiolo, Rudolf lottava costantemente con l’ansia e la depressione. Secondo alcune persone la sua condizione risaliva a un grave incidente di cui era stato vittima da ragazzino, che gli aveva lasciato cefalee, capogiri e problemi di insonnia ¹⁰. Secondo altri, invece, era nato così e aveva portato guai alla famiglia sin da bambino. All’età di diciotto anni aveva subìto il primo di numerosi ricoveri in un istituto psichiatrico, dopo aver accidentalmente ucciso un amico in un duello – risultato di un patto suicida andato male ¹¹. Durante gli anni Venti aveva anche trascorso due brevi periodi dietro le sbarre con l’accusa di appropriazione indebita.

    I Ditzen erano una tipica famiglia della classe media: il padre era un magistrato della zona di Greifswald, cittadina sulla costa baltica; la madre faceva la casalinga e tirava su quattro figli con l’aiuto di una balia e due servitori. Rudolf era il terzo figlio e l’unico che non riuscirono mai a capire. Con il passare degli anni tentarono di influenzarlo, di guidarlo, di sostenerlo, spesso anche finanziariamente, ma invano. Rudolf passava da una crisi all’altra, tentando spesso il suicidio e cacciandosi sempre nei guai. I suoi insegnanti lo descrivevano come un «individuo decadente che dava l’impressione di essere stanco della vita, che si sentiva sempre al di sopra della legge» ¹². Era anche arrogante, secondo il preside della sua scuola. Erano tutti perplessi, perché i suoi genitori erano brave persone cui piacevano i libri e la musica. Suonavano il piano e portavano i figli allo zoo e nei musei. Non avevano idea di come trattare quel figlio così imprevedibile. Quando Rudolf terminò gli studi al Gymnasium e all’università, si limitarono a sperare e pregare che trovasse un buon impiego, una buona moglie e che mettesse la testa a posto. Invece le cose peggiorarono. Rudolf prese a bere sempre di più, divenne dipendente dalla morfina e dalla cocaina, si mise a fumare come una ciminiera, restando fuori a tutte le ore, spesso per notti intere. Viveva in un costante stato di irrequietezza, faticava a dormire e sembrava odiare i genitori.

    La famiglia si era trasferita a Lipsia dopo la promozione del padre alla corte suprema. Rudolf si era così messo a cercare qualcosa da fare, perché aveva bisogno di racimolare soldi. Suo padre gli dava una piccola somma, ma non bastava neppure lontanamente a coprire i suoi appetiti costosi. Alla fine era riuscito a trovare lavoro come amministratore di un’azienda agricola locale. Durante gli anni del primo conflitto mondiale non era stato ritenuto idoneo al servizio militare e aveva trovato un impiego in un altro terreno in Pomerania. Era il lavoro adatto a lui: gli piacevano i contadini, la gente comune, la campagna, i boschi, i campi e la solitudine. L’ambiente però non lo cambiò, niente era in grado di farlo, anche se gli si addiceva. Più di ogni altra cosa riusciva a ritagliarsi il tempo di fare ciò che aveva sempre voluto fare e che sapeva di poter fare: scrivere.

    «Per tutto il tempo – e l’ho capito solo dopo anni – stavo imparando a diventare quello che sarei stato un giorno: uno scrittore […] File sconfinate di donne che chiacchieravano mentre estirpavano le erbacce dalle barbabietole o coglievano patate e io le sentivo parlare per tutto il giorno». Lo stesso valeva per il suo capo, i casari e i braccianti. «Ho appreso il loro modo di parlare e ciò di cui parlavano, perché anch’io non ero che un umile impiegato, quindi non si tiravano indietro nelle loro interazioni con me» ¹³.

    Rudolf aveva preso a scrivere senza un editore e un piano chiaro in mente, ma a poco a poco aveva trovato il suo argomento: le persone comuni, gli Anständigen, la brava gente che lottava per sopravvivere nel caos politico ed economico della Germania postbellica. Aveva scelto lo pseudonimo di Hans Fallada, attinto da una delle fiabe dei fratelli Grimm: era il nome di un cavallo che diceva sempre la verità – un tocco simpatico, considerata la sua natura sfuggente ed evasiva. «Tutto quello che capita nella mia vita finisce nei miei libri» ¹⁴, affermò un giorno del 1946, in occasione di un’intervista radiofonica. E fu così, in effetti, che Rudolf raccontò al mondo la verità di quanto accadeva in Germania: attraverso la sua scrittura, se non tramite le sue azioni.

    Gli anni Venti furono drammatici e caotici tanto per la Germania quanto per Rudolf. Uno dei suoi fratelli era rimasto ucciso in guerra e fu un duro colpo per l’intera famiglia. Per di più gli investimenti sulle obbligazioni di guerra del signor Ditzen erano stati intaccati dalla sconfitta del Paese, quindi i soldi che entravano nelle casse di Rudolf erano diminuiti. Un tempo la famiglia riusciva a godersi lunghe vacanze estive e inverni a sciare sulle Alpi, ma ora dell’estate del 1923, con l’iperinflazione galoppante in aggiunta ai problemi economici, poterono permettersi solo una vacanza breve, soprattutto per le spese di viaggio. «Un biglietto del treno di quarta classe costa 58.000 marchi all’andata e 580.000 al ritorno. Il giorno seguente il prezzo sale a 2.320.000 marchi» ¹⁵, scriveva il signor Ditzen al figlio.

    Al loro rientro a casa, però, li attendevano brutte notizie. A luglio Rudolf, forse a causa delle ristrettezze economiche, fu condannato a sei mesi di prigione per appropriazione indebita. Doveva pur trovare il modo di foraggiare la sua dipendenza da morfina, alcol e tabacco. Nell’agosto del 1923 ci fu uno sciopero generale e il governo cadde. Ad Amburgo si verificò una sollevazione comunista di breve durata e a Monaco il neonato partito nazista incoraggiò il putsch della birreria. Gustav Stresemann fu rimpiazzato nel suo ruolo di cancelliere, anche se non in quello di ministro degli Esteri, e il governo successivo fu costretto a introdurre una legislazione di emergenza per sedare i violenti disordini civili.

    Rudolf aveva il viso scavato e un incarnato itterico per via delle sue dipendenze e del cronico vizio della sigaretta, ma era come un tappo di sughero in balia del mare in tempesta: pur se sballottato da una parte all’altra riusciva sempre a tornare a galla. Nel 1924 riuscì a trovare un editore, Ernst Rowohlt. Di corporatura robusta e dal carattere forte, generoso e dotato di un buon senso dell’umorismo, Rowohlt era il tipo di persona che appena entrava in una stanza si faceva degli amici. Ottimo editore, restava accanto ai suoi scrittori nella buona e nella cattiva sorte. Dalla prigione, Rudolf gli chiese con disinvoltura di mandargli sei volumi di Balzac. Rowohlt glieli fece avere aggiungendo un appunto spiritoso: le sole spese di spedizione gli erano venute a costare 116.760.000.000 di marchi. L’editore sapeva che Rudolf era foriero di guai, ma anche in grado di vedere in lui uno scrittore eccezionale. A dicembre gli diede cento marchi d’oro, il primo di innumerevoli prestiti e anticipi che gli avrebbe elargito nell’arco degli anni.

    In prigione Rudolf si tenne impegnato imparando a memoria La ballata del carcere di Reading di Oscar Wilde. A causa della situazione di emergenza, celle pensate per un detenuto erano sovraffollate. Di giorno spaccava la legna e di notte leggeva e scriveva finché c’era luce e non spuntavano gli scarafaggi. Purtroppo per guadagnarsi il favore dei secondini era costretto a fare soffiate sui compagni di cella. «Ma questa è la vita», scrisse a cuor leggero a un amico. «Devo sopravvivere. Lasciamo che siano gli uomini più forti a fare gli eroi e i martiri. Il mio talento può spingermi al massimo a essere un piccolo codardo» ¹⁶. Se il periodo in carcere avrebbe dovuto insegnargli qualcosa, non lo fece. Era uscito da poco e aveva appena trovato un nuovo lavoro presso un terreno agricolo quando sparì, insieme a quattordicimila marchi rubati dalla cassa. Più tardi contraffece un assegno da diecimila marchi e ne rubò altri cinquemila. Alla fine si consegnò, venne considerato colpevole di tutte le accuse e condannato a due anni e mezzo di prigione. «Un vero e proprio psicopatico degenerato» ¹⁷, lo descrisse il magistrato.

    Per quanto riguardava Rudolf, la prigione era una buona notizia: l’unica cosa che non voleva era finire in un altro istituto psichiatrico. Per lo meno in cella poteva leggere e scrivere e magari persino liberarsi delle sue dipendenze. Stava già lavorando a un nuovo romanzo e, sotto la guida di Rowohlt, scriveva anche saggi e articoli. Era sempre più concentrato sul tema dell’uomo qualunque, povero e dignitoso, che lottava e veniva ingiustamente accusato e soverchiato, sballottato dal destino e dalle circostanze politiche, sui quali non aveva alcun controllo.

    Basandosi sulle proprie esperienze, si avvicinò alla causa della riforma delle carceri. «Chi ha scontato una pena molto lunga non dovrebbe essere rilasciato senza dargli modo di provvedere a sé stesso» ¹⁸, scrisse in uno dei suoi articoli. Nel suo caso il sistema aveva funzionato bene: al momento del rilascio, nel febbraio del 1928, i servizi sociali penitenziari gli trovarono un lavoro ad Amburgo. Fu lì che si unì alle fila dell’

    SPD

    e iniziò a frequentare l’Organizzazione internazionale dei buoni templari, basata sull’astinenza, che lo aiutò a smettere di drogarsi. E sempre lì conobbe Suse Issel, volontaria ventisettenne

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