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Connessi: come i media attirano e influenzano i giovani: Con la postfazione di Francesco Caggio
Connessi: come i media attirano e influenzano i giovani: Con la postfazione di Francesco Caggio
Connessi: come i media attirano e influenzano i giovani: Con la postfazione di Francesco Caggio
E-book550 pagine7 ore

Connessi: come i media attirano e influenzano i giovani: Con la postfazione di Francesco Caggio

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Info su questo ebook

Con la postfazione all'edizione italiana di Francesco Caggio
Mai come ora i giovani sono immersi nel mondo dei media in costante evoluzione, grazie alla portabilità della tecnologia che mette infiniti canali di comunicazione letteralmente nel palmo delle loro mani. Basandosi su dati e ricerche empiriche che attraversano vari campi disciplinari (e vari continenti), gli autori Valkenburg e Piotrowski esaminano il ruolo dei media nella vita dei giovani, dalla nascita all'adolescenza, affrontando le complesse questioni di come i media influenzano i giovani e cosa possono fare gli adulti per incoraggiare un corretto uso dei media e dei social media.
Questo importante studio esamina sia il lato positivo che quello oscuro dell'uso dei media da parte dei giovani di oggi, compreso i motivi e i modi in cui le loro preferenze cambiano nel tempo. Viene affrontato il tema dei giochi digitali, se utili o dannosi, gli effetti del mettere tablet e smartphone nelle mani dei bambini, l'influenzabilità dei giovani rispetto alla pubblicità online, la legittimità delle preoccupazioni dei genitori e altro ancora.
LinguaItaliano
Data di uscita27 set 2022
ISBN9788832762846
Connessi: come i media attirano e influenzano i giovani: Con la postfazione di Francesco Caggio

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    Anteprima del libro

    Connessi - Jessica Taylor Piotrowski

    Prefazione

    Negli ultimi decenni sono state condotte un gran numero di ricerche per analizzare gli effetti dei vecchi e dei nuovi media sui bambini e sugli adolescenti. Questi studi hanno migliorato notevolmente la nostra comprensione del perché i giovani siano tanto attratti dai media. Ed hanno anche mostrato come i bambini e gli adolescenti possano venire influenzati da essi, sia in maniera positiva che negativa. Connessi è stato pensato per fornire informazioni sulle problematiche e sulle più importanti questioni che riguardano il rapporto tra i media, i bambini e gli adolescenti.

    Connessi affronta i lati più oscuri dei mezzi di comunicazione, come le conseguenze della violenza mediatica e della pornografia. Ma ne esamina anche i lati positivi, quali le infinite opportunità dei mezzi educativi per l’apprendimento, e le potenzialità dei social media nello sviluppo dell’identità. Ogni capitolo fornisce un quadro generale delle teorie e delle ricerche esistenti su una particolare tematica, aggiungendo talvolta anche i risultati delle nostre personali ricerche. Questo libro comprende ricerche sui lattanti (fino ad un anno di età), sulla prima infanzia (1-3 anni), sui bambini in età prescolare (4-5 anni), sui bambini (5-12 anni), e sugli adolescenti (12-19 anni). All’interno di questi raggruppamenti generali per fasce d’età, possiamo a volte fare riferimento ad un sottoinsieme, come ad esempio la preadolescenza (8-12 anni), la prima adolescenza (12-15 anni), e la tarda adolescenza (15-19 anni). Useremo il termine giovani per indicare sia i bambini che gli adolescenti.

    In parte, Connessi si basa su Responses to the Screen (Erlbaum, 2004) di Patti Valkenburg. Inoltre, attingeremo informazioni dal suo libro in olandese (Schermgaande jeugd) pubblicato nel 2014 da Prometheus. Ma, mentre quel libro si concentrava principalmente su dati olandesi, questo volume amplia a livello internazionale e aggiorna sia la ricerca che le tipologie dei media e degli strumenti. Tra parentesi, quest’ultimo passaggio si è dimostrato meno difficile di quanto ci aspettassimo, perché i gusti dei giovani nei paesi occidentali sono notevolmente omogenei. Ad esempio, un cartone animato o un videogioco popolare negli Stati Uniti sarà molto probabilmente popolare anche nelle altre nazioni occidentali.

    Intendiamo questo libro, così come quelli precedenti di P. Valkenburg, come uno strumento divulgativo pensato per chiunque sia interessato ad uno studio sui bambini, gli adolescenti e i media. Siamo molto riconoscenti alla Yale University Press per averci dato l’opportunità di pubblicare un libro in open-access la cui versione online è disponibile gratuitamente per gli studenti e i ricercatori in tutto il mondo. Ci auguriamo che vi divertiate a leggerlo quanto noi ci siamo divertite a scriverlo.

    1. I giovani e i media

    Ora, qui, per restare nello stesso posto, devi correre più velocemente che puoi. Se vuoi arrivare da qualche parte, devi correre due volte più veloce.

    Lewis Carroll, Alice attraverso lo specchio (1871)

    Nel corso degli ultimi decenni sono stati realizzati migliaia e migliaia di studi sugli effetti dei media sui giovani. Eppure, quasi paradossalmente, c’è ancora molto da capire. In parte, le lacune nelle nostre conoscenze sono imputabili ai mutamenti estremi che si sono verificati nell’utilizzo di media da parte dei giovani. Negli anni ’90, bambini e adolescenti trascorrevano in media quattro ore al giorno davanti ai media; oggi queste cifre sono schizzate ad una media di sei (per i bambini) e nove ore al giorno (per gli adolescenti).¹ In effetti, i bambini e i ragazzi di oggi passano più tempo sui media che a scuola. E infatti tendiamo ad essere meno preoccupati per ciò che imparano a scuola rispetto a ciò che assorbono nelle molte ore che trascorrono davanti a tutti questi schermi.

    Oltre che dall’aumento significativo del tempo di utilizzo dei media, le lacune della nostra conoscenza sono causate dai cambiamenti radicali e repentini del panorama mediatico. I nuovi media e le nuove tecnologie si sviluppano e si rimpiazzano l’un l’altro ad un ritmo vertiginoso; i social media di cui abbiamo esaminato il funzionamento non molto tempo fa ora sembrano vecchi quanto Matusalemme. Nel 2015 praticamente tutti gli adolescenti avevano un profilo Facebook, eppure anche un colosso come Facebook deve impegnarsi continuamente al massimo per rimanere al passo nella competizione e non perdere i suoi utenti a favore di qualche piattaforma più nuova e più invitante come Snapchat, Taptalk, e via dicendo. In effetti, l’epigrafe tratta da Alice attraverso lo specchio corrisponde a verità: nel moderno panorama mediatico, dobbiamo correre più velocemente che possiamo solo per rimanere nello stesso posto.

    I mutamenti di questo panorama mediatico sono dovuti non solo alla nascita di nuovi media, ma anche al cambiamento nel modo di utilizzo dei media tradizionali. I giovani, e anche gli adulti, oggi guardano la televisione in maniera differente rispetto a dieci o venti anni fa. Guardano più programmi online, registrando ciò che preferiscono guardare più tardi, spesso utilizzando un secondo schermo durante la visione per poter commentare un determinato programma, per evitare le pubblicità, o per comunicare con altre persone. Una serie tv come Pretty Little Liars non viene più guardata quando viene messa in onda; ora si preferisce guardarla seguendo i propri ritmi, e molte volte facendo una maratona di più ore di binge watching attraverso le piattaforme di streaming come Netflix o Apple TV sulla propria televisione, sul tablet o sullo smartphone. E anche se la maggior parte degli adolescenti è ancora interessata alle notizie di attualità, più di quanto a volte pensino gli adulti, guardare il telegiornale della sera e comprare il giornale (cartaceo) sono ormai cose del passato. Gli adolescenti si sono trasformati in una sorta di nomadi dell’informazione: la stragrande maggioranza di essi (93%) recupera le notizie da numerose fonti sia online che offline, a seconda di quale sia quella più conveniente sul momento.²

    Anche il contesto commerciale che ruota attorno ai giovani sta subendo dei cambiamenti sostanziali. I tradizionali spot televisivi hanno perso la loro posizione predominante; la discreta pubblicità da trenta secondi non risulta più essere il modo migliore per raggiungere i più giovani. Invece, i pubblicitari sono stati costretti a creare e migliorare altre forme di pubblicità, molte volte più nascoste, come il product placement e gli advergames. Il James Bond di oggi ordinerà volentieri una Heineken, così come il Don Draper di Mad Men un Canadian Club Whiskey, cosa che, secondo i produttori, ha incrementato le vendite di whiskey tra gli adolescenti. E, grazie al marketing crossmediale, Dora l’Esploratrice è qualcosa di più che una serie televisiva: ci sono app di Dora, videogiochi di Dora, pupazzi di Dora, copri-piumino di Dora, e siti di Dora in dozzine di lingue diverse.

    Poi, esiste tutto il vasto universo dei videogiochi. Negli anni ’90, il mondo dei videogames era considerato stretto appannaggio degli adolescenti di sesso maschile, ma esso si è progressivamente allargato fino a comprendere giovani e adulti, maschi e femmine. Dieci anni fa, parlando di videogiochi, la prima immagine che ci sarebbe venuta in mente sarebbe stata quella di un computer o di una consolle Nintendo o PlayStation; e probabilmente ci sarebbero venuti subito in mente giochi del tipo Street Fighter, Super Mario, o Counter-Strike. Se invece pensiamo ai giochi di oggi, il nostro primo pensiero andrà a Pokémon GO, o a Candy Crush - giochi che possono essere giocati sugli smartphone o sui tablet. Internet e la tecnologia touchscreen hanno profondamente influenzato il mondo del gaming.

    Possiamo notare come anche i bambini molto piccoli giochino sugli smartphone dei genitori, e come il divario di genere si stia modificando, in quanto anche le bambine trovano il loro spazio di gioco in vere e proprie realtà virtuali come Club Penguin o Neopets. In generale, tutto il mondo dei videogiochi virtuali sta vivendo un picco di popolarità: per esempio, Minecraft è una tra le app di maggior incasso di tutti i tempi. Questa aumentata accessibilità ai giochi grazie alle piattaforme touchscreen, insieme all’utilizzo di app freemium (cioè di applicazioni scaricabili gratuitamente e che guadagnano dalla pubblicità e dagli acquisti in-app), sta facendo molta concorrenza alle case produttrici di videogames tradizionali.

    Interesse accademico sui giovani e i media

    Di pari passo con questi mutamenti strutturali nello scenario dei media, il rapporto tra i giovani e i media ha acquisito grande importanza in ambito accademico, attirando l’interesse di sempre più discipline scientifiche. Solo nel campo della psichiatria e della medicina pediatrica, si possono trovare innumerevoli studi sugli effetti dell’utilizzo dei media sull’aggressività, sul disturbo da deficit di attenzione e iperattività (ADHD), e sull’obesità. I neurologi stanno analizzando se l’uso dei media provochi effettivamente dei cambiamenti nelle aree del cervello responsabili dell’aggressività, della percezione dello spazio e delle abilità motorie; la sociologia sta studiando invece le dinamiche delle culture giovanili e il comportamento degli adolescenti sui social network.

    La ricerca sui giovani e i media richiede un approccio interdisciplinare che integri conoscenze e teorie di diverse discipline. Dopo tutto, per poter comprendere pienamente l’effetto dei media su bambini e adolescenti, dobbiamo conoscere le teorie sui media in generale così come quelle sullo sviluppo cognitivo e socio-emotivo dei giovani, dato che questo sviluppo influenza il loro modo di utilizzare i media e gli effetti che ne conseguono. Dobbiamo familiarizzare con gli studi sul contesto sociale del bambino, ossia la famiglia, gli amici e la cultura giovanile, poiché grazie a tali fattori è possibile prevedere in buona parte la natura degli effetti dei media.

    Sono due i principali settori interdisciplinari che si sono occupati delle ricerche su giovani e media già a partire dagli anni ’60: gli studi culturali e la psicologia dei media. Entrambi questi campi fanno parte delle scienze della comunicazione. Gli studi culturali, che rientrano nella grande tradizione delle scienze della comunicazione, sono nati con la Scuola di Francoforte negli anni ’40. Questo settore si occupa del significato della cultura popolare nella vita quotidiana, facendo uso principalmente di teorie e metodologie derivate dallo studio della letteratura, della storia, della sociologia e dell’antropologia. Il metodo empirico è solitamente di ordine qualitativo e induttivo (per esempio tramite colloqui approfonditi o gruppi di discussione). I ricercatori si focalizzano su interrogativi che rientrano nella tradizione critica, ad esempio se bambini e adolescenti abbiano o meno lo stesso accesso degli adulti ai media e alla tecnologia, o come le minoranze, ad esempio gli omosessuali o i gruppi etnici, vengano raffigurate nella cultura popolare rivolta ad un pubblico giovane.

    Il secondo settore interdisciplinare, nonché quello di cui fa parte la nostra ricerca, è la psicologia dei media. La ricerca in questo campo ha guadagnato slancio negli anni ’60 grazie al famoso studio di Albert Bandura sull’effetto della violenza televisiva.³ La psicologia dei media si occupa dell’utilizzo, della capacità di attrazione e delle conseguenze che i media hanno sull’individuo. Solitamente essa si basa su metodologie di ricerca quantitative e deduttive, come esperimenti, sondaggi e ricerche longitudinali. I ricercatori di questo campo, così come quelli degli studi culturali, si avvalgono di teorie estrapolate da diverse discipline. Si occupano principalmente di scienze della comunicazione, ma anche di psicologia ed educazione.

    La ricerca interdisciplinare sui giovani e i media ha avuto una grande evoluzione nel corso degli ultimi decenni. All’inizio degli anni ’90 erano pochi gli studiosi che si interessavano della tematica dei giovani e i media in maniera empirica e quantitativa; la maggioranza si concentrava sugli effetti nocivi della televisione su aspetti quali l’aggressività, la lettura, lo svolgimento dei compiti, o la creatività. Alcuni si interessavano anche delle conseguenze positive di programmi educativi come Sesame Street, ma era un tipo di ricerca poco diffuso. Oggi sono centinaia gli accademici che, in tutto il mondo, si occupano delle varie tematiche riguardanti l’interazione tra giovani e i media. Essi si trovano di fronte ad un numero di interrogativi sempre crescente: i teenager stanno diventando sempre più narcisisti a causa della rappresentazione di sé su Internet? Il gaming online induce dipendenza da gioco? Quanto è diffuso il cyber bullismo? Che effetti ha la pornografia online su bambini e adolescenti? Come comportarsi di fronte alle migliaia di applicazioni educative per bambini in età prescolare presenti nell’Apple Education Store? Come possiamo insegnare ai giovani a gestire le tentazioni da cui sono costantemente bombardati nelle pubblicità all’interno di giochi e social media?

    Anche se ci sono molte cause sociali che hanno contribuito al radicale aumento di questo interesse accademico nei confronti dei giovani, sono tre quelle che hanno svolto un ruolo particolarmente rilevante. La prima è la pubblicità mediatica rivolta ai giovani. Negli Stati Uniti, dove la televisione è commerciale sin dalla sua creazione, gli studi sulla pubblicità rivolta ai bambini sono cominciati già negli anni ’70. Al contrario, nei Paesi Bassi non esisteva una televisione commerciale, e quindi neanche studi sui suoi effetti, fino al 1989, quando venne creata la prima rete televisiva commerciale. Da allora, i canali pensati appositamente per i bambini spuntarono come funghi, e non molto tempo dopo, durante un popolare show mattutino, furono inserite più di 113 pubblicità. Questa drammatica impennata nella pubblicità per bambini fu osservata in molti dei paesi industrializzati, e portò all’avvio di uno studio sperimentale sul rapporto tra i giovani e la pubblicità. Per esempio, i ricercatori si concentrarono sul cosiddetto host selling, cioè quando popolari eroi dei bambini o famosi presentatori per l’infanzia pubblicizzavano liberamente prodotti dannosi per bambini nei loro programmi. Sebbene in principio questo tipo di pubblicizzazione fosse permessa, le ricerche misero ben presto in luce le questioni etiche che ne conseguivano, svolgendo quindi un ruolo chiave nella proibizione di questo tipo di pratica in tutto il mondo.

    La fine degli anni ’90 vide un secondo importante cambiamento nel panorama mediatico, che richiese una nuova prospettiva scientifica sperimentale: lo sviluppo dei media rivolti ai più piccoli, i bambini di uno e due anni. Messo in onda per la prima volta nel 1997, il grande successo della BBC Teletubbies aprì gli occhi alle grandi multinazionali come Disney e Fox International, che realizzarono ben presto l’enorme potenziale lucrativo dietro a questa fascia demografica in pannolino. In seguito, iniziarono a rivolgersi ad un pubblico ancora più giovane - perfino bambini di tre mesi - con Baby Einstein e Baby TV. La nascita di questi media diretti ai lattanti rinnovò, specialmente negli Stati Uniti, il dibattito sulla questione: è giusto mettere bambini tanto piccoli davanti alla televisione?

    Per dare una risposta a queste preoccupazioni, l’Associazione Pediatrica Americana pubblicò un documento informativo che raccomandava ai genitori di tenere i bambini sotto ai due anni di età lontano dagli schermi televisivi. Questa raccomandazione in qualche modo conservatrice fu il risultato della mancanza di una sufficiente conoscenza scientifica sull’utilizzo dei media da parte di bambini così piccoli. Ma fu in molti casi interpretata come una velata conferma del fatto che l’accesso ai media per i bambini sotto i due anni fosse effettivamente dannoso - una tacita convinzione che continua a pervadere molte delle discussioni sull’argomento bambini e media.

    Questa disputa tra i pediatri e gli interessi commerciali ha portato a nuove ricerche su giovani e media; come vedremo più avanti in questo libro, finora non sono state trovate prove che l’esposizione a media adeguati al giusto livello di sviluppo sia dannosa per i bambini piccoli. Ma è stato invece dimostrato che i media sbagliati, o la presenza di media di fondo non pensati per un pubblico così giovane, influenzino negativamente sia la concentrazione che la capacità di gioco di fantasia.⁴ Ancora oggi la ricerca si concentra sugli effetti della televisione sulla fascia demografica più giovane, sebbene si sia allargata per includere anche i videogiochi e, dal 2010, le app.

    L’alba del nuovo millennio ha visto sorgere una terza tendenza, che ha irrimediabilmente stravolto il campo di ricerca sui giovani e i media: i social media. I timori sollevati dai social sono stati maggiori di quelli legati alla televisione e ai videogiochi. Oltre al timore di esporre i bambini alla violenza, al sesso, o a contenuti che potrebbero spaventarli, i social media hanno aggiunto la questione delle interazioni sociali online: i social media faranno sì che i bambini crescano più soli, incapaci e senza controllo dal punto di vista sessuale? I social favoriscono il bullismo in rete? Il primo studio sugli effetti di Internet sul piano sociale fu pubblicato negli Stati Uniti nel 1998. Lo studio non analizzò i reali effetti di Internet, poiché nel momento dell’acquisizione dei dati pochissime famiglie vi avevano effettivamente accesso. In quel periodo, Internet era soprattutto dominio dei primi utenti, e solo una piccola percentuale di bambini si trovava online.⁵ L’opinione pubblica si interessò a Internet solo verso il 2002, quando le percentuali di accesso crebbero sensibilmente, e la maggior parte dei giovani americani ed europei si trovava online. I risultati di questi studi mostrarono un’immagine più complessa di quanto ci si aspettasse, cosa che portò i ricercatori a porsi più interrogativi sui social media, ad esempio sull’influenza di questi ultimi sull’autostima, le competenze sociali, i comportamenti sessuali online a rischio, e il cyber bullismo.

    Negli ultimi anni, la questione dei giovani e i media si è diversificata sempre di più. Se la ricerca sperimentale degli anni ’90 era stata condotta tra bambini in età prescolare e scolare, la nascita di questi nuovi media ha aggiunto due ulteriori fasce di età: la prima infanzia, come conseguenza dei canali dedicati ai più piccoli, e gli adolescenti, a causa dei social network. Questo ampliamento della fascia d’età interessata ha reso il campo di ricerca più interdisciplinare, dato che, specialmente per gli ultimi due raggruppamenti di età, è quasi impossibile comprendere gli effetti dei media senza tener conto anche del loro livello di sviluppo e del loro contesto sociale, che influiscono grandemente sulla misura e sulla tipologia degli effetti prodotti dai media.

    Oltre a prendere in considerazione bambini e adolescenti con una fascia di età più vasta, gli studiosi hanno ampliato anche il focus delle loro ricerche. Non si concentrano più solo sui rischi potenziali dei media sui giovani ma, come mai prima, riconoscono anche il potenziale positivo che questi media offrono. Per esempio, oltre a domandarsi se un utilizzo precoce dei media possa essere deleterio per lo sviluppo intellettivo, i ricercatori contemporanei cercano di determinare se l’utilizzo anticipato di applicazioni educative possa potenziare l’apprendimento. Con lo stesso spirito, gli studiosi che si occupano di studiare i rapporti interpersonali online sono interessati non solo al cyber bullismo, ma anche alla possibilità che i social network offrano agli adolescenti un luogo sicuro per allenare e sviluppare le proprie competenze sociali. Questo approccio più ampio, che mostra sia le potenzialità positive che negative dei media, parte dal presupposto che i media siano ormai una parte integrante della vita dei giovani. Perciò, il miglior contributo che la ricerca può offrire è l’individuazione delle modalità per assicurare che tali media siano equilibratamente integrati nelle loro vite.

    Contemporaneamente a questo rapido aumento di fasce di età e di tematiche analizzate, il campo accademico che si occupa dello studio dei giovani e i media è divenuto via via più istituzionalizzato. Nel 2007 è stato pubblicato per la prima volta il Journal of Children and Media, una rassegna interdisciplinare che ha avuto grande successo, specializzata sia in studi culturali che in psicologia dei media. Qualche mese dopo, l’International Communication Association (ICA) ha avviato una divisione speciale denominata Children, Adolescents and the Media, che fornisce un’importante piattaforma di discussione, di scambio di idee e ricerche per gli esperti di studi culturali e di psicologia dei media. Con diverse centinaia di membri, questa divisione è diventata una delle più affollate all’interno dell’ICA. Infine, abbiamo osservato il grande successo ottenuto dai vari centri accademici di ricerca in tutto il mondo; per esempio, il Center for Research on Children, Adolescents, and the Media (CcaM) dell’Università di Amsterdam, con cui siamo entrambe associate, ha registrato una crescita enorme, ed è considerato come il più grande centro di ricerca del suo genere. Con più di venti ricercatori che si occupano dello studio di tematiche quali l’utilizzo di più media contemporaneamente, la dipendenza da gioco, il cyber bullismo, e le potenzialità dei media digitali, il CcaM e i centri simili ad esso sono diventati dei poli interdisciplinari per la ricerca sperimentale sul complesso rapporto che lega i giovani e i media.

    Nell’opinione pubblica

    Oggigiorno, troviamo notizie che riguardano i giovani e i media quasi quotidianamente sulle prime pagine dei giornali. Queste notizie hanno quattro caratteristiche comuni: in primo luogo, spesso tendono a concentrarsi più sugli effetti negativi dei media che sui positivi; se c’è sangue, fa notizia e una buona notizia non è una notizia sembrano essere i mantra dei giornalisti che scrivono su quest’argomento. In secondo luogo, le storie di attualità si soffermano di solito su episodi estremi, come il cyber bullismo e gli adescatori sessuali in rete. Terzo, i giornalisti citano frequentemente pareri di esperti quali pediatri o psichiatri per dare una certa credibilità scientifica all’argomento trattato; eppure questi esperti spesso si basano sulla loro esperienza con ragazzi speciali, che non rappresentano cioè il bambino o l’adolescente medio. Infine, la copertura giornalistica delle tematiche riguardanti giovani e media omette volontariamente quelle sfumature proprie della ricerca sperimentale, optando spesso per qualche frase fatta semplicistica e dal tono allarmistico.

    Tale meccanismo fa sì che i libri di divulgazione scientifica che abbiano questa stessa visione negativa attirino molto spesso l’attenzione pubblica. Libri come iBrain dello psicologo americano Gary Small, Demenza Digitale dello psichiatra tedesco Manfred Spitzer, e Insieme ma soli di Sherry Turkle, si appellano a quel timore comune che i nostri figli stiano perdendo la loro innocenza, il loro senso del pudore, la memoria o la capacità di mantenere le loro relazioni sociali a causa delle nuove tecnologie. La preoccupazione riguardo agli effetti delle nuove tecnologie ci accompagna da millenni; l’entusiasmo per il progresso tecnologico va da sempre a braccetto con la paura o persino l’avversione verso questo stesso progresso. Ciò accadeva ai tempi di Socrate, che nell’anno 360 avanti Cristo espresse in un dialogo con Fedro il suo timore (che egli manifesta attraverso il personaggio del re egizio Thamus) che il discorso scritto porti alla perdita della capacità mnemonica negli studenti. Grazie al supporto della parola scritta, sosteneva Socrate, gli studenti non avrebbero più dovuto impegnarsi al massimo per riuscire a ricordare qualcosa da soli, diventando quindi solo apparentemente saggi, e non sapienti davvero: la scoperta della scrittura avrà per effetto di produrre la dimenticanza nelle anime di coloro che la impareranno, perché fidandosi della scrittura si abitueranno a ricordare dal di fuori mediante segni estranei, e non dal di dentro e da sé medesimi: dunque, tu hai trovato non il farmaco della memoria, ma del richiamare alla memoria. Della sapienza, poi, tu procuri ai tuoi discepoli l’apparenza e non la verità (275a-b).

    L’accezione negativa della maggior parte delle notizie riguardanti la ricerca sui giovani e i media può portare alla convinzione comune che i media abbiano principalmente effetti nocivi sui bambini e sugli adolescenti; ma questo non è ciò che emerge dalla ricerca sperimentale sull’argomento. Invece, gli studi non mostrano né un modello distopico, in cui tutti i media sono problematici per i giovani, né un modello utopico, dove i giovani traggono solo vantaggi dai media. Citando danah boyd: "La realtà è sfumata e intricata, piena di pro e di contro. Vivere in un mondo in rete è complicato."⁷ Gli effetti dei media non sono lineari - non tutti i media sono uguali, non tutti i bambini sono uguali, e non tutti i contesti ambientali sono uguali. Alcune ricerche hanno dimostrato che i media possono influenzare alcuni bambini negativamente in determinate situazioni, mentre altre ricerche hanno mostrato il contrario. In questo libro il nostro obiettivo sarà quello di rappresentare tutte le sfumature della complessa relazione che intercorre tra i giovani e i mezzi di comunicazione. Basandoci su ricerche condotte nei paesi occidentali, cercheremo di fornire un resoconto accurato sul ruolo dei media - sia tradizionali che moderni - nelle vite dei giovani di oggi.


    1 Vicky Rideout, The Common Sense Census: Media Use by Tweens and Teens (San Francisco: Common Sense Media, 2015)

    2 Nico Drok e Fifi Schwarz, Jongeren, Nieuwsmedia en Betrokkenheid [Giovani, media d’attualità e impegno] (Zwolle/Amsterdam: Hogeschool Windesheim / Stichting Krant in de Klas, 2009)

    3 Albert Bandura, Dorothea Ross, e Sheila A. Ross, Transmission of Aggression through Imitation of Aggressive Models, Journal of Abnormal and Social Psychology 63, n. 3 (1961)

    4 Marie E. Schmidt et al., The Effects of Background Television on the Toy Play Behavior of Very Young Children, Child Development 79, n. 4 (2008)

    5 Robert Kraut et al., Internet Paradox: A Social Technology That Reduces Social Involvement and Psychological Well-Being?, American Psychologist 53, n. 9 (1998)

    6 Platone, Fedro (traduzione di Giovanni Reale)

    7 Danah boyd, It’s Complicated: The Social Lives of Networked Teens (New Haven, Conn.: Yale University Press, 2014), p.16; in italiano: It’s Complicated:La vita sociale degli adolescenti del Web (Castelvecchi Editore, 2014)

    2. Ieri e oggi

    Il Bianconiglio si mise gli occhiali e domandò: Maestà, di grazia, da dove devo incominciare? Comincia dal principio, disse il Re solennemente, e continua fino alla fine, poi fermati.

    Lewis Carroll, Alice nel Paese delle Meraviglie (1865)

    Cominceremo a riassumere la storia dei media dalla seconda metà del diciottesimo secolo. È il punto di partenza più logico, poiché è il momento in cui compaiono i primi media pensati per i bambini: i libri per l’infanzia. In precedenza i bambini non erano considerati bambini nel senso in cui li intendiamo noi oggi e, se sapevano leggere, leggevano libri per adulti. Questo cominciò a cambiare gradualmente dopo la pubblicazione del famoso libro sull’educazione dei bambini di Jean-Jacques Rousseau, Emilio, o dell’Educazione, nel 1762. Modificando i concetti che la società aveva dell’infanzia e dell’educazione dei figli, cominciarono a cambiare anche le nostre idee su quali media fossero adatti ai bambini. In questo capitolo descriveremo il modo in cui, a partire dal diciassettesimo secolo, le idee della società sui giovani e i media siano state soggette a variazioni costanti, prima da una parte e poi dall’altra. Inoltre, faremo un confronto tra l’ultima generazione e le precedenti. Perché i bambini e gli adolescenti di oggi sono più consapevoli e intelligenti rispetto a prima? Perché la cultura giovanile ha acquisito un tale ruolo predominante nella società? Perché i bambini mostrano comportamenti simili agli adulti sempre più precocemente? Ed infine, qual è il ruolo svolto dai media in questi sviluppi?

    Il bambino come adulto in miniatura

    Sebbene ormai da diversi decenni l’opinione pubblica si interessi all’argomento dei giovani e dei media, i media pensati appositamente per i bambini sono un fenomeno relativamente nuovo, così come lo stesso concetto di infanzia. Infatti, fino alla seconda metà del diciottesimo secolo, non esistevano media dedicati ai bambini, né esisteva una chiara linea di demarcazione tra l’infanzia e l’età adulta.⁸ I bambini erano essenzialmente ritenuti adulti in miniatura, e trattati come tali; per esempio, l’abbigliamento dei bambini non differiva da quello degli adulti. Sia i maschi che le femmine, fino ai cinque anni di età, indossavano dei vestiti che rendessero più semplice l’educazione al vasino.⁹ Successivamente, le bambine indossavano corpetti e i bambini calzoncini al ginocchio. Possiamo facilmente indovinare quale fosse l’atteggiamento dell’epoca nei confronti dell’infanzia guardando i ritratti dei bambini di allora, nei quali non solo i vestiti, ma anche i volti venivano rappresentati come quelli degli adulti.

    Bambini e adulti (quelli che sapevano leggere) leggevano anche gli stessi libri: la Bibbia, i chapbooks (libricini tascabili molto economici, solitamente raccolte di ballate e racconti popolari), e in qualche caso i giornali. I giornalisti del tempo trattavano senza alcuna censura di argomenti come la povertà, le malattie e la morte, nonché l’alcolismo, la sessualità e l’adulterio. I giornali pubblicavano notizie politiche e militari, nonché resoconti di spaventosi disastri naturali, di epidemie di colera e di processi alla stregoneria. I bambini accompagnavano regolarmente i loro genitori sulle piazze di mercato per assistere alle esecuzioni pubbliche e alle punizioni corporali. Per molte famiglie, si trattava di una piacevole occasione di svago, durante la quale la gente sgomitava per avere la visuale migliore di quel che accadeva. Invece di essere cresciuti gradualmente, i bambini venivano semplicemente messi di fronte alla realtà, senza alcuna protezione.¹⁰

    Il bambino indifeso

    La visione del bambino come un piccolo adulto cominciò a mutare nella seconda metà del diciottesimo secolo. Grazie, in parte, alle idee portate dall’Illuminismo settecentesco, soprattutto a quelle di Locke e di Rousseau, i bambini si trasformarono in una fascia d’età considerata vulnerabile, iniziando ad essere considerati importanti e bisognosi di protezione. I giornali, che fino ad allora erano stati in molti casi utilizzati come surrogati a buon mercato dei libri di testo, sparirono dalle aule scolastiche, e i libri di ortografia dai quali i bambini imparavano l’alfabeto vennero integrati con libri per bambini. I pedagoghi dell’epoca ritennero che i contenuti dei giornali non fossero adatti ai bambini. Altri materiali didattici, quali la Bibbia e i libri di fiabe, furono adattati al livello di esperienza del bambino. Le parti inappropriate (come la storia di Daniele e Susanna nella Bibbia, in cui Susanna viene spiata da due uomini mentre fa il bagno) vennero censurate, per non turbare le giovani anime dei bambini. Favole come quella di Cappuccetto Rosso e del Principe Ranocchio, che nella versione originale contenevano scene di sesso e nudità, vennero considerate dannose per lo sviluppo morale del bambino, e pertanto epurate della parte incriminata.¹¹

    Questa censura era perfettamente in linea con i nuovi ideali del diciottesimo secolo e dell’Illuminismo. Rousseau, per esempio, sosteneva che l’uomo fosse buono e innocente di natura, e che le differenze individuali fossero le conseguenze di fattori ambientali. Il contesto sociale in cui un bambino cresceva poteva avere sia un effetto positivo e incoraggiante che un’influenza negativa e corruttrice. Analogamente, secondo Locke, una persona, alla nascita, è una tabula rasa (letteralmente, una lavagna pulita), che si riempie attraverso le esperienze e le impressioni derivate dai sensi. L’educazione e l’istruzione dei bambini, di conseguenza, giocano un ruolo cruciale in questo processo: hanno il compito di scrivere le giuste lezioni su queste lavagne bianche. Come conseguenza della visione illuministica, alle persone veniva richiesto sempre più di tenere sotto controllo i propri istinti aggressivi e sessuali. Gradualmente, ci si cominciò a vergognare degli aspetti fisici della vita; per esempio, i genitori smisero di scambiarsi effusioni tra loro e di carezzare i figli, giacché si temeva in questo modo di esporre i bambini a tentazioni proprie del mondo adulto e quindi minare la loro innocenza.¹²

    La nascita del concetto di infanzia innocente

    Rousseau fu tra i primi ad affermare la necessità per i bambini di crescere liberamente e di essere protetti dalle influenze snaturanti provenienti dal mondo degli adulti. Nell’Emilio, egli sostiene che una parte della vita del bambino dovrebbe concentrarsi sulla crescita in sé - e non sul confronto. Questa crescita, egli ritiene, dovrebbe dare ai bambini l’opportunità di esplorare da soli, senza venire angosciati dalle cure e dalle preoccupazioni del mondo degli adulti. Rousseau credeva che i bambini non fossero recettori passivi degli stimoli provenienti dall’ambiente esterno, ma ricercatori attivi in grado di determinare i modi e i tempi del proprio sviluppo e della formazione dell’identità. Era convinto che più si permetteva ai bambini di avere un’infanzia gioiosa e spensierata, meno questi bambini, una volta adulti, sarebbero stati persone diffidenti ed aggressive.

    Comunque, questa concezione di infanzia come fase gioiosa e spensierata tra la nascita e l’inizio dell’età adulta rimase un privilegio solo dell’aristocrazia e della ricca borghesia. I figli della classe operaia, invece, lavoravano per molte ore nelle fabbriche, nell’industria tessile, nella produzione del vetro e nei calzaturifici. Per gran parte di questi bambini (e dei loro genitori) non era possibile usufruire dei mezzi di comunicazione cartacei: quasi tutti erano analfabeti, e, se anche sapevano leggere, i libri e i giornali erano troppo costosi. I figli della classe operaia avevano un’aspettativa di vita così bassa che la loro educazione consisteva principalmente nell’insegnare loro a sopportare il dolore fisico e nel prepararli ad una morte prematura.

    Queste condizioni cominciarono a mutare con l’inizio del ventesimo secolo: grazie alla progressiva introduzione di leggi a sfondo sociale, come il divieto del lavoro minorile e l’obbligo scolastico, il concetto di infanzia spensierata iniziò a diffondersi in tutte le classi sociali. I bambini venivano salvaguardati dalla crudezza della realtà quotidiana; argomenti come il parto, la morte, la sessualità e il denaro non venivano discussi di fronte a loro. I media cartacei destinati ad essi consistevano prevalentemente in racconti morali privati di ogni accenno agli argomenti tabù. Nei libri per bambini, le cattive azioni erano al massimo innocenti birichinate. Vi erano delle regole chiare e severe che stabilivano cosa i bambini di una certa età potessero o non potessero sapere. Anche i castighi severi furono mitigati, poiché apparivano in contraddizione con l’immagine sempre più diffusa del bambino come creatura dolce e indifesa.

    L’adulto in miniatura ritorna

    Nella seconda metà del ventesimo secolo ci fu un ritorno alla concezione precedente, per cui l’idea del bambino indifeso venne messa sempre più in discussione. In particolare, sul finire degli anni ’60, crebbe la sensazione che ci fosse qualcosa di sbagliato nel proporre ai bambini questa visione illusoria di un mondo protetto e sicuro, e che invece fosse meglio porli di fronte alla realtà, così che potessero essere consapevoli del vero stato delle cose nel mondo che li circondava.¹³ Questa nuova visione venne alimentata, da un lato, dalla nascita dei movimenti di liberazione guidati dai giovani, come quello degli hippies, che manifestavano contro la mentalità borghese e rivendicavano il proprio posto nella società. Fu anche corroborata dalla crescente commercializzazione della cultura giovanile per mezzo della musica, della moda e dei media, la cui azione congiunta garantì ai giovani una posizione sempre più rilevante nella società.

    Negli anni ’70 gli argomenti in precedenza ritenuti tabù, come la sessualità, la morte e il divorzio, diventarono nuovamente accettabili nei media rivolti ai giovani. Si può osservare questa inversione di tendenza analizzando la letteratura per l’infanzia del periodo, che vede la nascita di un nuovo genere: i libri incentrati su problemi reali. La letteratura per ragazzi, secondo gli esperti dell’epoca, doveva essere attinente al mondo reale. Il risultato fu che moltissimi dei libri appena pubblicati affrontavano tematiche sociali quali l’omosessualità, l’incesto, il divorzio, il razzismo, l’abuso di droghe, e le malattie incurabili.¹⁴ I libri per bambini iniziarono a comprendere anche un aspetto antimoralista, esemplificato dalle creature dispettose che popolano i libri dell’autore americano Dr. Seuss. Divennero popolari fumetti che comprendevano personaggi poco raccomandabili seduti a bere in bar fiocamente illuminati, così come fumetti con protagonisti bambini forti ed indipendenti (Tintin, per esempio, l’eroe che dà il nome alla popolare serie di fumetti belga).

    Critiche all’adulto in miniatura

    Questa idea che il bambino dovesse affrontare direttamente il mondo degli adulti non fu priva di conseguenze. A partire dagli anni ’80, autorevoli psicologi infantili e critici culturali osservarono (più o meno nello stesso momento) una serie di mutamenti significativi nell’ordine sociale (ossia nella prevedibilità o meno del rapporto tra gli individui e le istituzioni sociali). Uno dei loro argomenti principali era che i bambini venivano trattati troppo poco da bambini e che, di conseguenza, il concetto stesso di infanzia rischiava di sgretolarsi. Lo psicologo infantile David Elkind fu uno dei primi ad esprimere questa opinione, ne The Hurried Child: Growing Up Too Fast Too Soon (1981).¹⁵ Sosteneva che i bambini venissero messi sotto pressione affinché uscissero in fretta dall’infanzia, diventando adulti troppo presto e troppo velocemente. La pseudo-sofisticazione, che deriva dal forzare i giovani in situazioni per cui non sono emotivamente pronti, affermava, può portare a stress, insicurezze, depressione e aggressività.

    Proprio mentre gli psicologi infantili stavano cominciando a porsi in controtendenza all’approccio del bambino come adulto in miniatura, analoghe riflessioni giunsero anche dalle scienze della comunicazione. l critici culturali Joshua Meyrowitz e Neil Postman, per esempio, osservarono entrambi che l’infanzia come fenomeno stava quasi scomparendo.¹⁶ Secondo gli autori, i bambini erano esposti ad un tipo di informazioni che era stato loro tenuto nascosto per secoli; ed entrambi gli studiosi avevano osservato una radicata omogeneizzazione di giovani e adulti; infatti, bambini e adulti si stavano comportando in maniera molto simile per quanto concerneva l’abbigliamento, il linguaggio, la gestualità, e nei gusti in fatto di contenuti multimediali. Di conseguenza, il confine tra bambini e adulti sembrava essersi offuscato o, come sosteneva Meyrowitz, poteva essere addirittura scomparso:

    È sufficiente fare una semplice passeggiata per strada o in un parco per rendersi conto che è finita l’era in cui ci si vestiva in modo diverso a seconda dell’età di appartenenza. Così come certe volte i bambini si vestono in giacca e cravatta o con abiti d’alta moda, altrettanto fanno gli adulti che si vestono come bambinoni: jeans, magliette di Topolino o di Superman, scarpe da ginnastica. […] Bambini e adulti si comportano anche in maniera sempre più simile. Persino un osservatore casuale può notare la crescente omologazione della postura, del modo di sedersi e della gestualità. Non è insolito vedere adulti che in pubblico stanno seduti per terra a gambe incrociate, o impegnati in giochi da bambini.¹⁷

    Questa omogeneizzazione di bambini e adulti, affermavano i critici, poneva una eccessiva pressione nel rapporto genitori-figli. Secondo Postman, la struttura della famiglia e la posizione di autorevolezza dei genitori veniva severamente indebolita dal fatto che i genitori avevano ormai perso il controllo sulle informazioni che potevano raggiungere i figli.¹⁸ Inoltre, dal momento che i genitori erano diventati più inclini ad ammettere i loro errori e le loro lacune, la relazione con i figli diveniva sempre più democratica. Secondo Meyrowitz, i ruoli specifici potevano essere mantenuti

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