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Il bambino che voleva volar via
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E-book251 pagine3 ore

Il bambino che voleva volar via

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Info su questo ebook

Tutte le persone in fondo desiderano qualcosa di meglio: una casa più grande o una bella macchina, nei casi più semplici. Alcuni sognano di vivere in un posto migliore, lontano da guerra e fame, e sono disposti a rischiare la propria vita pur di riuscirci: tra questi il nostro protagonista, nato nei livelli più bassi di una società avanzata ma dal tessuto culturale profondamente ignorante e crudele, che a stento riesce a sopravvivere al ruotare del tempo. Il sogno di libertà lo porterà verso una strada lunga e piena di insidie, ma anche di amore e bellezza, di riscatto e liberazione, mostrando che, nonostante le difficoltà, non bisogna mai arrendersi e smettere di sognare.
LinguaItaliano
Data di uscita30 giu 2023
ISBN9788855492225
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    Anteprima del libro

    Il bambino che voleva volar via - Zorzi Matteo

    Prologo

    Da quando ho ricordi ho sempre vissuto nel blocco abitativo, stanza A13, con mia madre, con altre migliaia di persone. Poco posso dire di lei, beveva, non c'era mai, delle volte passavano giorni senza vederla. Non che fosse un problema quello: quando era in casa urlava un sacco d'insulti, contro mio padre, l'uomo che non ho mai conosciuto, e contro di me. Vaneggiava sul fatto che io e lui le avevamo mandato a rotoli la vita, come se in quel posto dimenticato dallo spirito qualcuno potesse condurre un qualcosa che si potesse considerare tale. Il vero problema era che in sua assenza, spesso, la stanza veniva invasa dai suoi amici, o clienti, pensatela come volete. Stavano lì tutta la luce e per buona parte del buio a bere e a farsi di certe sostanze che i più indaffarati degli occupanti del blocco producevano nei livelli inferiori. Erano chiassosi e alle volte, in preda alla frenesia, mi prendevano, mi passavano tra loro come se fossi un oggetto, in un fottuto gioco perverso, senza contare gli schiaffi e i pugni che volentieri mi concedevano. Avevo allora otto cicli planetari, credo.

    Quando potevo e soprattutto quando riuscivo, scappavo dalla stanza non preoccupandomi minimamente che quei bastardi potessero rubare qualcosa, tanto non c'era niente da portare via. Evitavo i quattro ascensori di servizio che erano sempre guasti, percorrevo il lungo corridoio senza finestre e salivo le scale tutte d'un fiato, fino al 390esimo piano (io stavo al 374). Arrivato, raggiungevo la stanza senza numero ed entravo; la porta era stata manomessa molto tempo prima da non so chi, quindi non ebbi problemi ad aprirla la prima volta che la trovai.

    Lì la vista era bellissima. Un miscuglio sbagliato di sostanze aveva generato un'enorme esplosione che aveva mandato buona parte del muro esterno in frantumi e nessuno poi si era preso la responsabilità di riparare il danno. Da quella gigantesca fenditura si vedeva tutto o quasi. Il mio blocco era uno dei più esterni dell'agglomerato urbano e dava direttamente sui moli dello spazioporto. Quella era una costruzione ancora più incredibile: un'enorme voragine circolare nel terreno adornata da centinaia, se non migliaia, di luminarie che segnalavano i suoi contorni e le varie banchine d'attracco. Esse erano sempre accese, ma i giochi di colore si notavano meglio con il buio. Gli enormi fari segnalavano le rotte d'avvicinamento al continuo via vai di navi che atterravano e partivano verso le miriadi di mondi che formavano l'ammasso stellare. Durante la luce si potevano vedere perfino gli innumerevoli colori delle bandiere delle gilde commerciali poste sulle torri di controllo. Garrivano sempre, spinte dai venti artificiali generati dai soffiatori posti poco più in basso. Attorno al cerchio principale vi erano tutti i magazzini, centri di stoccaggio, le enormi cisterne per l'acqua tanto preziosa ad ognuno di noi e gli alloggi dei lavoratori. È buffo, ma da quell'altezza li ho sempre immaginati come tanti componenti di un'enorme scheda elettronica. Oltre gli edifici c'era un gigantesco muro cintato che racchiudeva il tutto. Non era l'unico della città, ovviamente, né il più grosso, forse il più malfamato, ma era l'unico che potevo osservare dal mio blocco.

    E così me ne stavo lì per cicli e cicli contemplando il mio piccolo universo, fantasticando in continuazione sul momento in cui avessi preso una di quelle navi e fossi partito verso l'ignoto. In quei frangenti il cuore batteva forte e tutto lo schifo che mi circondava e cercava di soffocarmi svaniva. A riportarmi alla realtà però c'era lui, Estoch o, come a volte lo chiamavo, il Vecchio. Era l'unico abitante di quel piano e la sua stanza era accanto a quella senza numero. Non sapevo quanti cicli avesse, ogni volta che gli chiedevo lui rispondeva tanti. Alto, ben piantato, muscoloso, non sembrava essere scalfito dall'età. Era molto riservato sulla sua vita; era stato un militare, questo era certo, si riconoscono subito, dai modi di fare e soprattutto dalle cicatrici che si guadagnano in servizio negli eserciti imperiali. La più grossa gli partiva dalla tempia sinistra ed andava a perdersi nella sua folta ma curata barba. L'occhio sinistro non c'era più, soppiantato da un bulbo verde elettrico che gli conferiva uno sguardo truce. Incuteva timore alla gente, ma a me non ha mai fatto paura, è sempre stato gentile, fin dal primo ciclo in cui mi trovò lì mentre, seduto sul bordo con le gambe nel vuoto, guardavo le luci dello spazioporto. Sulla tempia destra invece aveva un tatuaggio, un numero, che col tempo stava sbiadendo; chiesi anche di quello ovviamente, ma da lui non ottenni mai risposta.

    Fu lui ad insegnarmi a riconoscere e a distinguere le varie navi, anche dalla lunga distanza. Mi raccontava storie di mondi di fuoco, dove enormi creature con le ali volavano incontrastate nei cieli predando tutto ciò che si muoveva a terra. Cercò anche di insegnarmi qualcosa del mio mondo natale, ma questo mi annoiava parecchio, tanto ero disgustato dalla mia condizione sociale, e quindi imparai solo l'essenziale, in particolare che la vita nel blocco era dura, ma nelle strade lo era ancora di più. Ma ciò che m'insegnò di veramente importante fu leggere e scrivere in alto imperiale, la nostra lingua corrente. Ogni blocco aveva una scuola ai livelli inferiori, ma io non la frequentai mai; anzi, la prima volta che il Vecchio si presentò nella stanza senza numero con libri e matite, mi rifiutai di ascoltarlo e girai lo sguardo.

    – Come puoi salire su una nave se non sai nemmeno compilare il modulo d'imbarco? – mi disse.

    – A quello credo ci penseranno gli addetti…e poi, cos'è un modulo d'imbarco? – gli risposi vagando con lo sguardo tra un edificio e l'altro. Lui sogghignò, rovistò in una tasca del suo cappotto sgualcito fino a trovare un pacchetto di cilindri di fumo, ne tirò fuori uno e lo accese. Tossì copiosamente dopo la prima boccata, ma questo non gli impedì di farne una seconda e una terza.

    – Non incominciare mai a fumare ragazzino, queste cose uccidono peggio di un coltello, forse più lentamente, ma l'effetto è quello. – e così dicendo ne fece una quarta e poi una quinta. – Allora, dici che i moduli te li compilano gli addetti?! Va bene, quindi vuoi arrivare ai miei cicli senza saper scrivere o leggere il tuo nome? – Mi girai di scatto verso di lui, improvvisamente la città aveva perso il suo fascino.

    – Quanti cicli hai? – gli chiesi per l'ennesima volta.

    – Tanti, ragazzo, ma non è questo il punto. Rispondimi, vuoi rimanere un inurbano come tutti quelli che abitano questa fogna, o vuoi qualcosa di più? – La mia testa ciondolava a destra e a sinistra. C'erano sempre stati quei sassi? pensai fissando un mucchietto di materiale ai miei piedi.

    – Allora? – chiese ancora lui tirando l'ultima boccata di fumo.

    – Qualcosa di più. – bisbigliai.

    – Come? – domandò di nuovo gettando a terra ciò che restava del cilindro. A quel punto lo fissai intensamente negli occhi. Alzi la voce? E io resisto ancora di più! Vuoi una risposta? Cavamela fuori dal petto se vuoi, continua, picchiami, buttami giù già che ci sei, ma otterrai solo silenzio da me. Lo pensai solo, mai mi sarei azzardato ad alzare la voce con lui. Alla fine sapevo che lo faceva per il mio bene, ma la voglia di imparare non mi sfiorava proprio, quindi mi concentrai sul filo di fumo che scaturiva dal mozzicone sul pavimento. Con un rapido gesto del piede Estoch pose fine al mio intrattenimento. Tirai un lungo sospiro.

    – Voglio qualcosa di più. – dissi infine. Lui sorrise e accese un altro cilindro.

    – Molto bene ragazzo! – esclamò. – Cominciamo dalle basi, per esempio…il tuo nome, no? Un uomo deve sapere come si scrive il suo nome. – Prese un foglio e lo scrisse. Sapeva da tempo come mi chiamavo, poiché era stato lui a darmi un nome, visto che mia madre era troppo occupata a farsi per darmene uno.

    – Tieni. – mi disse porgendomi il pezzo di carta e una matita. – Io adesso devo andare, esercitati a scrivere questo intanto, non restare qui troppo come tuo solito o darai un pretesto in più a tua madre per gridare e, soprattutto, vai a prendere le razioni della sera, mi sembri deperito.

    – Va bene, va bene. – gli risposi distrattamente. Lui mi diede un ultimo sguardo e se ne andò.

    Rimasi da solo con quel piccolo foglio di carta e la matita. Presi quest'ultima come se fosse un bastone, avvinghiandola con tutte le dita, e mi cimentai a copiare quell'insieme di lettere che formavano il mio nome: MHETTY.

    Nonostante la mia resistenza iniziale imparai in fretta. Nel giro di un paio di cicli riuscii a trascrivere correttamente il mio nome, non facevo neppure fatica a reggere la matita tra il pollice e il medio, per la grande felicità del Vecchio. Dopo quasi venti cicli imparai a memoria tutte le lettere possibili e seppi scrivere molte altre parole: NAVE, MURO, SCALA, ASCENSORE, solo per citarne alcune. Tolto che volare col pensiero guardando lo spazioporto, non avevo molto altro da fare, perciò mi cimentai con passione e dedizione. Inoltre, Estoch era bravo e paziente, non si arrabbiava mai e mi correggeva bonariamente quelle volte che sbagliavo. Mi regalò pure dei libri per affinare la lettura. Erano essenzialmente dei manuali per la riparazione dei motori interstellari, noiosi, pigri nella spiegazione dei vari passaggi e pieni di tecnicismi che non capivo, ma non aveva di meglio da offrire. Li lessi tutti d'un fiato e per lo meno capii le basi del viaggio tra le stelle, ovvero il salto quantico, che permetteva di colmare le vastità siderali in poche ore. Venni a conoscenza del propellente usato, il cristallo di plasma, che era ed è tuttora la materia più costosa e preziosa della nostra economia.

    Passò un ciclo planetario completo e poi un altro ancora. Quando ne ebbi circa dieci ero ormai padrone di scrivere frasi di senso compiuto e leggerle velocemente.

    – Sei un piccolo genio ragazzo mio! Molti altri hanno cominciato prima di te e non hanno ancora finito d'imparare. Certo, non dispongono di un maestro come me, ma cosa vuoi che ti dica – Estoch aveva appena finito di leggere una sua descrizione fatta da me. – Solo una cosa ragazzo. –

    – Cosa? –  gli chiesi. Lui cercò di fare una faccia arrabbiata, ma mi fece solo ridere.

    – Questo punto, dov'era…ah ecco, grosso ma dal cuore di cristallo, probabilmente molto ma molto vecchio. Vuoi mandarmi dall'altra parte velocemente ragazzo? –

    – È che non so quanti cicli hai, me lo dici adesso? –

    – Tanti, ragazzo, tanti. –

    Una sola volta provai a leggere qualcosa a mia madre. Ottenni solo un sonoro ceffone e un rimprovero per essere in ritardo con la razione di cibo. Dalla nascita, a ogni cittadino di ogni ceto sociale spettano tre razioni di cibo e acqua nell'arco del ciclo, le quali vengono erogate da dispenser presenti su ogni piano. Inoltre, ogni abitante aveva un piccolo codice tatuato sul polso destro, che, se scannerizzato, permetteva di ottenere i dati anagrafici della persona e veniva usato per attivare gli erogatori dei dispenser per tre volte, una durante la luce e due nel buio, e per aprire le porte delle proprie stanze. I ricchi ovviamente non ne usufruivano e certo non pensavano di darli ai bisognosi. Per di più, commettendo reati più o meno gravi, si poteva perdere temporaneamente o totalmente la possibilità di ottenere le razioni. Era un atto crudele, ma credo che il governo del pianeta l'avesse fatto per cercare di dare un freno alla criminalità. Invece, ottenne solo l'effetto contrario: molti di quelli che perdevano il diritto diventavano velocemente affiliati di bande criminali sempre alla ricerca di nuovi adepti, da adescare con promesse di vettovaglie.

    Il cibo e l'acqua provenivano da altri mondi, poiché il nostro era una landa sterile con un'atmosfera tossica da respirare. Fuori dalla cupola della città non c'era niente, se non sabbia e rocce prive di minerali da estrarre. Le bande avevano il pieno controllo dello spazioporto e potevano far arrivare di tutto. Il governo sapeva, ma non aveva i mezzi per fermare una creatura che ormai aveva gli artigli dappertutto. Probabilmente preferiva prendere soldi sottobanco e lasciare il controllo della zona povera a chi di dovere. Ogni tanto capitava qualche retata e una nave veniva confiscata, ma era un granello di sabbia in un vasto deserto.

    Mia madre era una di quelle persone che aveva perso le razioni molti cicli prima della mia nascita. Probabilmente mi aveva tenuto poiché, ancora innocente, potevo usufruire dei dispenser e così poteva mangiare e bere, lasciando a me il minimo per sostentarmi. Il giorno dello schiaffo doveva avere molto appetito, poiché non condivise la razione con me. Non dissi niente ad Estoch, che già era al corrente della mia situazione. Sarebbe andato su tutte le furie e probabilmente avrebbe cercato di metterla in riga. Lei, d'altro canto, gli avrebbe mandato contro i suoi clienti e io volevo risparmiargli una lite sanguinosa, ce n'erano abbastanza nei dintorni. E poi, agli schiaffi ormai ero più che abituato.

    Così pensavo avrei passato la mia infanzia, tra soprusi, fantasticando e scrivendo frasi senza senso che solo il Vecchio avrebbe letto. Ma il lento flusso del tempo che regna sovrano su ognuno di noi non scorre sempre secondo i piani; si può provare ad impostare la vita seguendo una linea diritta, ma basta un battito e tutto può stravolgersi. Questo lo capii al dodicesimo ciclo planetario: presto la mia linea avrebbe preso una brutta, bruttissima piega.

    Dentro il blocco

    I cicli di buio cessarono come sempre, all'improvviso. Il sensore acustico cominciò a gracchiare, segno che un altro ciclo di luce era cominciato. Aprii gli occhi pigramente, ancora intontito dal sonno, fissai la stanza senza guardare niente in particolare. Mamma dormiva ancora dall'altra parte, per nulla infastidita dal rumore. Lentamente mi alzai dalla brandina e spensi il sensore toccando a casaccio i suoi pulsanti, sbadigliai e stiracchiai le braccia. La mia attenzione andò sul piccolo tavolo al centro della stanza. Lì c'erano i rimasugli del buio appena finito: parecchie bottiglie di metallo, alcune vuote, altre a metà, una miriade di cilindri finiti, probabilmente non solo di fumo, un piattino su cui era ancora depositata una leggera patina di polvere (sicuramente polvere che friggeva il cervello) e un rimasuglio di surrogato da razione, che afferrai. Mi infilai i pantaloni intascandomi la colazione, misi la maglietta con stampate in grande le lettere Q. C. (Quary Company). Era la più grande fabbrica del pianeta. Situata al polo sud, dava lavoro a milioni di lavoratori, che dovevano prendere una navetta a cui io spesso cercavo di dare una classe. I restanti miliardi di persone, invece, si muovevano freneticamente per la città. Misi le scarpe e mi avvicinai alla porta, scansionai il tatuaggio e la porta si aprì verso l'esterno permettendomi di uscire.

    Nel ciclo di buio, quando rientravo, il corridoio del mio piano era sempre pressoché deserto. Appena subentrata la luce però, il deserto si trasformava in una marea di persone, che percorrevano il corridoio o le scale, a salire e a scendere. Molte stanze erano aperte e, appena dentro alcune di esse, c'erano persone, soprattutto donne, che sussurravano deliziosi inviti a chiunque arrivasse abbastanza vicino. Il pianto dei bambini e l'odore di fumo erano onnipresenti. Maledetti mocciosi pensai, finii di rosicchiare la porzione di surrogato, chiusi la porta e scattai verso le scale che conducevano al 375esimo piano. Zigzagai tra la folla senza mai fermarmi fino al 387esimo, dove la gente calò drasticamente, lì presi il corridoio e mi incamminai verso la stanza A13, dove abitava Mennyk. Lo conoscevo ormai da tre cicli planetari. Era più vecchio di me di quattro cicli, leggermente più alto, magro come me, con lunghi capelli completamente lisci che gli arrivavano ben oltre le spalle. Baffi e barba gli incorniciavano il naso aquilino e due enormi occhi scuri, persi sempre nel vuoto, completavano il tutto. Era sempre fatto.

    Arrivato alla sua porta, feci per bussare ed essa si aprì di colpo. Non era lui, ma sua madre, che teneva in braccio un altro dei suoi figli.

    – Ciao Mhetty, tutto bene ai piani di sotto, allora? – Era una bella donna, a tirare ad indovinare avrà avuto una quarantina di cicli. Una cascata di capelli color marrone chiaro le arrivavano fino in fondo alla schiena, occhi verdi enfatizzavano il suo perenne sorriso da finta ingenua, era molto formosa e magra. Unico difetto? Era sempre fatta anche lei. Suo figlio maggiore e lei fumavano da luce a buio cilindri tossici, come li chiamavano loro. Mennyk addirittura lavorava nei livelli inferiori e contribuiva alla produzione delle sostanze. Aveva perso il diritto alle razioni, beccato più volte a vendere in strada, era stato bollato come recidivo. Non si era dato per vinto, ed aveva cominciato a lavorare per conto delle bande dei produttori, riuscendo sempre a sostentarsi. Sua madre e i due fratellini invece avevano tutti il diritto al cibo. Lei non usciva mai di casa, se non per prendere le razioni, stava tutto il tempo persa nei fumi della sostanza ad accudire i bambini. Il marito era morto prima che nascesse l'ultimo dei figli, ovvero tre cicli planetari fa. Non parlava mai di lui e neppure Mennyk, per cui dopo aver saputo della sua fine non chiesi nient'altro.

    – Allora? Ho aperto per fare uscire un po' di aria malsana, non che qui fuori ce ne sia di migliore però…Allora? Ti hanno mangiato la lingua, allora? Come sta tua mamma, allora? Sempre fatta, ah? Come la capisco, allora, raccontami – non mi diede il tempo di rispondere, non lo faceva mai.

    – Ciao Jel – riuscii finalmente a dirle, zittendola. – Tutto bene, tutto bene, mamma dorme ancora, credo che al buio abbia fatto la matta più del solito. –

    – Ottimo direi, allora – mi rispose lei – Mennyk è in casa, arriva subito. – e rientrò – Ciao Mhetty, cerca di avere una buona luce, ma sempre aspettative basse, ricorda! – mi salutò e sparì nella stanza.

    Aspettai sull'uscio osservando il via vai di gente che senza sosta percorreva il corridoio. Mennyk arrivò poco dopo, già assuefatto di prima luce.

    – Ciao piano inferiore, tutto bene? – mi disse spegnendo il cilindro sul muro fuori dalla sua porta.

    – Solito. – risposi io alzando le spalle.

    – Hai contato le navi anche l'altro buio? Amico, finirai per rincoglionirti lassù con quel vecchio pazzo! –

    – Da che pulpito! – gli replicai, lui sogghignò e accese un altro cilindro, porgendomelo. – No, no, grazie, passo anche stavolta – rifiutai come sempre.

    – Amico, non sai quello che ti perdi, un sognatore come te apprezzerebbe, cazzo se apprezzerebbe, ma ormai ci sto quasi rinunciando a convincerti, quasi…– e così dicendo diede una lunga boccata di sostanza e me la soffiò in faccia.

    – Coglione! – mi scansai tossendo.

    – Dai che in fondo mi vuoi bene. Ciao Karls, s'incomincia sempre alla prima luce, ah? – disse rivolto ad un ragazzo appena uscito dalla A14, il quale ricambiò con un gesto non proprio educato.

    – Vedi? – continuò lui – Bassi stipendi, morale basso! – e sghignazzò ancora. Conosceva un sacco di persone di quel piano e ben oltre; non so come facesse, sicuramente era molto espansivo e alla lunga la gente si lasciava andare con lui. Io, al contrario, ero molto chiuso e timido, mi ci voleva parecchio tempo per aprirmi con gli estranei. E, infatti, Mennyk fu un toccasana per me. Inoltre, m'insegnò ad orientarmi nel

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