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Bagliori nel buio
Bagliori nel buio
Bagliori nel buio
E-book1.378 pagine17 ore

Bagliori nel buio

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Info su questo ebook

Alla vigilia del suo primo giorno di lavoro Giulia di se stessa conosce soprattutto gli obiettivi, emergere, e i difetti: secchiona e stakanovista, rigida e perfezionista, tanta fatica e troppo poco divertimento.
L’ingresso nella più prestigiosa multinazionale al mondo la obbliga controvoglia ad abbracciare il caos più totale: un amministratore delegato svitato, una capa fosca e crudele, una folta schiera di nuovi amici ma anche qualche fastidioso nemico, Sam, il ragazzo che sembra fatto apposta per lei, Marco, l’uomo più sbagliato che ci sia le cui disavventure la attirano come una calamita.
Riuscirà Giulia a trovare la sua strada? Tutte le risposte giacciono inviolate tra la sua frenetica vita milanese e suggestivi tramonti in riva al lago di Como, feste sfrenate nelle più esclusive ville lariane e mesti rientri a casa, dove l’attendono solo i freddi silenzi della madre, un esaltante diario di vita lungo un anno per sperimentare tutto e mettere a fuoco solo ciò che desidera, intense pagine scritte a più mani, impreziosite di lettere e poesie che solo il vero amore, quello più puro, profondo e appassionato, sa dedicare.
Accanto alle vicende di Giulia quelle di tante altre aspiranti stelle, ognuna al suo pari alla ricerca di un piccolo spazio di affermazione nell’universo infinito, un misterioso palcoscenico dove gioia e dolore, vita e morte, si mescolano talvolta in modo aspro, la sintesi di quel armonico tutto che è la nostra esistenza. Per saperne di più, cercami su Facebook.
LinguaItaliano
EditoreElga Frigo
Data di uscita14 set 2022
ISBN9791221399653
Bagliori nel buio

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    Anteprima del libro

    Bagliori nel buio - Elga Frigo

    Fine

    Fine

    Alcuni affermano che finirà in niente il mondo, poiché l’energia liberata dal Big Bang è immensa ma non infinita; altri invece che sarà per sempre, perché l’universo ostinatamente tenta di rinnovarsi e prima o poi ce la farà anche a superare se stesso.

    Che sia vera l’una o l’altra, per me, in fondo non è poi così importante, poiché la mia fine sopraggiungerà comunque prima. E forse la destinazione è la stessa per tutti ed è solo la scala di misura della materia e del tempo a cambiare. L’ho sentito dire diverse volete agli scienziati, ne conservo anche dei vaghi ricordi di scuola: minore è la massa di un corpo, maggiore è la velocità con cui si trasforma, ma le leggi che lo governano sono quasi sempre le stesse. La chiave di tutto sembra quindi essere la massa, la vera sostanza di cui siamo fatti, esseri viventi o no non ha alcuna importanza, a conti fatti vale solo quell’oscuro spessore.

    Dunque finirà davvero tutto in niente?

    Non è detto, perché questa è solo metà della storia.

    L’universo è infatti costellato di fenomeni grandiosi ancora del tutto sconosciuti, fonti d’incalcolabile energia e smisurata nuova materia celeste, eventi tanto potenti da sovvertire le regole già scritte fino ad affermarne di nuove, fino a tracciare nuovi confini e con essi nuove possibilità di vita.

    La casualità che governa il cosmo in fondo è la più grande delle certezze, tutto può ancora accadere.

    E se è vero che l’universo non conosce la fede, certamente resta luogo di smisurata speranza.

    -10

    Solo polvere

    L’inizio non è mai promettente.

    Piuttosto disordinato e in apparenza inconcludente, caotico, meglio ancora, entropico. Forse anche competitivo.

    Di memorabile ed elegante non c’è nulla e non c’è alcun indizio che possa far presagire qualsiasi evoluzione in meglio.

    All’interno delle nebulose interstellari, grandi nubi di polveri e gas rarefatti, in prevalenza elementi chimici poveri e leggeri, soprattutto elio e idrogeno, c’è un grandissimo fermento ma il caos smonta la materia più velocemente di quanto riesca a metterla insieme. Tentativi su tentativi che non portano a niente, semplicemente saturano il tempo come lo spazio.

    Non è dato sapere quanto possa durare questa fase dominata dal nulla apparente, probabilmente qualcosa che se valutato secondo la miope metrica umana appare come un’eternità insostenibile.

    Ma la materia inerte e il vuoto buio non patiscono l’attesa, anche se prolungata verso l’infinito, poiché di essa non hanno coscienza.

    Ecco un altro abile stratagemma alla base dell’evoluzione casuale dell’universo, viene premiato solo chi ha pazienza.

    Venerdì, 19 Febbraio 1993

    "Lei non è pane e salame. È acqua e sapone.

    È una ragazza intelligente e sensibile, ottima presenza ed educazione. È introversa ma non credo debole di carattere. Ha una storia personale molto particolare; è anche categoria protetta, ci risparmiamo dei soldi se l’assumiamo e…"

    Ma come sarà mai possibile che una che di mestiere fa la selezionatrice di personale in una delle più grandi multinazionali al mondo si dimentichi di chiudere la porta mentre relaziona il suo superiore sul candidato, anzi, sulla candidata, che dovrà colloquiare da lì a momenti e che è stata messa a sedere solo qualche metro più in là?!

    Non bastasse quella dimenticanza, la mia intervistatrice aveva un tono di voce che pareva uno squillo di tromba; l’uscio semichiuso poteva dunque essere una scelta intenzionale, tanto con un timbro vocale di quella portata avrebbe comunque frantumato il muro del suono. Anche il mio lato pessimista volle contribuire al dibattito e mi suggerì che, quando aziende di quelle dimensioni selezionano un’insignificante lavoratrice temporanea, la riservatezza non è poi così importante; porte aperte o chiuse insomma non fa differenza, meglio risparmiare le energie per quando servono davvero.

    Dopo quella partenza incoraggiante il mio aspirante capo sigillò del tutto l’unica via d’accesso ai suoi pensieri, segno evidente che in quanto a scetticismo forse avevo un tantino esagerato.

    Mentre la loro conversazione s’incamminava verso chissà quale direzione, rielaborai quanto ascoltato furtivamente: ‘acqua e sapone’ mi piaceva, così come il fatto di non esser stata paragonata a un panino al salame; anche sul carattere l’urlatrice ci aveva preso abbastanza.

    Da quelle parole intuii una certa predisposizione ad assumermi, confermata dal fatto che, proprio per via di quel mio passato ancora presente, ero disponibile a prezzo scontato.

    Mentre navigavo tra tutte quelle considerazioni, la porta si riaprì di scatto e un omone di raffinato blu vestito mi si palesò di fronte di gran fretta, ansimante; mi fissava indiavolato dall’alto della sua ingombrante mole, le lunghe braccia adagiate sui fianchi molli e la pancia prominente che quasi mi toccava il naso.

    Mi alzai anch’io.

    Buongiorno, mi approcciò con fronte aggrottata e vocione tonante.

    Buongiorno replicai in modo altrettanto deciso.

    Per cortesia, venga con me.

    Lo seguii verso una sala riunioni sita in fondo a un corridoio lungo e stretto, dopo aver schivato due pozzetti scoperti pieni di cavi avvinghiati, dove alcuni tecnici erano al lavoro; m’imbattei anche in una scala aperta che puntava dritta al controsoffitto, struttura di certo recente, dove un elettricista stava installando dei faretti. Ultimo, salutai un imbianchino sudato e puzzolente intento a impilare diversi secchi di vernice in preparazione a chissà quale capolavoro pittorico.

    Prego, si accomodi dove preferisce.

    Mi tolsi il cappotto vintage e ubbidii all’istante.

    Desidera un caffè?

    No, grazie.

    Qualcos’altro, dell’acqua?

    No, grazie, davvero.

    Io ero serissima, pronta al duello, lui forse si stava divertendo con quelle sue domande solo in apparenza innocue.

    Tornò dopo meno di un minuto.

    Scusi il caos ma ci siamo appena trasferiti e ci sono ancora parecchi lavori da fare.

    L’eco di un trapano battente sul muro alle mie spalle diede maggior verità alle sue parole.

    Nel frattempo aveva già trangugiato il suo caffè, sprofondando senza grazia in una stilosa poltrona di pelle, dove il suo addome rilassato stentava a trovar posto nello spazio sottostante il tavolo ovale in cristallo. Fece un gesto che m’incuriosì: afferrò il bordo del ripiano, pollici nel lato superiore e il resto delle mani seminascosto dalla superficie satinata dello stesso; quella presa decisa e costante mi suggerì aggressività. Meglio fare attenzione.

    Allora? Le va di raccontarmi qualcosa di lei?

    Ubbidii ancora e gli raccontai le poche informazioni disponibili nel mio CV di studentessa laureanda in economia e alla ricerca di un titolo per la sua tesi di laurea. La mia esposizione durò poco; ebbi da subito l’impressione che non mi stesse ascoltando, più che altro mi osservava. Non aveva portato con sé neanche una copia del mio profilo, per lui dovevo essere solo una scocciatura di cui liberarsi alla svelta.

    Un'altra trapanata riaprì la conversazione:

    Posso farle una domanda?

    Ero pronta, non ero al primo colloquio. Il quesito più probabile erano i miei punti di forza e debolezza, oppure aspettative di carriera.

    Qual è stato il momento più difficile della sua vita?

    Avvertii una fitta al petto, ma anche quel quesito l’avevo già udito diverse volte; senza ulteriore esitazione risposi:

    Nessuno in particolare.

    M’indagò a fondo, come se non fosse soddisfatto della risposta. Non chiese altro ma si vedeva che stava ancora rielaborando per conto suo. Io persistevo seria, troppo, quasi impenetrabile. Quando poi ci ripensai un po’ mi pentii di quel mio atteggiamento così chiuso; quell’uomo, per quanto grosso, brutto e cattivo, in fondo non se lo meritava.

    Il gong che diede il via al successivo round assunse la forma di una martellata.

    Bene, adesso le racconterei qualcosa di noi e della proposta di lavoro per cui si è candidata.

    Candidata io? Proprio no.

    Ad ogni modo annuii, lui si preparò a recitare una lunga prosa.

    Mi chiamo Miguel, Miguel Dominguez, amministratore delegato Italia di questo casino. Classe 1951, quarantadue anni, non sposato, non separato o divorziato, niente figli ma tanti vizi, poi mi guardò sorridendo. Ricambiai.

    Sono arrivato in Italia l’anno scorso per seguire questo progetto imprenditoriale; sono di origine spagnola, sicuramente l’avrà intuito dall’accento.

    Non commentai ma più parlava più mi rilassavo, certamente lui lo percepiva.

    "La società come ben saprà si occupa di sviluppo software, più precisamente è la prima compagnia di software per personal computer al mondo. Il business è in grande ascesa, gli anni novanta saranno ricordati come l’era degli home computer e quindi la richiesta di applicativi a supporto è elevatissima, sia per le aziende che per i privati.

    Essendo un mercato giovane e quindi in parte sconosciuto al pubblico, c’è molta diffidenza all’atto d’acquisto, soprattutto da parte dei privati, cambiare non è un processo mentale scontato. Per tentare di superare queste barriere investiamo molto nel marketing. Il responsabile del nostro reparto è quanto di meglio ci sia in Italia e non solo; dal quartier generale hanno provato più volte a soffiarmelo per farlo lavorare direttamente presso di loro ma mi sono opposto e mai smetterò di farlo. Lui adesso serve soprattutto qui."

    Perché quella divagazione? Chi era quel lui di cui Mr. Dominguez era così geloso? Il racconto riprese prima che potessi trovare almeno una risposta a tutte quelle domande:

    La crescita è stata realizzata tramite assunzione di nuovo personale, ma anche a seguito di fusioni con realtà promettenti già operanti sul mercato; tutto ciò ha contribuito ad aumentare il livello di pressione interna. Questo è un mercato duro, estremamente volatile, con tassi di sviluppo tecnologico ed economico elevatissimi; se sbagli un investimento rischi di trovarti nel giro di poco tempo con le gambe all’aria.

    Espressione carbone, muta e impetuosa, quasi minacciosa, poi un nuovo tuffo nella narrazione:

    Questo è il motivo per cui stiamo assumendo dei business analyst. Il mercato italiano ha dimostrato un atteggiamento verso la tecnologia più conservativo di quanto previsto e le vendite stentano a decollare; è importante aver ben chiari i numeri prima di muovere qualsiasi passo e anche da casa madre negli Stati Uniti, nella Silicon Valley, ci fanno molta pressione sull’uso del denaro. Si figuri che fino ad oggi di quest’attività me ne sono occupato personalmente io in collaborazione con il direttore marketing; quindi chi si prende questo posto avrà anche la fortuna di stare a stretto contatto con noi dalla mattina alla sera.

    Fortuna, certo. Mi raccontò quella lunga e noiosa storia senza distrarsi un secondo, al tempo stesso non curandosi delle mie reazioni. Mentre lui proseguiva nel suo interminabile discorso, ogni tanto annuivo e tentavo d’interagire, per fargli capire che lo stavo seguendo, che m’interessava, ma niente; lui era completamente assorbito dalla sua favella e del tutto incurante dei miei stati intellettivi ed emotivi.

    Il mio cervello mi suggerì un uomo intelligente e appassionato almeno quanto egocentrico; si capiva da come muoveva le mani e articolava i messaggi, dalla perizia con cui dosava sguardi, vocaboli e respiri.

    Mr. Dominguez tuttavia era tutto fuorché bello: i capelli inchiostro erano spettinati, così come la carnagione olivastra segnata da diverse rughe da superlavoro; ne contai almeno quattro sulla fronte, anche spesse zampe di gallina a lato dei suoi occhi neri così vivi. Quando parlava il suo viso cascante ai lati non trasmetteva finezza o cortesia; le sopracciglia ispide si arcuavano e ogni tanto si schiariva la voce roca facendomi tremare le vene. Sebbene fossero le prime ore del mattino la sua camicia azzurra era già sgualcita e il nodo della sua fine cravatta blu a pois copiata a Berlusconi andato a farsi benedire. Sul suo presunto stato di forma fisica credo sia poi opportuno lasciare pagina bianca.

    La similitudine più attinente non trovò conforto come al solito nello zodiaco, bensì nel regno animale: qualcosa tra il bisonte e il gorilla.

    Non importa: lui mi risultò soprattutto ‘bravo’, la mia inesperienza lo classificò banalmente così e in funzione di quel primo giudizio istintivo tutto il resto della mia persona si mosse.

    Gli lasciai qualche secondo per riprendersi, anche se in realtà lui non sembrava averne bisogno; infatti:

    Allora cosa le sembra?

    Senza dubbio molto interessante, sia per la mia tesi di laurea che dal punto di vista lavorativo.

    Forse lui si aspettava qualche complimento in più, ma purtroppo io non ero quel genere di persona, era importante che lo capisse fin da subito.

    Quindi la nostra proposta è di suo gradimento?

    Sì, assolutamente.

    Bene, allora ci vediamo lunedì primo marzo, stage fino a settembre e poi vediamo.

    Mentre me lo disse mi guardò dritto negli occhi, poi si puntò per alzarsi e raggiungere le mille altre incombenze che certamente lo attendevano oltre l’uscita. Purtroppo gli stavo per dare un dispiacere e far perdere dell’altro tempo prezioso:

    Mi scusi ma lo stage non m’interessa.

    Spalancò la mascella e le sue sopracciglia quasi si toccarono, io proseguii esponendo le mie ragioni:

    L’università mi aveva parlato di contratto a tempo determinato, non di stage.

    Lui era scocciato, a breve mi avrebbe investito come un TIR a pieno carico. Ingranò subito la marcia:

    Lei non sa fare nulla.

    Capisco, ma proprio per via di quella situazione privata di cui abbiamo parlato prima io non posso permettermi di lavorare gratis.

    Questo è un suo problema, non mio.

    Siete voi che mi avete contattato tramite l’università, non il contrario.

    Giusto per esser precisi.

    Noi contattiamo decine di candidati al giorno.

    Ma solo io ho una media di voti pari a 108/110 prima della discussione della tesi. È vero: non so fare nulla, ma imparo in fretta. E poi sono categoria protetta, avrete lo sgravio contributivo e quindi vi costerei comunque meno di un altro candidato.

    Quello era il massimo che potevo dire restando nell’area di cortesia, a quel punto toccava a lui prendere la decisione finale. Non mi veniva naturale agire così, ma purtroppo non avevo scelta; avevo provato quel discorsetto più e più volte davanti allo specchio, per esser sicura di riuscire a recitarlo per bene a tempo debito.

    A quella multinazionale certo non mancava il denaro per onorare la mia misera busta paga; inoltre il mio subconscio forse stava già portando avanti anche una sottile battaglia ideologica: il lavoro va pagato, poco perché dequalificato, ma va comunque retribuito. Alla faccia della multinazionale leader di mercato: finta etica travestita ad arte con la cospirazione del marketing. Meno male che avevo scelto il mondo finance, i numeri sono più difficili da camuffare.

    Mr. Dominguez era contrariato; si capiva che non era nel suo stile ridiscutere decisioni già prese, soprattutto ad un livello così basso. La sua risorsa più scarsa non sembrava però essere il denaro, piuttosto il tempo; eravamo entrambi in piedi, lui con la mano intenta a frantumare la maniglia della porta, indeciso sul da farsi e al contempo già proiettato verso chissà quale vitale impegno.

    Come vuole lei.

    Me lo disse con fare assassino, certamente il tipo d’uomo cui non piace perdere, neanche le sfide più ridicole.

    Molte grazie.

    Speriamo ne valga veramente la pena. Arrivederci.

    Avevo già vinto, non commentai oltre.

    Un’altra sonora martellata sigillò la conclusione del nostro primo incontro.

    *****

    Attraversai ancora in sella alla bicicletta l’ingresso ad arco, schivai diverse galline che gironzolavano per il cortile e dopo aver salutato la vicina intenta a stendere il bucato mi diressi verso l’entrata di casa posta al piano terra.

    Visti i rigori invernali ancora in corso il camino era acceso e il locale mi accolse con il classico aroma di legna bruciata. Proprio in quel momento mamma Lucia stava alimentando la fiamma con nuovi ceppi; sentendomi arrivare si voltò subito:

    Ciao, com’è andata?

    Erano quasi le due. La sua voce trasmetteva curiosità e nient’altro; era sempre così quando si svegliava dopo il turno notturno, stanca. In un angolo della cucina anche nonna Tea mi scrutava, in trepidante attesa della risposta.

    Bene, comincio il primo marzo.

    I loro visi si accesero, soprattutto quella della nonna; la mamma come al solito mi lesse nel pensiero:

    Non sei contenta?

    Mi pagano poco. Ad aiutare te e la nonna nei lavori di cucito si guadagna di più.

    Porta pazienza, s’inizia sempre così.

    Portare pazienza, io?! Avevo ventiquattro anni suonati, ventiquattro primavere durante le quali quelle donne mi avevano mantenuto in abbondanza e non sembravano infastidite dalla prospettiva di dover farlo ancora. Lavorando come due rulli compressori avevano finanziato il mio progetto accademico; la mamma, operaia, aveva optato per i tre turni per raccattare più denaro stando alla catena di montaggio di notte. Non bastava, quando era di riposo dava una mano alla nonna, sarta in nero a servizio del paese. Mia madre pagava l’affitto, la nonna la retta universitaria, con quello che rimaneva si comprava l’indispensabile, di solito arrivando a fine mese col collo tirato. Ecco perché ero così brava con i numeri, mi ero esercitata a farli tornare sin da piccola.

    Finita la scuola superiore avrei voluto trovarmi un lavoro, tra l’altro come tanti miei ex compagni benestanti, ma loro no, non avevano voluto neanche sentirne parlare; non mi avevano neanche permesso di trovarmi un’occupazione stabile durante gli anni dell’università.

    Io ero il loro principale investimento, sempre protetto e mai rinfacciato; la mamma e la nonna non avevano nulla da invidiare alle presunte capacità manageriali di Miguel Dominguez, nulla eccetto il benessere.

    La conta dei miei esami universitari non era stata quella classica, ma alla rovescia; solo qualche giorno prima ero arrivata allo zero e scalpitavo come un cavallo matto. Il solo pensiero di prendere ancora in mano un libro mi faceva venire la nausea e ogni giorno che mi separava dall’indipendenza economica m’infastidiva a morte.

    Mangia, altrimenti si fredda m’invitò la mamma.

    Ma non è troppa quella pasta per lei Lucia? Anzi, alla sua età non dovrebbe più mangiarne, le finisce tutta sul sedere.

    Tra figlia e nipote scattò uno sguardo d’intesa, ma guai a rispondere alla nonna. E poi io avevo ben altro per la testa:

    Mamma, è solo per sei mesi. Puoi iniziare ad avvisare in fabbrica che non farai più i turni notturni.

    Continuo ancora un po’, vedrai che i soldi servono adesso che inizi a lavorare. È distante?

    No, ci arrivo in treno.

    E per andare in stazione?

    La bicicletta. Discesa all’andata e salita al ritorno. Faccio ginnastica.

    E se piove?

    Adesso arriva la bella stagione e non ci pensiamo, poi mi cercherò una macchina.

    Provo a chiedere in fabbrica se qualcuno ne ha una usata.

    Altre spese, ma adesso in poi non doveva essere il contrario? A proposito, quando scade l’affitto?

    Settimana prossima, siamo a posto.

    Gliel’hai detto che di sopra ci sono delle infiltrazioni d’acqua dal tetto e che quando piove si macchia il soffitto?!

    Sì, ma cosa vuoi, sono case vecchie e in provincia non si capisce più nulla. Non riesco mai a trovare qualcuno con cui parlare.

    I soldi dell’affitto però sappiamo sempre dove mandarli, e in anticipo!

    Non aggiunse altro ma quel suo silenzio somigliava a un rimprovero.

    Mi calmai, nel frattempo il secondo era già stato servito, sempre dalla mamma. Finii di mangiare di corsa, Lucia stava già lavando i piatti e le mancava solo il mio per chiudere tutto e andare a riposare. La nonna ed io la salutammo mentre saliva le scale per dirigersi in camera da letto. Mi sbucciai un’arancia appoggiata ai pensili della cucina, mentre la nonna continuava a lavorare sotto la luce che filtrava dalla finestra. Fuori il tempo era ancora indeciso, un po’ come me nello stesso periodo.

    Ti serviranno dei vestiti per andare al lavoro.

    Ok, nonna.

    Ok? In Italia le persone ben educate dicono: va bene, grazie.

    Va bene, grazie nonna.

    Più tardi sento Ines. Le avevo anticipato che avresti cominciato a lavorare e che avresti avuto bisogno; deve averti già messo da parte qualche cosa.

    Ines era una vedova benestante residente in centro Milano, fruitrice abituale dei lavori di sartoria della nonna. La nostra cliente top aveva una vivace vita mondana, nella quale gradiva spesso coinvolgere la nonna, da sempre grande amante del ballo liscio. Ines, beata lei, vantava un ampio guardaroba di classe, che le permetteva di non sfigurare mai in quella sua vita cittadina dalla socialità abbondante. Ines amava vestire firmato e nonostante gli anni conservava un fisico tonico che le permetteva di sfoggiare abbigliamento guarda caso della mia taglia. Con una certa frequenza contribuì quindi con i suoi scarti griffati all’arricchimento del mio armadio.

    Gonne o pantaloni?

    Pantaloni nonna, abbi pietà di me.

    Pantaloni? Ma tu non sei un uomo.

    Nonna, per favore non ricominciamo con questa storia. Mi vedi ad andare in stazione in bicicletta con la gonna?

    Io sono sempre andata a lavorare in fabbrica in bicicletta, e con la gonna. Cosa credi? E poi una donna deve rimanere sempre una donna, anche al lavoro.

    Nonna, i tempi sono cambiati la rimproverai bonariamente.

    Sì, sono cambiati, in peggio.

    Tentai di andarle incontro:

    D’accordo, allora chiedi a Ines se ha anche qualche gonna. E ringraziala da parte mia. Mi piacerebbe andare a salutarla, è da un po’ che non la vedo.

    Sabato andiamo a ballare, vuoi venire con noi?

    Mi manca solo quello.

    Peccato, perché ci sono sempre dei begli uomini.

    Per la vostra età forse.

    No cara, anche per la tua. Se solo tu lasciassi fare a me ogni tanto.

    Non commentai oltre. E per fortuna lei cambiò argomentò:

    E scarpe ne hai?

    Sì.

    Chiedo a Ines se ne ha qualche paio che non usa più, magari col tacco. Con la gonna ci vuole. L’ho visto anche l’altro giorno al telegiornale.

    Come al telegiornale?

    Sì, la presentatrice del meteo aveva una gonna longuette e un paio di scarpe che le stavano così bene. Peccato che abbia quei fianchi così larghi.

    Nonna!

    È la verità, dovrebbe mettersi a dieta se vuole continuare a lavorare in televisione. Se me ne sono accorta io, figuriamoci gli altri.

    Magari è la migliore nel suo lavoro e a nessuno interessa dei suoi fianchi.

    Non è possibile, quelle cose lì le vedono tutti, soprattutto gli uomini.

    Nonna Tea era così: sincera fino a risultare talvolta offensiva. Mi capitava spesso di trascorrere il tempo con lei a quel modo, chiacchierando del più e del meno, spettegolando dei difetti dell’umanità intera senza però fargli alcun male. Anche quel pomeriggio uggioso ricaddi nella stessa abitudine; mi cambiai d’abito, presi una sedia, ago, filo e occhiali, e mi misi a lavorare in sua compagnia.

    *****

    Dopo cena suonò il campanello, la mia migliore amica Fiamma, solo per me Amy.

    Portava con sé una vaschetta di gelato e due cucchiai, la invitai in camera mia al piano di sopra.

    Ma non fa freddo qui dentro?

    Forse, il calorifero è spento.

    Non avete pagato la bolletta?

    Fai poco la spiritosa, adesso te lo accendo.

    Mi allontanai un secondo per eseguire, lei ne approfittò per commentare ancora:

    Più che il gelato ci vorrebbe una cioccolata calda.

    Vuoi che andiamo a casa tua?

    Stai scherzando? Non te lo ricordi che divido la topaia con altre cinque bestie? La sera quando ci siamo tutti mi scoppiano le orecchie. Almeno qui c’è silenzio.

    In realtà non era proprio vero. Nella porzione di casa accanto i nostri vicini erano appena diventati genitori e la creatura, femmina, urlava come la sirena dei pompieri. I bambini così piccoli non sono mai riuscita a sopportarli, tanto rumore e poca soddisfazione.

    Allora com’è andata oggi?

    Bene, mi hanno assunto. Comincio il primo marzo.

    Bello! E che lavoro fai?

    Sai che non l’ho capito bene neanch’io? Comincio e poi si vedrà. Intanto posso lavorare alla tesi, così finisco l’università.

    Ti pagano bene?

    Una miseria.

    Allora è come me al supermercato.

    Non credo proprio.

    È lontano?

    Prendo le Nord.

    Se vuoi ti porto io in stazione la mattina, tanto è di strada. Almeno quando piove.

    Grazie Amy.

    E lì com’è? Ci sono ragazzi carini?

    Per un istante mi figurai il signor Dominguez, tremendo squassante divario.

    Ancora non lo so, speriamo di no.

    Perché Francesco mi avevo lasciato ormai da qualche mese, senza farsi più sentire, senza preoccuparsi di sapere come stavo o se avessi bisogno di qualcosa, tipo legittimo conforto. Avevamo la stessa età e trascorso l’ultimo periodo universitario facendo coppia fissa; una volta laureato e trovato un impiego era migrato verso lidi sconosciuti.

    Io gli volevo bene, era la prima cosa che mi veniva in mente ogni volta che mi chiedevano di lui.

    Non pensarci più, tu vali di più di quell’egoista. Lui ti ha usato.

    Non è vero Amy, è stata anche colpa mia.

    Forse Fiamma non aveva tutti i torti però. Francesco non era particolarmente dotato ma compensava il tutto con grande dedizione, anche con me si era comportato nello stesso modo. Io gli passavo appunti e riassunti per sostenerlo il più possibile, fino al punto in cui mi superò senza più voltarsi, raggiungendo in fuga solitaria la laurea, anche se con voti decisamente più sotto tono dei miei. Una volta terminati gli studi si trovò un lavoro prestigioso in centro. Da lì in avanti cambiò atteggiamento e amici; anche quando stava con me talvolta si comportava da presuntuoso, non aveva più molto tempo per vederci e ci sentivamo soprattutto al telefono, nelle rare pause della sua carriera in ascesa.

    Colpa tua? Ma come?

    Lo sai, io ho sempre studiato e lavorato. Non so quante volte mi ha chiesto di uscire e gli risposto che non potevo.

    Quando eravamo ormai al capolinea, forse per sganciarsi definitivamente, Francesco mi lanciò addosso un po’ di tutto; mi accusò di essere troppo pianificatrice, morbosamente attaccata al denaro. Addirittura ebbe delle visioni di me adulta e sola, in una casa extra lusso, sdraiata su un divano d’avanguardia, di fronte a un finto camino di marmo, nelle mie mani il telecomando per farlo funzionare e un gatto di peluche con cui consolarmi della mia misera solitudine di donna in carriera. Difficile capire cosa mi bruciasse di più: il fatto di averlo perso o che la sua profezia si avverasse.

    E allora?

    Non so, forse ha ragione lui. Quelle come me è meglio che se ne stiano da sole.

    A Fiamma, segno zodiacale Leone, appassionata e sincera, nonché focosa calabrese, non piaceva vedermi così abbattuta. Si passò più volte la mano nel ciuffo ramato, poi volle dire ancora la sua:

    Quelli coi soldi fanno presto a parlare. Giudicano tutti quelli che non ne hanno e li usano ogni volta che gli torna comodo. Dagli un po’ di bollette da pagare e vedi come si sgonfiano!

    Non commentai.

    Tu sei l’unica di noi che c’è l’ha fatta, che un giorno andrà via da questo posto di merda. E se diventerai ricca anche meglio. Chi non ha mai vissuto come noi non può capire, lasciali perdere.

    Mi sento una sfigata però.

    Infatti lo sei.

    Amy, ma ti pare?!

    Stai parlando con una che si chiama Fiamma perché sua madre prima di partorire s’è sognata di salvarsi da un incendio. Vuoi mettere?!

    Meglio ridere, poi una puntata finale sull’oroscopo:

    Vedrai sorella, d’ora in poi andrà tutto alla grande!

    Lunedì, 1 Marzo 1993

    Un’avvenente giovane di colore mi fece accomodare in una piccola sala riunioni, l’orologio alla parete segnava le 8.45 precise. Rispetto alle settimane precedenti la situazione non era migliorata molto; diversi operai erano ancora al lavoro anche su quel diverso piano dell’edificio, ma almeno lì le botole a trabocchetto sul pavimento erano state chiuse e ricoperte con della fine moquette dalle squadrate geometrie ardesia.

    Dopo qualche minuto dalla porta rimasta aperta intravidi sfrecciare un ragazzo; la donna che aveva scortato me depositò anche lui nella stessa stanza. Una volta lì si tolse il giubbotto trafelato, scatenando una scia di profumo dolce che mi solleticò il naso, scelse poi di sedersi al mio fianco. Forse per ingannare l’attesa cominciò a osservarmi, poi, facendo bella mostra della sua dentatura perfetta e bianchissima, mi approcciò con gran disinvoltura:

    Mi sa che abbiamo avuto la stessa idea stamattina!

    Effettivamente sì gli andai incontro più timidamente.

    Al mio pari si era accorto che eravamo vestiti nello stesso modo: tailleur pantalone grigio e camicia azzurra, scarpe piatte e senza trucco, solo che lui era un uomo ed io una donna, solo che il suo vestito probabilmente era nuovo mentre il mio una delle tante gentili concessioni di Ines.

    Anche tu cominci oggi?

    Sì.

    Ciao! Samuele, Sam.

    Ciao, Giulia Molinari.

    Il cognome è importante? Vuoi sapere anche il mio?!

    In realtà avrei voluto conoscere il suo segno zodiacale ma era una curiosità prematura.

    Paura?

    Un po’. E tu?

    Un mezzo sorriso, poi continuò a studiarmi col suo bel viso già vestito di primavera. Quell’incontro inaspettato era già una prima risposta alla domanda di Fiamma:

    ‘Ci sono ragazzi carini?’

    La sera stessa le avrei fatto un resoconto dettagliato.

    Mentre fantasticavo la ragazza di colore fece ritorno e ci invitò a seguirla in un’altra sala riunioni adiacente, più ampia e dominata al centro da un tavolo di cristallo ovale simile a quello già osservato durante il colloquio con Mr. Dominguez. ‘Sala Venere’ recitava l’etichetta fuori dall’ingresso.

    Prego, accomodatevi. C’è qualche minuto da attendere. Tè, caffè, altro?

    Entrambi rifiutammo l’offerta, tutti e due saremmo stati incapaci di deglutire alcun solido o liquido in quell’epico momento così carico di suspense. Lei colse l’occasione per presentarsi:

    Piacere, io sono Vanessa.

    Ci strinse la mano energicamente, condendo il tutto con altra spontanea solarità; quella ragazza trasmetteva voglia di vivere a tutte le ore, forse Mr. Dominguez l’aveva messa lì apposta.

    Lavorerete con Marco o Fosca? chiese con sincera curiosità. Entrambi alzammo le spalle scuotendo la testa silenziosi; era la pura verità, nessuno di noi due conosceva la sua fine, meglio, il suo inizio.

    In bocca al lupo miei cari, ci si vede in giro, poi la nostra accompagnatrice ci lasciò soli, richiudendo la porta dietro di sé.

    Sam fece il signore e prima lasciò accomodare me, poi scelse nuovamente la sedia al mio fianco. Era sulle spine al mio pari ma faceva di tutto per non darlo a vedere.

    La nostra attesa durò pochissimo. Udimmo un rumore crescente di concitati passi e dopo pochi secondi l’uscio si spalancò di scatto. Riconobbi Mr. Dominguez, dietro di lui una donna e un uomo.

    Buongiorno!, vocalizzò lui energico, poi si accomodarono tutti di fronte a noi, come la commissione d’esame durante una sessione di laurea.

    Vi presento Fosca Landi, responsabile finance, e Marco Consonni, direttore marketing. Di fronte a noi abbiamo…

    Prima guardò me, risposi subito all’appello:

    Buongiorno, Giulia Molinari.

    Poi fu il turno di Sam:

    Piacere, Samuele Ferrari.

    Mr. Dominguez fece il ricapitolo delle nostre mansioni più tutta un’altra serie di considerazioni di cui non ricordo assolutamente nulla.

    Ciò che invece non potrò mai dimenticare fu il resto.

    Lei guardò prima Sam, poi volse lo sguardo verso di me. Inespressiva e contratta, forse anche delusa di quel che aveva di fronte. Capelli corti neri e occhialetti tondi dal profilo acciaio, che nascondevano delle grandi iridi anch’esse metalliche, pelle chiara e un nasetto all’insù che non pareva vero tant’era perfetto, inopportuno rossetto rosso fuoco con lunghe unghie laccate coordinate. Piccola e magrissima, taglia al massimo trentotto, quarant’anni e forse più; strizzata dentro un minuscolo tubino in raso beige, sopra una giacca avvitata dello stesso colore. Una mise di gran classe ma delle volte anche il sorriso fa eleganza.

    Il mio istinto mi suggerì solo guai, ma una possibilità non va mai negata a nessuno, quindi tentai un’espressione amichevole.

    Lei non ricambiò.

    Più tardi riprovai, altro rifiuto.

    Pareva un fascio di nervi sull’orlo di esplodere, se di fame o disgusto non era dato sapere. Anche quando Mr. Dominguez tentò di coinvolgerla nella conversazione non diede alcun segno di umanità o anche solo di vita, limitandosi ad annuire in modo piatto. E il segno zodiacale? Certamente qualcosa d’imparentato col serpente.

    Mentre rimuginavo su di lei, una lama verde scuro mi ferì, non agli occhi, ma nell’anima. Seguii il bagliore fino a incontrare uno sguardo penetrante e profondo, che m’inchiodò fino a farmi sentire spiata. Fronte alta e sporgente, zigomi anch’essi pronunciati, guance scavate, congiunte da labbra comunque piene e vitali. Capelli cortissimi e una leggera barba incorniciavano quell’ovale così forte eppur così delicato. Una figura dura e fredda, come una statua finemente cesellata nell’alabastro, pregiata quanto fragile, una visione del tutto incolore, addolcita solo da quella calda sfumatura che non smetteva di fissarmi, resa ancora più intensa dal contrasto con la liscia pelle avorio e le folte quanto ordinate sopracciglia castane.

    Anche nell’abbigliamento non si concedeva vanità: un’anonima maglia girocollo a coste nera gli segnava le larghe spalle, abbinati un paio di jeans anch’essi cupi.

    La sua sagoma si confondeva con lo schienale della poltrona, gambe accavallate, immobile e imperscrutabile, come senza respiro e battito, comunque denso di passione. La mano sinistra era appoggiata sul ripiano nella posa di un pugno tanto pallido quanto solido; portava una sottile fede in oro bianco, brillante ma non aderente, come se fosse dimagrito dopo averla indossata per la prima volta. Anche le occhiaie che sormontavano le palpebre socchiuse, dalle lunghe e fitte ciglia curve, mi suggerirono un fisico provato, come un corpo malinconico.

    Era certamente più giovane di lei e del loro capo comune, ma non avrei saputo dire di quanto. La sua esilità slanciata mi suggerì un ragazzo ma la sua amarezza celata sapeva di uomo maturo.

    Non pensai minimamente allo zodiaco dopo averlo osservato, un esercizio impossibile con una creatura così misteriosa. Per quanto serio però non era cattivo; lo percepii fin dal primo sguardo e i successivi gesti me ne diedero conferma. Quando infatti Mr. Dominguez gli passò il filo del discorso sull’importanza del marketing per un’azienda come la loro, lui non si fece pregare come la dottoressa Landi, ma prese subito la palla al balzo dando prova di grande fermezza e professionalità. E anche di una bella voce, dai toni bassi, calda e rassicurante.

    Anche la chiusa del suo mini discorso non era male:

    Benvenuti.

    Mr. Dominguez approvava gongolante, mentre la dottoressa Landi lo guardava in malo modo, forse scocciata del fatto che quell’idea abbastanza scontata non fosse venuta a lei. Ma in fondo era lui il direttore creativo della società, da lei certo non ci si aspettava fantasia, piuttosto monotona precisione e costante rispetto delle regole.

    A quel punto Mr. Dominguez riprese la parola:

    "Bene. D’ora in avanti ci diamo tutti del tu, così si lavora meglio e se mi devo incazzare faccio prima.

    Entrambi siete assunti nel ruolo di business analyst.

    Giulia starà con Fosca, Samuele con Marco. Non ho ancora le idee chiare sulla miglior collocazione del ruolo, se sotto la bolla del finance o con la testa ficcata nel business dalla mattina alla sera. Vedremo. Tanto se le cose non vanno per il verso giusto ce ne andiamo tutti a casa alla svelta!

    Giulia e Samuele, mi raccomando: non diventate troppo amici, perché uno di voi non verrà confermato al termine dello stage.

    E adesso andiamo tutti a lavorare che si è fatto tardi!"

    Tardi? Nove e trenta minuti.

    Miguel si dileguò svelto; Fosca e Marco lo seguirono, come ultimi della fila Sam ed io.

    Mi sembra che a te sia andata meglio ironizzai sottovoce.

    Credo anch’io, comunque passo a riprenderti per il pranzo.

    Ma perché, secondo te questi le fanno le pause?!

    *****

    Aspettami qui mi comandò con voce imperativa Fosca.

    Rimasi così, in piedi fuori dall’ingresso del suo ufficio, cappotto in mano e zaino sulla spalla, in attesa che mi svelasse il mio destino. Nel frattempo diversi ragazzi, vedendomi lì a fare la pianta, mi vennero incontro chiedendomi se avevo bisogno di qualcosa e appena udivano il nome di Fosca se la davano a gambe.

    La mia capa si ripresentò una decina di minuti dopo, con i primi ordini:

    Seguimi.

    Entrammo in un lungo e spazioso open space rettangolare, con almeno una decina di scrivanie accoppiate, ampie finestre sul lato strada. In quell’area rumorosa alloggiava tutto il dipartimento finance guidato da Fosca; i telefoni bollivano e c’era frenesia da super lavoro nell’aria. E non erano neanche le dieci. Attraversatone il corridoio centrale, una volta in fondo Fosca si fermò e mi parlò ancora:

    Ecco le tue colleghe, Eleonora e Romina.

    Poi sparì diretta chissà dove.

    Le due giovani nobildonne non si alzarono neanche per salutarmi e a malapena mi guardarono in faccia; si prodigarono solo in un molle ‘ciao’, che non aveva alcuna familiarità con l’educazione così tanto raccomandata dalla mamma e dalla nonna anche quel cruciale mattino uscendo di casa.

    M’indicarono l’attaccapanni, poi una scrivania dove sistemarmi, a differenza delle loro posta sul lato interno della stanza; il tavolo era oberato di carta in disordine e altri oggetti gettati alla rinfusa, poi uno strano telefono, una stampante e un fax rumorosamente in funzione. Mi domandai perché proprio lì, davanti a me c’era una coppia di scrivanie vuote sistemate a specchio rispetto alle loro.

    Una volta accomodata, la più adulta delle due, Eleonora, mi raggiunse con fare annoiato.

    Per oggi non abbiamo niente da darti da fare. Ma ci sono i telefoni da gestire, adesso ti deviamo il centralino. Poi sopra di te c’è il citofono, devi rispondere ai corrieri e a tutti gli altri.

    Ecco cos’era quello strano apparecchio, il centralino. Il citofono invece causa l’ansia del momento mi era proprio sfuggito. Dunque dovevo occuparmi di entrambi, poi c’era anche da riordinare la carta sulla scrivania, pile di documenti contabili che aspettavano chissà da quanti mesi il mio entusiasmo per esser finalmente archiviati a dovere. Eleonora con voce scocciata e occhi spenti mi spiegò come schedare il tutto ed io, adrenalinissima ma sprovvista di blocco e penna, presi mentalmente appunti.

    Quello che seguì fino all’ora di pranzo fu peggio del peggiore degli inferni. Un bombardamento di suonerie che si avvicendavano senza darmi tregua; chiamate da inoltrare ai vari destinatari, fornitori con materiale da consegnare, tassisti in attesa, ospiti in visita che necessitavano di essere accolti all’ingresso (posto tre piani più in basso, quel giorno l’ascensore era fuori uso per manutenzione), sistemati nelle sale riunioni, annunciati nei relativi uffici. Intanto il gatto di piombo e la volpe non furba se la ridevano alle mie spalle, centellinando le informazioni con maestria, per testare la mia capacità di sopportazione e spezzare la noia della loro altrimenti monotona giornata lavorativa. Forse verso mezzogiorno passò da quelle parti il capo del marketing, perché avvertii una presenza buia al mio fianco, ma ero troppo impegnata a sopravvivere per poter riconoscerlo distintamente.

    All’una esatta le mie colleghe fecero cadere la penna, abbandonando la scrivania e anche me, senza chiedermi se mi andava di pranzare con loro, ma attingendo al loro inesauribile serbatoio di maleducazione mi liquidarono con un:

    Noi usciamo.

    La mia scarsa autostima era già abbondantemente andata a farsi benedire, per fortuna arrivò Sam a recuperare i miei resti.

    Non era solo, con lui un ragazzotto più o meno della nostra età, dai crespi capelli fulvi e lentiggini, faccia antipatica e diversi chili di troppo, che gli sbucavano da sotto il gilet che faceva completo con giacca e pantaloni blu navy stropicciati, infine una cravatta dalla fantasia oscena. Tra lui e Sam c’era un abisso di tutto.

    Luca, assistente personale di Miguel.

    E le formule di cortesia dove le aveva lasciate? Me lo disse guardandomi dall’alto verso il basso, non solo perché io ero ancora seduta e lui in piedi, ma soprattutto perché si capiva che il cerino credeva davvero di essere sopra tutti. E cosa dovevo rispondere? Gli interessava sapere chi ero io oppure bastava così? Mi presi il rischio di decantargli almeno il mio nome.

    Sam intanto mi osservava soddisfatto, la sua mattinata era stata certamente più motivante della mia. Raggiungemmo un bar nelle vicinanze, Luca era uno dalla lingua sciolta:

    Dove abiti?

    Periferia nord.

    Vieni in auto?

    No, treno. È comodo, abito vicino alla stazione.

    I treni sono sempre in ritardo. E se finisci tardi la sera rischi di rimanere a piedi. Questo non è il posto dove si esce alle sei, te ne sei accorta?

    Qualsiasi risposta mi sembrò inutile, quindi proseguii nella masticazione del mio misero panino.

    Dove hai studiato?

    Cattolica. Ma non sono ancora laureata, mi manca la tesi.

    La facoltà di economia non è rinomata, meglio la Bocconi. Io ho studiato lì, anche tu Sam, vero?

    Lui annuii, poi mi fece l’occhiolino, come a dirmi di prenderla con filosofia. Mamma mia, che bel ragazzo.

    Che media di voti hai?

    Ancora? Tentai una risposta evasiva:

    Abbastanza alta.

    Ma con lui non era possibile:

    Quanto?

    Udita la risposta gli andò il boccone di traverso, anche a Sam a dire il vero. Luca però si riprese prima:

    Sarai mica una secchiona e basta? Cosa ti piace fare? Viaggiare?

    Sì, in futuro mi piacerebbe.

    E fino ad oggi dove sei stata?

    Tentai di lasciar cadere nel nulla la sua domanda inopportuna, considerando nei miei primi ventiquattro anni di vita avevo conosciuto a fondo solo il cortile di casa e poco altro. Sam mi prestò subito soccorso:

    Tu hai viaggiato molto?

    Agli stupidi piace parlare di sé, autoincensandosi, perché non ci avevo pensato? Cominciai a capir meglio perché Sam era stato assegnato al marketing al posto mio.

    Dopo vari minuti di conversazione solitaria di Luca, Sam si fece nuovamente avanti:

    Per noi sarebbe ora di rientrare.

    Preciso come un orologio svizzero, altro punto a suo favore.

    Mi misi in coda alla cassa dove mi raggiunse nuovamente.

    Lascia stare, oggi offro io. Benvenuta nella giostra dei pazzi, cara Giulietta! poi mi omaggiò con un altro sorrisetto malandrino. Intanto Luca continuava a parlare, chissà con chi.

    Risalendo le scale per tornare al lavoro, al solo presagio di quello che mi aspettava oltre l’ingresso fui raggiunta da una fitta acida allo stomaco. Sam sembrò interpretare il mio sguardo perso; aspettò che Luca se ne andasse, poi, una volta rimasti soli sull’ultimo pianerottolo, si fece ancora vivo:

    Giulietta, passo a prenderti stasera? Se vuoi usciamo da qui insieme.

    Grazie Sam.

    Fu la prima di tante volte.

    Quel giorno ancora non potevo sapere di quante cose avrei dovuto essergli grata durante la mia permanenza in quell’azienda.

    *****

    Prima di recarmi nuovamente alla scrivania delle torture mi diressi verso il ripostiglio dell’ala direzionale per recuperare almeno blocco e penna. Immediatamente adiacente si trovava l’ufficio di Fosca; la porta era socchiusa e senza farlo apposta udii tutto, questo tutto:

    Hanno assunto una bambina, prima che impari qualcosa ci vorranno dei mesi e a quel punto Miguel l’avrà già mandata via borbottò lei.

    Ma perché non avete assunto un senior?

    Miguel non ha voluto, cost saving.

    E adesso come fai?

    Non è un problema mio, che si arrangi. Io con quella bambina di tempo non ne perdo. L’ho messa di là con le altre, vediamo cosa riesce a fare da sola. Prima se ne va, meglio è.

    A quel punto la porta si aprì, la presi quasi sui denti. Uscì prima Fosca, poi altre donne di mezza età, molto curate ma dai gusti modaioli alquanto discutibili, che poi scoprii essere delle commerciali acquisite controvoglia a seguito di una precedente fusione, al pari di lei.

    Quando mi videro fecero finta di niente, così anch’io. Prima di tornare alla mia quasi scrivania però andai in bagno.

    Lì piansi qualche lacrima, poi pensai a chi mi aspettava a casa e mi feci forza. Una lavata alla faccia e poi di nuovo al posto di combattimento.

    *****

    Il pomeriggio andò meglio, mai disperare.

    Il centralino e il citofono erano più sotto controllo e mi misi di buona lena a sistemare l’archivio; prima mettevo da parte quella muffa, più velocemente sarei passata a qualcosa di meglio. Eleonora e Romina intanto mi spiavano silenziose, io facevo finta che non esistessero. Metodo mamma Lucia insomma.

    Sul tardi si rifece viva Fosca, accompagnata da Marco. Lei era in ansia e non la smetteva più di parlare, stile mitraglietta, lui la ascoltava a malapena.

    Marco vorrebbe fare quattro chiacchiere con te, visto che non ti ha incontrato in colloquio.

    Ah, perché lei sì?

    Lasciai gli occhiali sulla scrivania, mi rifeci la coda e lo seguii.

    Fosca, Eleonora e Romina intanto mi fissavano arcigne.

    *****

    Prego, accomodati.

    Anche lui si sedette, poi cercò di simulare un po’ d’ordine sulla sua scrivania di grandi dimensioni, creandosi al centro un varco che gli permettesse di avere una visuale completa su di me; lo osservavo all’opera, evocando ironicamente l’immagine di Mosè che separa le acque del Mar Rosso. Differenza sostanziale, lì non c’era niente di maestoso da dividere: fogli sparsi e fascicoli impilati in malo modo, giornali stropicciati, gadget di vario tipo, confezioni campione di diversa forma e colore, accatastati in precario equilibrio gli uni sugli altri. E il piccolo tavolo tondo da meeting posto a fianco di quello principale non era messo meglio.

    I creativi sono sempre disordinati; solo il caos genera stelle, tutti lo sanno. Ecco perché non avevo mai avuto molta fantasia, perché mia madre mi aveva educato fin da piccola ad essere molto ordinata.

    Sulla scrivania principale una lampada accesa e un portafoto, ma l’immagine era di spalle e non potei quindi sbirciare chi o che cosa raffigurasse. Sull’attaccapanni un giubbotto in pelle nera, stile motociclista; sul davanzale della finestra invece diverse piccole piante grasse dai vasi colorati: fucsia, giallo e arancione, infine un posacenere colmo di mozziconi, troppi. Eppure entrando nella stanza non avevo avvertito aroma di sigaretta, piuttosto ero stata circondata da una fragranza maschile, austera ma gradevole.

    Poi tornai su di lui. Mi sembrò stanchissimo, sebbene il suo sguardo guerriero avesse la stessa tagliente vivacità del mattino. Mi sentii ancora sotto assedio e senza difese. Venni raggiunta anche da qualche brivido, istintivamente incrociai le braccia al petto.

    Allora, com’è andato il primo giorno di lavoro della tua vita?

    Feci un sospiro amaro, poi cercai di recuperare obiettività:

    È stata dura. Credo sia normale.

    Ti è piaciuto quello che hai fatto?

    Cosa dovevo rispondere? Se avessi mentito se ne sarebbe accorto subito, ma anche lamentarsi non mi sembrò buona cosa. Mi limitai a scuotere la testa, probabilmente la mia espressione affranta rafforzò il concetto.

    Lasciai che mi esaminasse per qualche secondo, anche le mie braccia assecondarono quel pensiero adagiandosi nuovamente sulle ginocchia.

    Lui capì tutto ma preferì cambiare argomento:

    Ti va di raccontarmi di te?

    Come richiesto recitai a memoria il mio curriculum scolastico, mentre il suo volto inquieto non mi lasciava neanche un attimo.

    Non ci volle molto a concludere, dopo qualche secondo di muta attesa fu lui a parlare nuovamente:

    C’è qualcos’altro di te di cui desideri parlarmi?

    Si riferiva al mio passato familiare forse?

    Ad ogni modo come con Miguel, alzai le barricate, tutte.

    No.

    Sei sicura?

    Sì, sono sicura.

    Come preferisci. Dovessi cambiare idea, sai dove trovarmi.

    Quell’apertura inaspettata, combinata a quel tono senza pretese, fecero uno strano effetto ai miei propositi iniziali:

    È che io …cioè…la mia famiglia è diversa da tutte le altre.

    Ah, se è per questo anche la mia. Anzi, forse vale per tutti. Non credi? mi venne incontro.

    Avrei voluto spiegargli di più ma per i miei standard di conversazione sull’argomento avevo già raccontato tantissimo, anzi, troppo.

    Forse se ne accorse anche lui:

    Per oggi basta così, spero di non averti infastidito con i miei commenti.

    No, proprio no. Di tutte le parole scambiate fino a quel momento la mia pelle si ostinava a suggerirmi carezze, non graffi.

    Torniamo al tuo percorso universitario, le mie congratulazioni.

    Come? Per cosa?

    Avrai lavorato molto per arrivare a dei risultati così. Sei stata molto brava, davvero.

    Era davvero un complimento quello che stavo udendo?

    La sua bocca s’incurvò, qualcosa di simile a un mesto sorriso. Io non riuscii a modulare alcun suono, lui non sembrò prendersela a male.

    Posso farti ancora una domanda?

    Mi feci coraggio, non volevo farci la figura della debole:

    Sì, certo.

    Se ti pensi tra dieci anni, come ti vedi?

    Ah, non saprei. Più esperta di oggi, anche più autonoma, credo. Certamente più grassa, come dice sempre mia nonna.

    La mia innocente battuta cadde nel vuoto.

    La sua testa però si orientò leggermente di lato, positivamente incuriosita mi parve.

    Argomentalo di più.

    Tentai di accontentarlo:

    Non so, non ho ancora potuto verificare il contenuto della mansione che mi è stata assegnata e quindi valutare quali prospettive professionali possa garantirmi non è semplice. Certo è che sono curiosa, piena di entusiasmo per le novità, mi piace osservare, ascoltare, imparare. Forse questo mi permetterà di crescere più di quanto riesca a immaginare ora.

    Il suo viso enigmatico trattenne un’altra piega divertita.

    È stato così all’università?

    In parte sì, credo di sì.

    Conosci qualcuno che ha dei voti come i tuoi?

    Non saprei.

    Ma dove voleva arrivare?

    Secondo te, se applicassi sul lavoro lo stesso impegno che hai messo nello studio cosa potrebbe succedere?

    Capito il suo intento risposi:

    In università conta l’individualità, c’è una relazione diretta tra impegno e risultato. Probabilmente qui serve molto di più: capacità di relazionarsi con gli altri, d’influenzarne le opinioni, insomma propensione alle relazioni umane, attitudine alla leadership.

    Certo, tutte doti non comuni.

    Difficile interpretare quel suo sguardo grave, la mia risposta comunque alimentò in lui nuovi desideri d’indagine:

    Sempre secondo te, io quanti anni ho?

    Oddio, no. Ma non mi tirai indietro:

    Una trentina, credo.

    Una trentina. Sei sicura di non voler riprovare?

    Penso di aver già fatto abbastanza danni così, grazie.

    Se la rise ancora per conto suo, poi il verdetto:

    Ho trentun anni, cioè sette più di te, giusto?

    Sì.

    È tanto o poco?

    Ah, io non…

    Hai paura di dirmi che sono vecchio?

    No, no, assolutamente no risposi annaspando.

    Meno male commentò rilassandosi sbieco sulla poltrona.

    Poi ci fu una lunga pausa, come se si aspettasse da me qualche commento. Che non arrivò. I miei neuroni invece non smisero di studiarlo, inspiegabilmente attratti da quell’immagine così triste ma dolce, bella seppur così carica di durezza.

    Non era solo affaticato, anche sofferente; in quegli istanti d’attesa ne ebbi la certezza. Anche lui si sentì spiato e tentò di proteggersi riportando il centro della conversazione su di me:

    Veniamo alla tua tesi. Ti ho preparato un po’ di carta: presentazioni varie e altro materiale informativo che usiamo nelle nostre campagne di comunicazione, dovrebbe bastarti per cominciare. Se hai bisogno d’altro, chiedimi pure.

    Grazie gli risposi lentamente, non riuscendo più a sostenere il suo sguardo, sorpresa da quell’ennesima inattesa gentilezza; lui se ne accorse e la sua tempra s’inspessì ulteriormente, perché?

    Adesso vai pure a casa. Sono le sei passate.

    Mi ridestai:

    Ma non ho finito.

    Domani è ancora tutto lì che ti aspetta, non preoccuparti.

    ‘Non preoccuparti’, anche la mamma me lo diceva spesso.

    Non riuscii a tenere a freno la lingua, proprio l’unica volta in cui avrei dovuto starmene zitta:

    Luca mi ha detto che quelli che non si fermano oltre l’orario di lavoro non hanno speranze.

    Lui mi fissò torvo, poi compose un numero di telefono e mise in vivavoce; lasciò squillare a lungo, invano, infine riagganciò.

    Vedi? Luca è già uscito. Di solito quelli che professano lo stakanovismo sono i primi a imboscarsi.

    Mi sorrise ancora come Monna Lisa, io ricambiai in modo più aperto.

    Mi alzai e mi diressi verso l’uscita, sentendomi ancora i suoi potenti occhi addosso.

    Chiudi la porta quando esci?

    Eseguito anche quel comando ricominciai a respirare.

    Appena mi voltai riconobbi il ragazzo dal colore degli occhi abbinato a quello della camicia, quello conosciuto quella stessa mattina, lo stesso che stava aspettando proprio me.

    Andiamo?

    Sì, prendo le mie cose e arrivo.

    Com’è andata con Marco?

    Non saprei Sam, lui è...irraggiungibile, mai conosciuta prima una persona così.

    Anch’io mi sono sentito così. Con Fosca no.

    Hai incontrato Fosca?!

    Sì, dopo pranzo. Ha voluto vedermi per una mezz’ora.

    Meglio lasciar perdere, come primo giorno di lavoro era già fin troppo.

    Martedì, 2 Marzo 1993

    L’indomani arrivai presto. Volevo giocare d’anticipo prima che il centralino e il citofono s’impossessassero di me. Prima ancora però desideravo soddisfare la mia curiosità, facendo una veloce perlustrazione solitaria delle stanze ancora deserte, giusto per cercare di entrare in confidenza almeno col campo da gioco.

    Ovviamente né Fosca, né le sue scagnozze avevano provveduto in tal senso il giorno prima, così come non ebbi il piacere di essere presentata ai colleghi, neanche quelli più vicini; scoprii l’indispensabile quel mattino di corsa, scroccando un passaggio a un sopraggiunto collega dell’IT, il quale si offrì di accompagnarmi dopo avermi visto vagare sola per i corridoi ancora a luci spente.

    L’open space finance dov’ero stata brutalmente scaricata fungeva da raccordo tra le due aree principali del piano, la cui pianta era una sorta di ‘L’ simmetrica, scale e ascensori d’accesso posti nel punto d’incontro tra i due lunghissimi e spaziosi bracci.

    Nell’ala ovest si trovava l’ingresso principale, sia per i dipendenti che per gli esterni in visita. Lì si trovavano le sale riunioni sul lato strada e gli uffici direzionali sull’altro, nell’ordine: bagno reale e ripostiglio cancelleria, poi ufficio di Fosca, quello di Miguel, infine l’alloggiamento per i suoi numerosi servitori. L’ala ovest terminava con la sala Marte; il suo ingresso era posto proprio in fondo al corridoio, un’imponente sala meeting certo non a caso intitolata al dio della guerra e ancora in fase di allestimento, destinata ad accogliere le sessioni plenarie del management aziendale, feroci scontri diurni e notturni, così mi raccontò il mio schietto accompagnatore con ben sei mesi di anzianità di servizio.

    Nel lato opposto del piano, l’ala est, lavoravano gli altrettanto caotici reparti commerciale e marketing, distribuiti secondo le medesime logiche dell’ala direzionale; innanzitutto l’ingresso secondario, poi sul lato interno in sequenza prima il bagno, poi gli uffici del management, cioè responsabile marketing, direttore commerciale, infine diverse stanze per ruoli minori ma affini. Sul lato strada altri due open space per un totale di più di venti scrivanie, prima quello del marketing dove stava Sam, poi un altro destinato principalmente ai commerciali di passaggio in sede.

    La reception si trovava altrove, cioè al piano terra, come da inderogabile desiderio di Miguel di aver più silenzio possibile intorno. Lui piantonava il lato ovest, Fosca compresa, mi disse il mio nuovo amico ammiccando, mentre l’ala est era pattugliata dall’altrettanto tenace direttore marketing.

    L’open space finance era un luogo incasinato ma anche strategico; chi desiderava spostarsi da un’ala all’altra del piano aveva infatti due possibilità: attraversare l’accampamento dei soldatini di Fosca, permettendo così ai suoi inquilini di essere sempre i più aggiornati sulle dinamiche manageriali in corso, oppure uscire sul pianerottolo scale e rientrare sfruttando i due ingressi gemelli. Quello stesso pianerottolo era destinato a fumatori e perditempo; non capitava di rado che l’orecchio sensibile di Miguel si affacciasse rabbiosamente sull’uscio, pretendendo a suon di occhiatacce e vocalizzi il massimo rispetto per tutti i colleghi al lavoro ma soprattutto per sé stesso.

    Le restanti funzioni aziendali, come il personale, l’IT, gli acquisti e il facility, erano state collocate su altri piani del palazzo e allenate a fare le scale di corsa ogni volta che l’amministratore delegato abbisognava prestamente della loro presenza, così era capitato più volte anche al collega appena conosciuto.

    Di ritorno Daniele mi propose un ulteriore tour per gli altri piani, ma quella maledetta scrivania disordinata mi fissava con troppa insistenza. Ci salutammo velocemente, raccolsi i capelli in una coda e inforcai gli occhiali decisa, da lì in avanti innocenti distrazioni non sarebbero state più ammesse.

    *****

    Mi misi d’impegno nella continuazione del lavoro d’archivio e diedi una riordinata generale anche al ripiano; volevo dare l’impressione di essere una persona volenterosa, che non faceva la schizzinosa neanche di fronte alla più sfidante delle richieste. Insomma volevo vincere.

    Arrivò prima Romina:

    Ciao, sei già arrivata?

    Evidentemente sì.

    Ci beviamo un tè prima di cominciare?

    No, grazie.

    In fondo non era antipatica, doveva solo imparare a non farsi influenzare da quell’arpia che le sedeva di fianco. Romina era molto giovane, al massimo ventuno, ventidue anni, mentre la sua compagna di banco poteva essere al massimo mia coetanea. Come previsto, dopo una decina di minuti di positiva quiete arrivò Eleonora e il suo atteggiamento cambiò, in peggio. Feci ancora finta di non vedere e non sentire.

    In tarda mattinata si presentò Fosca, nuovamente strizzata dentro un completo che la fasciava come il Domopack.

    Buongiorno Fosca.

    Non contraccambiò, solo un copia-incolla del giorno prima:

    Seguimi.

    Mi alzai e come richiesto le stetti dietro fino al suo ufficio perfettamente organizzato, una vera finance manager. Mi accomodai, dopo di lei naturalmente.

    Vorrei scambiare due parole con te.

    Certo che a una pignola come me non sarebbe mai potuta sfuggire una simile ghiottoneria: Marco il giorno prima voleva fare con me ‘quattro chiacchiere’, lei invece mi parlò di ‘due parole’. Intuite le premesse le conclusioni erano già a portata di mano:

    Avrei voluto farlo ieri ma non c’è stato tempo.

    Ci mancherebbe.

    Bugiarda. L’unico motivo per cui ero lì era perché qualcun altro aveva fatto la stessa cosa la sera prima e lei voleva essere sicura di non esser da meno, soprattutto agli occhi di Miguel.

    Allo scoccare della frusta da bravo cucciolo ammaestrato recitai nuovamente il mio CV, ma il mio sguardo sprezzante quanto sincero mi stava tradendo. Lei intuì.

    Nei prossimi giorni vedrò di ricavarmi degli spazi per seguirti.

    Ti ringrazio molto.

    Non mi fece altre domande; lei non aveva alcuna curiosità da soddisfare su di me, se non quella di capire come sbattermi fuori alla svelta. Le venne un’idea:

    Ti cercherò anche dei documenti per la tesi. Forse ho già qualcosa.

    Marco mi ha già dato molto materiale e mi ha detto che se dovessi aver ancora bisogno posso chiedere direttamente a lui. Per un po’ quindi sono a posto e non dovrò disturbarti.

    Lei serrò le labbra e si tinse di viola, forse strappò anche qualche cucitura del suo costosissimo vestitino super attillato.

    Adesso ti lascio, non voglio farti perdere altro tempo.

    L’avrei pagata cara quella baldanza.

    *****

    Durante la pausa pranzo Sam mi portò nuovi amici.

    Lavoravano a pochi metri di distanza dalla mia scrivania, cioè all’altra estremità dell’open space finance, quella più prossima all’ufficio di Miguel e Fosca, eppure lui era riuscito a far conoscenza prima di me. Forse dipendeva dal fatto che sedevo loro di spalle e in quei primi concitati momenti non mi era neanche passato per la testa di voltarmi, forse anche la totale diversità di stile tra i nostri capi poteva aver giocato un certo ruolo nella vicenda. Ultimo, io ero solo una schiava temporanea, lui un imprenditore apprendista.

    Fu così che mentre sbocconcellavo la mia insalata ipocalorica accompagnata da una zuccherosa Coca-cola, ebbi il piacere di approfondire la conoscenza di Elio ed Eugenio, per tutti Gino. Di almeno cinque anni più vecchi di me, erano praticamente la stessa persona; Elio la versione extra-large, Gino una graziosa small. Entrambi occhialuti, capelli corti castani, abbigliamento molto casual, forse fin troppo, ma soprattutto una materia grigia mica male. Anche loro lavoravano sotto la responsabilità di Fosca, ma si occupavano di amministrazione del personale, contratti di assunzione, buste paghe e cose simili. Quelle attività non le erano molto congeniali e questo faceva sì che li lasciasse relativamente in pace. Presi nota nel cervello di girarmi verso di loro se le cose avessero preso una piega davvero storta; certamente vi avrei trovato comprensione, come con Sam.

    Il loro parlare era molto colorito, probabilmente non solo al bar ma anche in ufficio. Se li avesse sentiti la mamma o la nonna.

    Elio era appassionato di musica, suonatore di basso in una band messa insieme con alcuni amici, mentre Gino amava il calcio; essendo d’origine toscana aveva una passione smisurata ma non sempre ricambiata per la Fiorentina, in quegli anni non proprio in vetta alle classifiche.

    Elio, segno zodiacale Acquario, era un tipo tranquillo, un vero artista sognatore, mentre Gino era più energico, forse anche stressato; l’azienda gli permetteva di compensare tenendo un acquario, non nella testa come il suo amico, ma sulla scrivania. Era pulitissimo e ordinatissimo, al pari della sua postazione di lavoro e del suo segno astrale, Vergine.

    Ti piace qui Giulietta? mi chiese.

    Insomma.

    Oh che ti abbiamo fatto di male?!

    Voi niente, anzi.

    A buon intenditore poche parole:

    Quando non ce la fai più, urla e ti veniamo a salvare.

    Sam sfoderò un altro affascinante sorriso. Quel giorno la sua camicia era grigio polvere, portata senza cravatta sotto un vestito di diversi toni più spento rispetto al giorno prima; il tutto metteva ancor di più in risalto i suoi occhi chiari, ma in modo completamente diverso rispetto al suo capo: un fascino mite, senza spigoli e lune, un temperamento naturalmente carico di loquacità e allegria, che suggeriva accoglienza e calore.

    Elio mi riportò alla realtà, facendomi il riassunto delle puntate precedenti:

    "Quelle lì devi lasciarle perdere, si comportano sempre a

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