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Seppelliamo Re Edward
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E-book192 pagine2 ore

Seppelliamo Re Edward

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Fantascienza - romanzo (148 pagine) - Siamo nel 1954: la giovane giornalista olandese Anna Frank gira l’Europa intervistando i protagonisti della politica: Benito Mussolini, padre-padrone dell’Italia fascista, sulla via del pensionamento, e Adolf Hitler, aggressivo e rancoroso capo dell’opposizione al Parlamento tedesco


Nel 1973 Seppelliamo re John agitò le acque della fantascienza italiana; era uno dei primi romanzi ucronici nostrani e, come venne rilevato da un’associazione per i diritti degli omosessuali, il primo a mostrare un co-protagonista di sesso assolutamente indefinito, proveniente da un’epoca futura in cui la sessualità umana può liberamente disporsi in qualunque punto di una scala tra 0 e 100. A cinquant’anni di distanza quel personaggio, l’uomo del 64° secolo chiamato Jeffeline, torna protagonista di una storia ad altissima tensione che vede un mondo parallelo nato da un POD (Point of Divergence) centrato sulla distruzione di Londra nel 1908. Da quell’avvenimento è nata una linea temporale alternativa con una Europa assai diversa in cui, ad esempio, nel 1954 il fascismo è tuttora al potere e Hitler è ancora vivo ma non ha sconquassato il mondo; è semplicemente il capo dell’opposizione al Bundestag. Ma la situazione è tutt’altro che stabile e i possibili presenti e futuri continuano ad agitarsi…


Pier Francesco Prosperi (Arezzo 1945) è uno dei più affermati scrittori italiani di fantascienza, ucronia e fumetti. Dopo aver esordito nel 1960 su Oltre il cielo ha pubblicato oltre 140 racconti, usciti su tutte le principali testate e in varie antologie (tra le ultime anche Rapporti dal domani e Il ritorno dei grandi antichi, Delos Digital) e una quarantina di romanzi. Nel fumetto ha scritto per Intripido, Il monello, Lancio Story, Topolino, Martin Mystère, Diabolik. Ha vinto il Premio Italia e il Premio Europa nel 1972, nella prima edizione dell'Italcon e Eurocon a Trieste, e ha rivinto il Premio Italia nel 1994 col romanzo Garibaldi a Gettysburg. Ha vinto inoltre Il premio Città di Montepulciano, il Premio Cosmo, il Premio Ungaretti, il Premio San Marco (tre volte) e il Premio Giallocarta.

LinguaItaliano
Data di uscita18 ott 2022
ISBN9788825422016
Seppelliamo Re Edward

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    Anteprima del libro

    Seppelliamo Re Edward - Pierfrancesco Prosperi

    Introduzione

    Cinquant’anni fa abbiamo sepolto re John

    Cinquant’anni fa abbiamo sepolto re John. Correva il 1973 e la benemerita Casa Editrice La Tribuna di Piacenza (CELT per gli iniziati), sotto l’esperta ed appassionata guida di Vittorio Curtoni e Gianni Montanari, dava alle stampe il mio secondo romanzo, dopo il successo (credo si possa dire) di Autocrisi (CELT 1971) che l’anno prima si era portato via, al Festival di Trieste, il primo Premio Italia che sia mai stato assegnato, e il Premio Europa ex aequo.

    Ricordo che venne recensito favorevolmente anche dal – Corriere della Sera. – Seppelliamo re John era un romanzo ucronico complesso, in cui (approfittando dei tempi dilatati del servizio militare, come ammisi in modo irriverente nella dedica iniziale) avevo fuso due tra i temi che più mi appassionavano, l’assassinio di J.F. Kennedy, cui avrei poi dedicato l’unico saggio storico da me scritto, La serie maledetta (Armenia 1980) e l’affascinante problema dei viaggi nel tempo e degli universi paralleli.

    Sia Autocrisi che Seppelliamo re John sono stati poi ripubblicati su – Urania – tra il 2008 e il 2011. E come qualche anno fa ho ceduto alla tentazione di dare un seguito al primo (Autocrisi3, Delos 2021), così adesso mi sono trovato a riprendere temi e idee del secondo per dare vita a una vicenda assolutamente contemporanea, avente come coprotagonista uno dei personaggi-chiave del romanzo del 1973, l’Homo Superior del 64° secolo chiamato Jeffeline, viaggiatore nel tempo e demiurgo in grado di modificare il passato.

    In Seppelliamo re Edward il centro della narrazione è la metropoli londinese. Senza spoilerare troppo anticiperò che in questa nuova ucronia la misteriosa cosa che il 30 giugno 1908 si abbatté sulla remota regione siberiana della Podkamennaya Tunguska, devastandola, colpisce invece il nostro pianeta 6 ore e 44 minuti ore più tardi, centrando il cuore della City. Come conseguenza si crea una nuova linea temporale, in cui il corso del XX secolo assume un andamento completamente diverso non solo in Gran Bretagna, ma in tutta Europa, in primis Germania ed Italia.

    Buona parte del romanzo si dipana quindi in un 1954 alternativo, in cui una giovane giornalista tedesco/olandese di nome Anna Frank, che non ha mai dovuto rinchiudersi con la famiglia in una soffitta di Amsterdam, gira per l’Europa intervistando i potenti, e due agenti segreti italiani appartenenti al Gabinetto RS/33, quello creato da Mussolini nel 1933 per studiare dischi volanti e fenomeni paranormali (perché in questo 1954 il fascismo è tuttora vivo e vegeto e il Duce è tuttora al suo posto, benché un po’ acciaccato) si trovano a contatto con una realtà alternativa in cui Londra è tuttora al suo posto e il regime è caduto nel 1945 assieme a quello nazista; la nostra realtà, in sostanza.

    A parte il prologo, ambientato nel 1908, le vicende del romanzo si svolgono in modo maggioritario nel 1954 alternativo di cui sopra, e in piccola parte in un 2025 molto simile al nostro, ma non del tutto identico. Per agevolare il lettore, ai numeri identificativi dei capitoli sono affiancate delle lettere: A se siamo nel 1954, B per il 2025.

    Pierfrancesco Prosperi

    Prologo

    Sette di mattina del 30 giugno 1908.

    L’ultimo giorno della vita di Hudson Foley inizia esattamente come tutti gli altri.

    Non c’è molto da vedere, al risveglio, nelle celle del braccio della morte della HMP Pentonville, dove HMP sta per Her Majesty’s Prison. Quello che ai tempi della sua inaugurazione, A.D. 1842, era considerato come un carcere modello allunga le sue cinque braccia radiali, simile a una piovra di mattoni, in pieno centro città, nel quartiere di Barnsbury, poco a nord del Tower Bridge. Da pochi anni, esattamente dal 1902, quando si è cessato di tirare il collo ai criminali nel carcere di Newgate, è diventato anche sede di esecuzioni capitali. Sono state aggiunte celle per i condannati, come quella in cui si trova Foley, e una sala per le esecuzioni nuova di zecca, dove è stata trasferita la forca di Newgate.

    Londra la mattina presto. Hudson si è trovato spesso a girare i quartieri centrali della City nella luce incerta dell’alba e nei momenti successivi. Conosce gesti e rumori. I primi omnibus a cavalli che si avviano, con i conducenti a cassetta che ancora non si capacitano di dover dividere l’acciottolato con i nuovissimi tram elettrici che tagliano loro la strada ai crocicchi scampanellando, e peggio ancora con quelle insolenti e puzzolenti vetturette dai motori a scoppio, che strombazzano velocissime pretendendo di infilarsi dappertutto. I grandi magazzini Harrods che tirano su le serrande esponendo nelle vetrine ogni sorta di meraviglie provenienti dai più remoti angoli dell’Impero. Il mercato dei fiori di Covent Garden apre i battenti mentre un odore acre e penetrante di verdura si diffonde sotto le grandi volte vetrate. Pochi isolati più ad ovest, i ristoranti di Piccadilly servono il caffè ai primi clienti mentre camerieri in livrea lucidano i pomi d’ottone dei portoni d’ingresso dei palazzi dell’aristocrazia. Hudson ha impresse in mente queste e tante altre immagini. E sa che quelle scene si ripeteranno con pochissime varianti di lì a ventiquattr’ore. Con una importante differenza: lui non ci sarà più.

    Arrivano distinti i rintocchi del Big Ben, distante in linea d’aria poco più di tre miglia. Uno, due, tre, quattro, cinque, sei…

    Sono settimane che Foley cerca di prepararsi mentalmente alle ore che lo attendono. Sa perfettamente che, a meno di avvenimenti miracolosi tipo l’arrivo di una impossibile grazia, prima del tramonto il suo corpo verrà tumulato in una fossa senza nome nel retro del carcere. E tutto sarà finito.

    L’eco del settimo rintocco si è appena smorzato quando i catenacci della porta iniziano a ruotare lamentosamente. Non riesce a trattenere un brivido nel vedere inquadrarsi, nella luce ancora incerta, la sagoma massiccia del cappellano O’Malley seguito da due guardie, alte e segaligne.

    – Sei pronto, figliolo? – chiede il religioso.

    – Non si è mai abbastanza pronti per questo – replica brusco lui.

    – In questi momenti supremi – riprende il cappellano – l’anima è chiamata a confrontarsi con la grazia incommensurabile dell’Eterno. Hai qualcosa da…

    – No, niente – taglia corto. – Non ho mai creduto che esista qualcosa al di fuori di questa sporca vita. Niente di niente. Perciò facciamo presto.

    A malincuore O’Malley solleva il braccio destro in un gesto che vorrebbe essere benedicente. E resta là, ieratico, come crocifisso, mentre un lampo accecante scaturito dal nulla ne disegna i contorni in negativo, come su una pellicola fotografica.

    Un attimo dopo un tuono feroce che sembra provenire dalle viscere della terra scuote e contorce le pareti della cella che iniziano a disgregarsi. Le due guardie pongono assurdamente le mani sulle fondine delle pistole girandosi a fronteggiare chissà quale nemico. E vengono travolte da una pioggia di pietre e di travi, mentre il rombo devastante le assorda e l’aria fattasi di colpo rovente divora le loro uniformi. Sotto lo sguardo allucinato di Foley il volto rubizzo del cappellano si frantuma in un mosaico di rivoli di sangue. Nell’istante successivo qualcosa di enorme piomba addosso a Foley, lo schiaccia a terra, lo sommerge. Nei brevi secondi che precedono il suo tuffo nell’incoscienza ha la sensazione che l’intero carcere gli stia crollando addosso.

    Sono passati parecchi minuti, o forse ore, quando riapre gli occhi. Attorno è buio, e un caldo feroce. Pare di essere immersi in una vasca di aria liquida e bollente.

    Gli sembra di non avere un solo osso sano addosso. Una patina rossastra gli copre lo sguardo.

    Con uno sforzo immane riesce a muovere il braccio destro, procurandosi atroci fitte di dolore. Si passa le dita screpolate e sanguinanti sul viso, ripulendo alla meglio gli occhi che bruciano come fossero pieni di spilli. Quando è riuscito a rimuovere il sangue che gli è calato sulla fronte da un milione di tagli, cerca a lungo di mettere a fuoco le rovine che lo attorniano.

    Rigati di sangue, i corpi straziati del cappellano e dei due secondini emergono in piccola parte dal diluvio di sassi, calcinacci e pezzi di legno che costituiscono il suo orizzonte visivo. Come pietrificati, quei resti mortali fanno parte integrante e indistinta di quel paesaggio di rovine. Un odore greve di sangue, di polvere, di zolfo, di gas satura l’aria.

    Da fuori, da lontano, arriva un concerto confuso di suoni, una cacofonia di rumori diversi ma tutti agghiaccianti. Urla disperate, strida di animali, rumore di crolli, rombi sordi di esplosioni, altri suoni che è impossibile identificare.

    Cerca di muoversi, tra atroci fitte di dolore. Una coltre di detriti grossi e piccoli lo inchioda al suolo. Ma non è sepolto vivo: mettendo a fuoco faticosamente lo sguardo si rende conto di avere dello spazio libero sopra di sé. Le rovine di quella sezione del carcere si sono incastrate fra loro qualche metro sopra di lui, formando quasi miracolosamente una specie di volta che impedisce (ma per quanto ancora?) alle centinaia di tonnellate di pietre, ferro e legno di quello che era il braccio della morte di ridurlo a una poltiglia sanguinolenta.

    La tentazione di restare immobile sotto quella coltre di macerie e di chiudere gli occhi per sempre, di abbandonarsi a un riposo che sfocerà presto in una incoscienza indistinta e senza ritorno, gli appare a un tratto irresistibile. Non deve fare nulla, semplicemente. Solo lasciarsi trasportare nel buio, sempre più in basso, navigare restando fermo, fondersi col nulla. Semplice, comodo.

    Ma una parte della sua coscienza rema contro, protesta. Ogni minimo movimento gli procura atroci spasimi, eppure si costringe a mettere in attività muscoli e arti. Senza quell’improvviso cataclisma sarebbe morto comunque. Il Destino, o cosa accidenti è, gli ha offerto una nuova occasione. Rifiutarla sarebbe da idiota, da autentico idiota.

    Mentre fuori prosegue la spaventosa sinfonia di rumori confusi, cerca cautamente di liberarsi. Il più grosso ostacolo ai suoi movimenti è un frammento di trave che gli schiaccia la parte inferiore del corpo e che riesce dolorosamente a spostare di un centimetro per volta, fino a liberare le gambe. Nella luce incerta che piove dall’alto si rende conto di essere coperto di sangue, il suo sangue. Attraverso la sua divisa da carcerato ridotta a brandelli, il suo corpo è crivellato da centinaia di ferite grandi e piccole aperte dai detriti che lo hanno schiacciato. Ma riesce a muovere gli arti, anche se la gamba destra non vuol saperne di piegarsi e lo segue inerte come un pezzo di legno.

    È uno sforzo immane cercare di rimettersi in piedi. Intanto, la sua mente cerca freneticamente una spiegazione a quello che può essere avvenuto. Se non si è trattato di uno spaventoso terremoto – ma questo non spiegherebbe l’abbacinante lampo iniziale – qualcosa di natura sconosciuta e di potenza spaventosa ha colpito quella zona di Londra. Non è certo un fatto limitato al solo carcere.

    La City è stata attaccata. Qualcuno (e non si può non pensare ai dannati tedeschi, o agli austro-ungarici) l’ha colpita a tradimento con chissà quale arma. Magari un cannone a lunga, lunghissima gittata. A meno che non si tratti di un ordigno sganciato da una di quelle nuove macchine volanti, sempre tedesche, gli Zeppelin. Ma come ha potuto uno di quegli enormi e lentissimi dirigibili arrivare indisturbato nel cielo di Londra?

    Incespicando sulla coltre di detriti, mattoni, pezzi di legno, spezzoni metallici si inerpica su una slavina di macerie che sale fino quasi a sfiorare la volta formata dalle strutture portanti dell’edificio, accartocciate le une sulle altre. Al centro della volta c’è un vuoto, un passaggio di neanche mezzo metro di larghezza dal quale filtra luce. Forse è in comunicazione con l’esterno.

    Si schiaccia nella fenditura, strisciando dolorosamente con le membra ferite tra i sassi e le travi. Rischia di restare incastrato a metà, poi lentamente riesce a portarsi oltre, trascinandosi dietro la gamba destra inerte. Adesso è all’interno di quello che resta di un corridoio, con il soffitto ancora integro anche se le pareti si sono grottescamente inclinate. Termina contro una scala mezzo crollata. Dall’alto adesso piove più luce. Potrebbe essere la luce del giorno, anche se si tratta di un chiarore giallastro, malato.

    Sale inciampando i gradini devastati. Arriva in una stanza scoperchiata, con le travi del soffitto puntate pateticamente verso il cielo come braccia in cerca di aiuto.

    E il cielo non è il cielo. Foley emerge all’aperto, ma la sensazione è di essere sott’acqua. Immerso in una nube giallastra e sciropposa di polvere caliginosa.

    Esce, muove passi incerti sulla montagna di pietre e mattoni che era il braccio della morte di Pentonville. Un urlo belluino gli ferisce i timpani. Qualcuno sta gridando con tutta la forza della disperazione, e quel qualcuno è lui.

    Londra non c’è più.

    L’orizzonte è estremamente vicino perché l’aria opaca, gonfia di particelle in sospensione non consente di vedere oltre poche decine di metri. Ma è quel poco che si può vedere che gli ha strappato urla di raccapriccio, e gliene strappa ancora.

    I palazzi del quartiere di Barnsbury appaiono schiacciati dalla mano di un gigante. Non ci sono più strade ma una coltre indistinta di rovine. Qua e là si intravedono o si intuiscono le forme opache di resti di edifici divorati dalle fiamme.

    Una sagoma grottesca emerge inclinata dalle macerie, e avvicinandosi si rende conto

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