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Di Cani, Di Treni, e Di Sirene
Di Cani, Di Treni, e Di Sirene
Di Cani, Di Treni, e Di Sirene
E-book274 pagine4 ore

Di Cani, Di Treni, e Di Sirene

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Info su questo ebook

Quando dai conventi salivano inni soavissimi che coprivano le urla degli eretici in via di redenzione, pochi pensavano, forse, di poter dirottare un tram nelle vie di Milano. E quando ai treni era preclusa ancora l'alta velocità, i viaggi si prolungavano talvolta oltre i limiti orari che oggi usano, per quanto elastici. E quando le donne seguivano altri modelli che le escort(s), o non seguivano modelli, erano certo più difficili da capire, forse anche pericolose come sirene. Tutto accade ancora, se un personaggio che non può distinguere i fatti sanguinolenti dalle fascinazioni del tempo e dell'arte è costretto dentro eventi che sono incubi e fiabe. Servizi segreti e finte suore, cani parlanti e un diavolo confinato nei cementi dell'interland. Ogni passo ricalca la stessa orma, ogni giorno il viaggio ricomincia, negata la scoperta di un senso illusorio come reale nella deformità del presente. La salvezza possibile è l'ironia scorretta e malvagia che neghi carattere di serietà alla tragedia sempre possibile, frullando ogni elemento vissuto o pensato nello stesso allucinato disincanto, nella scrittura che cerca il sublime nel grottesco, e viceversa.
LinguaItaliano
Data di uscita24 feb 2014
ISBN9788868221577
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    Di Cani, Di Treni, e Di Sirene - Francesco Venturini

    Francesco Venturini

    Di cani, di treni, e di sirene

    Proprietà letteraria riservata

    © by Pellegrini Editore - Cosenza - Italy

    Edizione eBook 2014

    Isbn: 978-88-6822-157-7

    Via Camposano, 41 (ex via De Rada) - 87100 Cosenza

    Tel. (0984) 795065 - Fax (0984) 792672

    Sito internet: www.pellegrinieditore.com - www.pellegrinilibri.it

    E-mail: info@pellegrinieditore.it

    I diritti di traduzione, memorizzazione elettronica, riproduzione e adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi.

    Indice

    1 - IL TRENO

    2 - AL FONDO

    3 - RITORNO

    4 - IL RAGNO

    5 - LA SIRENA

    6 - LA SIBILLA

    7 - IL DIAVOLO, FORSE

    8 - IL CULTO DEI SANTI

    9 - LA FESTA DEL MAIALE

    10 - L’INFERNO, PROBABILMENTE

    11 - TEOLOGIA AFRICANA

    1 - IL TRENO

    Quattro giorni. Erano quattro giorni.

    Anche se, ripensandoci adesso, non posso evitare il dubbio che forse mi sbaglio, che faccio confusione, che già allora ero confuso. Non mancavano i motivi. Potevano essere i postumi dell’ubriacatura di quella notte quando tutto era successo.

    Fuori, quelli che riuscirono. Anche a loro rimangono solo le ustioni.

    Vorrei rivederne qualcuno, se ancora esiste e rimane imbucato da qualche parte e ripensa l’ultima notte e i giorni che l’avevano preceduta, come faccio io.

    Forse anche altri erano confusi, ma certo io più di chiunque.

    Forse era il chinino, perché la farmacia della scuola, e adesso anche chiamarla scuola mi appare strano e improprio, se non del tutto sbagliato, e potrei dire college o carcere di lusso, o qualsiasi altra cosa per etichettare un posto dove gente giovane senza interessi e indirizzi se ne stava, costretta non ricordo da chi, a far morire il tempo, insomma la farmacia, o l’infermeria che fosse, era fornita di ceramiche artistiche piene di semplici, eccipienti, essenze, tritumi di piante officinali e non so cosa anche perché non ne ho mai capito, ma comunque tutto era in linea con le idee come minimo originali, o forse invece modaiole, perché anche di mode non capisco, tra l’esoterico e il barnum in ogni caso, del prete che dirigeva quel posto.

    Quel posto. Forse è il solo modo in cui posso definirlo. Fatto sta che mi avevano dato il chinino, antipiretico e analgesico sovrano e illustre, diceva l’infermiere a tempo perso, cultore di teologia e, naturalmente, di alchimia.

    Non aveva trovato di meglio per la febbre e il dolore della ferita, uno sferlo di una quindicina di centimetri, poco peggio che superficiale. Di traverso alle costole, credo a destra. Erano prese sul serio quelle cose, gli alchimisti del Cinquecento e la cultura sciamanica e la logica simbolica e i geroglifici, e le dottrine politiche e la storia delle religioni.

    Quattro giorni. Da quattro giorni il treno percorreva la pianura a velocità costante. Abbastanza sostenuta, mi sembra di ricordare. Direi sui cento o centodieci.

    Il panorama, da entrambi i lati, non cambiava mai. Rari cespugli alti un paio di metri, una via di mezzo tra arbusti e alberi, come ne avevo visti una volta, da bambino, durante un viaggio in un paese di steppa, e alberi più alti, ancora più radi, dal fogliame scuro, disegnati nitidi sul colore indaco e rosso dell’orizzonte.

    Perché, e questa è la cosa che ora mi appare più strana, e mi induce a dubitare di sbagliarmi ancora, come se fra le tante cose che non ricordo, o ricordo male, ci fossero proprio i dettagli importanti, che segnarono i nodi di passaggio, gli strappi di quella vicenda, finendo per consegnare tutto al passato dove niente può cambiare, l’orizzonte era sempre al tramonto. Da quattro giorni, era sempre la stessa ora.

    Quasi certamente, non ero sotto l’effetto di droghe, a meno di voler considerare droghe gli avvenimenti che mi avevano messo su quel treno, le immagini potenziate dall’alcol, le sequenze sconnesse di quella notte. Ma ricordo bene i sedili di legno, su quelle carrozze anni trenta con le passerelle aperte fra l’una e l’altra, e il tetto sporgente, i sedili faccia a faccia con poco spazio per le gambe. Lei era seduta di fronte a me. Lei.

    Sempre con i capelli biondi sciolti, pettinati a caso, sempre in jeans e maglione come per nascondere qualcosa, o come un’armatura a difesa da colpi che potevano arrivare sempre da chiunque, ma non l’avrebbero sorpresa. L’atteggiamento che dava ai lineamenti sottili, più del pensiero che vorrebbe disegnarli ancora, un’aria di rassegnato distacco, disincanto senza asprezze, e la teneva fuori dai passatempi dove gli altri sguazzavano, aveva naturalmente attizzato parecchi, che, con lei, tentavano corde mai toccate, e solo conosciute nelle beate illusioni dell’ interminabile talk show che, là, pareva essere il precipitato del pensiero universo, la transustanziazione della cultura in pavesata bischeraggine. Par ch’abbia errato il Palmirotta. Hai letto l’ultimo articolo di Sabbionetis? Legge diversamente il problema, destrutturando e decontestualizzando i dati in chiave di lettura formalista. L’ho trovato intrigante. Non ancora. Lo leggerò Te lo porto io domani, ho aggiunto alcune annotazioni. Grazie Vieni a vedere la mostra dei postneotelegrafisti venerdì? Ho i biglietti. Purtroppo venerdì ho da fare. Di tal genere, se non tali appunto, i tentati approcci e i conversari. Nei mesi passati in quel posto, quasi un anno, l’avevo sentita parlare ben poco.

    Eppure, era stata lei a salvarmi, quella notte. Lei. Non ricordo neanche il nome. Solo alcune frasi scambiate nel tempo di una sigaretta, a volte due.

    Frugava senza trovare l’accendino.

    Posso?

    Guardata di traverso, per due secondi, il tempo del primo sbuffo. Poi si era nuovamente immersa nell’esame della fontana secca, in fondo al viale. Che non diventi un’abitudine.

    Potevo indovinare il cenno di sogghigno, sul profilo nascosto. Un commento solo per se stessa.

    Solo la disponibilità a servire per quanto posso. Sogghigno esteso al profilo esposto. Se tentavo un’altra battuta la sigaretta finiva subito: Devo andare. Lo sapevo prima di provarci, così fumavo e guardavo la fontana. Aspettavo.

    Ti piacciono le fontane malate?

    Quelle defunte anche di più. Il fascino delle parole non dette.

    Infatti ho notato che non parli molto. Lei a me.

    Sono a corto di argomenti interessanti. Il tempo e la salute.

    Il sogghigno si rilassava estendendosi al lato visibile. Bravo. Tu non chiedere. Non è lecito. Chiedo io, quando mi va. Non capivo le regole meglio di quanto le capissero gli altri, ma qualcosa mi pareva di capire. Era stufa delle parole, tutte quelle che non era lei a scegliere. Di quelle che poteva scegliere, poche glie ne piacevano. Le parole servono a mentire, diceva.

    Altro non sapevo neppure adesso che la fine della storia si avvicinava.

    Chiedeva lei. Quelle due o tre volte. Forse era capitata per caso nell’angolo più lontano, o forse mi aveva cercato: Ti piace stare solo?

    No. Aspettavo.

    Bravo. Continua. Tutto arriva, a chi sa aspettare. Se ne era andata senza accendere.

    Non era quello che lei aspettava. Non ho mai capito cosa. Non ho mai capito.

    Eppure, per quattro giorni, su quel treno, non ho fatto che guardarla. Non sapevo dove stavamo andando, cosa sarebbe successo. Guardavo i suoi occhi che fissavano qualcosa fuori dal finestrino, e poi guardavano me come fossi il fratello piccolo incapace di camminare.

    Forse pensava ai motivi per cui si era trovata in quella variegata conventicola di esteti zavorrati di rolex, dupont, senloran. Non uno che sapesse il francese. Là dentro c’erano figli della buonissima borghesia alimentare e ristoratrice, e delle prestigiose professioni intellettuali, che in casa parlavano dialetto ma si erano evoluti fino alla cocaina, pervicaci studenti di università con biblioteche fornite di carburante e polvere pirica, qualche hippy vetusto, riconosciuto maitre à penser in virtù di pluriennale esperienza californiana, e seminaristi espulsi per masturbazione compulsiva.

    Tutti partiti, vivi o morti, oltre il muro di quel parco. Dal vuoto al vuoto in ogni caso.

    Non lei. Non lei.

    Per esorcizzare quella specie di complesso che mi pesava quando una piega della bocca, più lontana che ironica, sottolineava il suo sguardo sopra le nostre teste, sopra le parole masticate come chewing gum e l’indigesto grumo di tutte le vicende arrivate ad arenarsi nei corridoi, nell’atrio dove si incrociavano tutte le frasi senza direzione, linguistica motori tette, avevo provato a raccontarmi che parlava così poco perché non aveva niente da dire, perché era solo una bella maschera senza testa dietro, e senza anima, per completare. Avevo smesso di raccontarmelo dopo aver commesso un piccolo sopruso ai danni del tonsurato depositario dei segreti inconfessabili, o quanto meno solo proditoriamente divulgabili.

    Ottenni udienza nel suo ufficio accampando il pretesto di problemi miei, e, tecnicamente, non era una frottola, perché non me ne mancavano.

    La sua faccia aperta e badiale sotto gli occhialini, manco a dirlo, cerchiati d’oro, prese ad esprimere angosciata preoccupazione quando gli chiesi perché lei fosse lì dentro. La preoccupazione virò verso il terrore, bocca semiaperta con filo di bava inclusa, subito dopo, mentre mi osservava chiudere a chiave la porta, mettermi la chiave in tasca, e piazzarmi tra lui e la finestra. Non ero un aspirante sposino, e non avrebbe chiamato aiuto. I miei precedenti, che vedevo passare negli umidi occhi di manzo pio, furono probabilmente decisivi.

    Lei – lunga pausa – è una persona – lunga pausa – che, – lunga pausa – ha sofferto – pausa estenuata – molto.

    Il fascicolo era un collage di omissis. I nomi dei genitori erano proprio i nomi, nel senso che mancavano i cognomi. La data di nascita la garantiva ventitreenne di lì a poco, il luogo assicurava invece che non era africana.

    Qui non è detto quel che lei dice, monsignore. Neanche quel che lei non dice, devo ammettere.

    I genitori – pausa – sono persone – stringeva il bordo della scrivania come ne temesse il decollo – importanti.

    Sempre. Onoriamo il padre e la madre.

    Voglio dire… Forse in realtà non voleva. Così posai alcune parti di me sulla stessa scrivania, che non decollasse, in modo da posare anche un piede sul ginocchio destro di lui, che cominciò a volere un po’ di più: La loro identità è coperta dal segreto.

    Lo sospettavo.

    Neppure io li conosco!

    Lei accetta pensionanti figli di ignoti?

    Mi è stata imposta! Abitualmente mentiva come respirava, ma l’indignazione improvvisa aveva quasi cancellato l’indomabile paura.

    Da chi? Chi mai dispone della sua volontà e dei suoi sentimenti, reverendissimo?

    Una persona… una persona…

    Non me lo dica: una persona importante!

    Su questo punto sentiva in gioco la propria credibilità, quella dell’istituto, e soprattutto i finanziamenti: Un Cardinale!

    Non mi dica che abbiamo tra noi una nuova Lucrezia Borgia!

    Non è lui il padre! Non toccare la gerarchia! Il padre è il fratello!

    Monsignore! Mi sta prospettando uno scenario sconvolgente!

    Non fare l’idiota! La mia oltraggiosa insinuazione era una muleta rossa agli occhi stravolti del rispettoso manzo. Il fratello del Cardinale è il padre della ragazza! E la madre è figlia di un sottosegretario!

    E con tutto quel potentato alle spalle è finita qui?

    Non hanno potuto tenerla con sé…

    Cioè con loro, i genitori?

    Sì! No! Non hanno potuto…

    Come lo sa, se non li conosce? Come sa che lei ha sofferto tanto? Avevo assunto un’aria pesantemente scettica.

    Me lo ha detto il Cardinale.

    Quando è inutile insistere lo capisco, a volte. C’era una storia non banale. Lei era lì. Bastava.

    Era venuta a vivere, camminandoci sopra, tra la metafisica e il romanticismo che nelle aule cibavano gli intellettuali in sofferto cammino, tra le maioliche severe dei bagni che testimoniavano per messaggi palesi il cammino e la sofferenza, quando gli intellettuali si fermavano per brevi attimi, i bagni femminili non meno che gli altri.

    Camminava sopra i dibattiti culturali e politici nei quali la sofferenza assumeva i colori della vita vissuta, grazie ai sussidi didattici che non erano disponibili nelle aule o nei bagni.

    La compagnia si radunava al completo il sabato sera nel salone, per lo happening che costituiva la sacrificale cerimonia sinottica dei riti settimanali così religiosi come laici, completamento e coronamento dell’educazione dei fanciulli, secondo che suona, o suonava, o suonerà il dettato costituzionale. Dalla vasta poltrona a schienale alto il prete dirigeva la faticata ascesa di tutti verso i picchi dell’autocoscienza, aggrappata alle piccozze, o forse le ferrate, dell’automotivazione. Federico, cominciamo da te. Come si è sviluppato, questa settimana, il tuo rapporto con gli spinelli?

    Federico. Il solo capace di vedersi come Tristano che pianta la spada in terra di fronte a Isotta che lo guarda, per provare la trascendenza indefettibile dell’amore che attenderà la donna quando sarà stata regalata ai lebbrosi, lebbrosa lei stessa. La donna, naturalmente, era Elisabetta.

    I meglio informati dicevano che proveniva da un bordello infantile scoperto nel centro di Roma, in un palazzo secentesco, che, naturalmente, era stato un convento, e che, naturalmente, era frequentato dalla politica e dallo spettacolo. Da bordello, naturalmente, non da convento.

    Dicevano pure, e qui le versioni divergevano, che era stata rapita dagli zingari all’uscita dell’asilo, i quali zingari l’avevano venduta a tale benemerita istituzione, che si copriva dietro la facciata di un istituto religioso per orfanelli, e i genitori erano morti prima che fosse colà ritrovata, oppure che fosse figlia di reale famiglia zingaresca polacca con sangue ebraico nelle vene, cagion necessaria e sufficiente della selvaggia bellezza, ferina secondo altri, sottratta all’accattonaggio dal provvidenziale intervento delle forze dell’ordine, dall’intervento delle provvidenziali forze dell’ordine secondo altri, e in ogni caso da esse medesime provvidenzialmente affidata al medesimo istituto. Mi piaceva la seconda, anche se taluno garantiva di aver trovato la prima documentata su un rotocalco. Ma tutto ciò non ha importanza.

    Divago e svario, perso dietro il dolore inutile della memoria coperta di funghi marci, mangiata dagli scarafaggi, incapace di scuotere via le pulci per rimettersi in viaggio.

    Elisabetta dai capelli corvini come gli occhi che apparivano sempre irridenti senza malizia o intenzione. Dal corpo sottile e sontuoso che rendeva tutti stornellatori. Qual possa, qual desio ti generò, candida etiope giovinetta imberbe, qual driade ninfa a le tue forme acerbe le curve opime splendida prestò?

    Con tutte le cose che ho dimenticato, con tutte le cose che imputridiscono nello stagno di detriti indistinti, dentro la melma che li stratifica, proprio queste sono condannato a ricordare come se me le avessero scolpite nel cervello? Si può dire imberbe di una ragazza?

    Elisabetta interveniva sempre dopo che Federico aveva parlato, o magari prima.

    Lo fece anche questa volta. Io non penso nemmeno agli spinelli o alla coca, quando uno mi scopa more ferarum (studiava anche latino) a colpi violenti strattonandomi i capelli e mi urla ti faccio morire bestia maledetta! mi sento forte come una bestia feroce, libera come una bestia feroce che sbrana un bambino. Si divertiva a portare allo schianto la tensione disperata di lui, con l’assoluta innocenza della bambina che gioca a fare le torte di sabbia, e nessuno le mangia, quindi non fanno male a nessuno.

    Questa è sindrome masochistica da manuale. Con la complicanza dell’aspetto intellettual-morale, per la quale godi nell’essere umiliata, oltre che asservita. Parlavano per primi, come è logico, quelli che non avevano bisogno di perdere tempo a pensare. Certezze gnoseologiche, psichiatriche, socioletterarioproctologiche inattaccabili come slogan pubblicitari. Siamo il sesto paese più ricco del mondo…

    Come al solito non hai capito. Una scossa stizzita della testa, scoperti i denti. Potevo quasi vederla pestare i piedi. Quando l’ho portato a spasso al guinzaglio per farlo litigare con gli altri cani gli butto un osso per guardarlo che si sente il padrone di casa. Poi lo guardo quando capisce di essere una delle carcasse che non sto a contare, e sente la sua puzza. Vuoi provare anche tu?

    A questo punto, o poco dopo, quando arrivava la postilla Sììììì sbranami tutto, mia belva!, il direttore psico-spirituale, o che pensasse di aver diretto il dirigibile, o che accettasse di non poter dirigere un accidente, non da ciò dipendeva la convenzione finanziaria con la Regione, comunque si azzittiva, lasciando che il pragma si rovesciasse da plurime bocche vocianti, da mani gesticolanti, dal prosieguo delle relazioni interpersonali in tal modo avviate, qual marcia trionfale. Si mordicchiava meditabondo l’interno delle guance, e si dedicava al cognac. Ma quella sera la recita sarebbe stata arricchita da varianti davvero irripetibili. One evening show.

    Quanto a me, ero finito in quella corte dei miracoli abortiti uscendo dal riformatorio su un cellulare. Stando dentro, e non avendo niente di più eccitante da fare, avevo preso, cioè conseguito, nientemeno che la maturità classica, e non nego che la cosa mi facesse credere un po’ più alto degli italomagrebini che ogni giorno dedicavano almeno un paio d’ore al body building e si confrontavano in pose ipotiroidee.

    Il mio caso intrigava il cappellano con particolare urgenza, dato che prediligeva i dipinti religiosi a base di decollazioni e sangue a schizzi.

    Più prosaicamente forse di quanto sarebbe stato auspicabile, io mi ero limitato a inserire un coltello nel fegato di un tale. Oltre ad aver cercato con puntigliosa attenzione l’organo, per via del suo valore simbolico, ovviamente in ambito antropologico, ci avevo poi, una volta trovatolo, rigirato la lama per qualche secondo, non so se per essere sicuro di sezionare l’arteria epatica o per vedere la sua faccia mentre si afflosciava, bocca aperta senza suono e occhi spalancati su una rivelazione troppo mistica. Quel giorno facevo la parte del guappo, sigaretta storta di traverso e sputacchio facile, ma lui, cravatta blu e scarpe lustre, aveva storto il naso quando una delle scarpe di cui sopra era diventata meno lustra.

    Fin qui, tutto poteva rientrare nell’ordine provvidenziale in cui fluisce la storia con i suoi eterogenei accadimenti, la storia che di solida materia riveste i disegni infiniti e imperscrutabili, ammaestrando i buoni con un trafiletto in cronaca. Ma mi avevano trovato pietrificato sul luogo del delitto, come disse appunto il trafiletto, occupato a guardarmi le mani sollevate all’altezza degli occhi. Il sangue colava dentro i polsini della camicia scura a righe.

    Così almeno raccontavano tutti i trafiletti e anche gli articoli a tre colonne che avevo collezionato, e mi ero adeguato al ruolo che non mi dispiaceva, in mancanza di meglio.

    Manna del cielo, per un giallista, un criminologo, uno psichiatra, o un cappellano. Aveva vinto il cappellano, che sosteneva di essere psichiatra, criminologo e giallista. O forse diceva biblista, uno di quelli che ti spiegano perché il sommo sacerdote prima taglia il prepuzio e poi la gola al re convertito, e quella è la materia, il sangue irrefutabile che traduce in atto la potenza degli imperscrutabili disegni. Il sangue, insomma. gli piaceva, per motivi professionali o per attardato vampirismo intellettuale, e mi mandò in quel famoso posto, diretto da un amico suo, sfruttando un programma di recupero di non so bene chi né a quali fini. Come dicevo, non sono molte le cose che riesco a ricordare con precisione.

    Quella sera.

    Rimanemmo tutti colpiti dalla scena centauresca della bambina che giocava con le torte di sabbia, e con i pupazzi volonterosi che il caso le metteva intorno. Forse per sublimare le varianti figurative che avevano preso ad agitarsi prepotenti nell’immaginario collettivo e in quello individuale, qualcuno accese il giradischi, e cominciarono a sgrondarne meditate lamentazioni su campi di grano rimati con profano, e meno ruspanti e memorizzabili blues.

    Ci spostammo tutti verso il centro del salone, rifornendoci dalle bottiglie che abitualmente costituivano il premio per gli sforzi analitici e per i loro prodotti. Non ci volle molto perché comparissero anche i complementari generi di conforto, e gente pensosa di sé e d’altrui mimasse il ballar lento, davvero lento, con movenze subacquee, gettando ora una giacca, ora una scarpa. In molti casi le mani erano impegnate a reggere Bacco e tabacco, così che i contatti erano demandati in tutto all’anatomia restante, con laborioso zelo e tecnica perizia. Per trovare empiriche soluzioni all’ingombro degli oggetti nella loro multiforme casuale cosalità, alcuni raggiungevano i divani, e riprincipiavano a deporre gli ingombri.

    Elisabetta si districò dai ragni stornellanti, radiosa e noncurante come non vedesse nessuno, disegnando cerchi di un valzer che era la sola a sentire, e si fermò nel mezzo, sotto il cassettone di legno antico dove era accuratamente riprodotta una delle numerose Giuditte che popolano la pittura tra cinque e seicento. Questa, olimpicamente composta, reggeva uno spadone, dritta al par d’esso, e poggiava un piede sulla testa cinerea di quel tale che si era creduto troppo più bello di quanto non fosse, lasciando allo spettatore una gamba di meravigliosa levigatezza, fino a mezza coscia. Elisabetta sarebbe stata più generosa.

    Sorridendo soave a quelli che, smemorati delle lor dame, cominciavano a far cerchio, ondeggiò lentissima la testa. Il moto fluiva come placida corrente alle spalle, al busto, ai fianchi, alle gambe, ai piedi. Forse c’erano candele, necessariamente c’erano candele, o forse un camino acceso, a riflettere negli occhi quel barbaglio che non stava fermo e cercava lo sguardo di ognuno senza vedere, certo di essere visto.

    O forse sto confondendo le immagini di allora con quelle di tanti film che ho visto in seguito, e che rivedo, scolaro

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