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La gatta persiana
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E-book405 pagine4 ore

La gatta persiana

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Info su questo ebook

La gatta persiana, è il terzo romanzo di una lunga sequenza di titoli che l’autore ligure pubblicherà con grande successo tra le due guerre, anch’esso uscito nei Gialli Mondadori nel 1933. I personaggi principali della vicenda, oltre al commendator Bonichi e al detective Arrighi, sono sicuramente la gatta persiana, appartenuta alla prima vittima, e l’arma usata per l’omicidio: una “misericordia”. Anche in questo, come in tutti i romanzi di Varaldo, i colpi di scena hanno molto di teatrale, considerando il suo mestiere di commediografo di tale levatura da prendere il posto di Silvio D’Amico nella direzione dell’Accademia d’Arte Drammatica nel 1943.
LinguaItaliano
Data di uscita24 ott 2019
ISBN9788899932664
La gatta persiana

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    Anteprima del libro

    La gatta persiana - Alessandro Varaldo

    COLOPHON

    Tutti i diritti riservati

    Copyright ©2019 Oltre edizioni

    http://www.oltre.it

    ISBN 9788899932664

    Collana *gialli

    Titolo originale dell’opera:

    La gatta persiana

    di Alessandro Varaldo

    Sommario

    Alessandro Varaldo (note bio-bibliografiche)

    All’origine del giallo italiano:

    Alessandro Varaldo di Francesco De Nicola

    Personaggi del romanzo

    La gatta persiana

    I. La gatta si sente

    II. La macchia scura

    III. Triangolo e circolo

    IV. Personaggi necessari

    V. Er sor Leone e er sor Aronne

    VI. Sole e pace

    VII. Patuit Dea

    VIII. Storia di tutti i giorni

    IX. La gatta s’annuncia

    X. La gatta compare

    XI. Er sor Cleto Ràdica

    XII. «L’uno bis»

    XIII. Appare il mostro

    XIV. Righetto in iscritto

    XV. Un santo

    XVI. Un tipo

    XVII. Sfilata di gatti

    XVIII. Pieghe del sor Aronne intimo

    XIX. La gatta padrona

    XX. Il sor Ascanio è curioso

    XXI. Due medaglie d’oro

    XXII. Panico visto da dilettanti

    XXIII. Il sor Ascanio più curioso ancora

    XXIV. Quattro figure nuove

    XXV. Il curiosissimo sor Ascanio

    XXVI. Scherma di punta

    XXVII. Discesa nell’ipogeo

    XXVIII. Tomba di faraone: (dinastia dei pastori)

    XXIX. L’aspide nella tomba

    XXX. La gatta si snoda

    XXXI. Le misericordie

    XXXII. L’epeira

    XXXIII. Un cuore in tormento

    XXXIV. La piovra e le ventose

    XXXV. A cuore aperto

    XXXVI. Società in accomandita... complicata

    XXXVII. Psicologia... di gatti

    XXXVIII. Panico visto da professionisti

    XXXIX. La Rossa

    XL. Righetto in persona

    XLI. Profilo di Madonnina

    XLII. Il servizievole sor Annibale

    XLIII. Ciò che costa l’esser servizievole

    XLIV. Riappare il sor Cleto

    XLV. Primo rapporto

    XLVI. Righetto s’inalbera

    XLVII. Un biglietto da visita

    XLVIII. Monsignor Giano bifronte

    XLIX. Via Margutta: poeta e Madonnina

    L. Via Margutta: profilo d’una Rosalba... senza carriera

    LI. La gatta soffia

    LII. Una telefonata

    LIII. Sopraluogo notturno

    LIV. Prima azione del sor Ascanio

    LV. La seconda vittima

    LVI. Indagini ufficiali

    LVII. Otto o nove?

    LVIII. Il sor Ascanio s’agita

    LIX. Nove o otto?

    LX. Orazione funebre della marchesa

    LXI. Chi?

    LXII. Profilo di donna appassionata

    LXIII. Riappare il circolo

    LXIV ... e il triangolo

    LIXV. Le calze di seta

    LXVI. Nuova discesa nell’ipogeo

    LXVII. Le due Volpi

    LXVIII. Le due sensibilità

    LXIX. Patto con la gatta

    LXX. Tre o cinque... fuori causa

    LXXI. L’epeira mostra l’aculeo

    LXXII. Con core de romano

    LXXIII. Righetto urla

    LXXIV. Righetto piange

    LXXV. Il sor Ascanio compra la polvere insetticida

    LXXVI. Il sor Ascanio adoperala polvere insetticida

    LXXVII. Si chiude

    EPILOGO

    Alessandro Varaldo

    Alessandro Varaldo (Ventimiglia, 25 gennaio 1873 – Roma, 18 febbraio 1953) è stato un giornalista, scrittore e drammaturgo italiano.

    Esordì nel 1898 con La principessa lontana, cui seguì una sterminata e varia produzione sempre accompagnata dall’attività su importanti giornali quali la Gazzetta del Popolo ed Il Caffaro.

    Scrisse commedie, tra cui L’altalena (1910), romanzi e novelle come La grande passione (1920), L’ultimo peccato (1920), La troppo bella (1939) ed anche opere biografiche. Fu presidente della Società italiana degli Autori ed Editori dal 1920 al 1928 e direttore dell’Accademia d’arte drammatica di Milano dal 1943, succedendo a Silvio D’Amico.

    Dopo che, con Il sette bello, era stato il primo autore italiano accolto nella collana Libri gialli della Mondadori, Varaldo si specializzò in romanzi gialli; a differenza di Augusto De Angelis egli seppe conciliare il genere tradizionalmente anglosassone del giallo con i valori dell’etica fascista, risultando così particolarmente apprezzato dal regime. Tuttavia, come nota Loris Rambelli, i suoi intrecci finiscono per privilegiare la casualità avventurosa (da cui spesso dipende anche lo scioglimento dell’enigma) a scapito della razionalità che sta alla base della detection classica.

    ALL’ORIGINE DEL GIALLO ITALIANO:

    ALESSANDRO VARALDO

    di Francesco De Nicola

    1. Il primo romanzo poliziesco italiano, intitolato Il sette bello e scritto da Alessandro Varaldo, uscì, come numero 21 della collana dei Gialli Mondadori, nell’aprile del 1931, quasi un secolo più tardi dunque di quel 1841 quando, per convenzione, si colloca la nascita del genere con la pubblicazione dei Racconti di Edgar Allan Poe, ai quali, già nei decenni immediatamente successivi, seguirà, soprattutto in Inghilterra e in Francia, una copiosa produzione di libri di investigazione. Ma perché tanto ritardo nell’avviare anche in Italia il romanzo poliziesco?

    Una prima risposta può richiamare all’analogo ritardo nella diffusione in Italia del romanzo che, ancora nella prima metà dell’Ottocento, era un genere letterario con ben scarso seguito, tanto che non è facile trovare scrittori italiani ai quali si possa adattare per allora la definizione di romanziere; infatti gli autori delle opere più importanti di quel genere in quel periodo, e cioè Foscolo per le Ultime lettere di Jacopo Ortis e Manzoni per i Promessi sposi, non solo non ripeterono l’esperienza di scrivere un secondo romanzo – dopo lo scarso successo del primo - , ma anche avevano puntato soprattutto sulle proprie opere in versi.

    Del resto se guardiamo alla produzione editoriale negli Stati Italiani, vediamo che nel 1836 solo il 5% del totale dei libri stampati, e cioè 182, erano di narrativa (per lo più traduzioni o adattamenti di opere straniere), mentre, oltre alle opere religiose (651) o di cultura popolare come gli almanacchi, i lunari e i manuali (550), in letteratura prevalevano i libri di poesia (436), ma beninteso una poesia per lo più classicheggiante, dal vocabolario petrarchesco e sotto la tutela dell’ennesima edizione del vocabolario della Crusca che proponeva una lingua lontanissima da quella contemporanea.

    E qui s’innesta un altro problema che spiega la ritardata diffusione in Italia del romanzo in genere e del romanzo poliziesco in particolare e cioè l’assenza di un’unità linguistica nazionale: la comunicazione orale era quasi esclusivamente in dialetto (al censimento del 1861 su circa 30 milioni di italiani solo 600.000 parlavano la lingua), mentre quella scritta avveniva prevalentemente in latino (nelle scuole fino ad allora più insegnato dell’italiano) o nelle altre lingue più parlate nelle diverse regioni; quando il primo primo ministro del regno d’Italia, Camillo Benso conte di Cavour, il 17 marzo scrisse una lettera per esprimere la sua soddisfazione per la nascita del regno d’Italia a un altro dei padri del Risorgimento, Massimo d’Azeglio, lo fa usando il francese. E proprio la scarsa conoscenza dell’italiano aveva dunque ritardato la diffusione del romanzo che, solo dopo l’avvio di un massiccio programma di scolarizzazione, comincerà a conquistarsi i suoi lettori, tanto che la produzione di opere narrative salirà dagli 88 testi pubblicati nel 1861 ai 280 del 1871, per attestarsi nel 1886 a 348, quota che resterà pressoché costante fino alla conclusione dell’Ottocento.

    2. Ma di romanzi polizieschi in Italia ancora non si parlava e una spiegazione indiretta di ciò viene data da uno scrittore che proprio all’inizio degli anni Ottanta aveva conquistato un larghissimo successo: Carlo Collodi. E’ noto che il poliziesco ebbe una sua premessa nel sottogenere del romanzo sociale definito dei misteri, narrazioni per lo più seriali e affidate in prima istanza alle narrazioni che, come il feuilleton o romanzo d’appendice, avevano per argomento avvenimenti di cronaca nera o comunque complessi e poco chiari, appunto misteriosi, ambientati in una metropoli dove appunto era quasi inevitabile che, tra tante persone e di tanto varia provenienza, si scatenassero conflitti e si commettessero reati e delitti. Il prototipo del genere fu I misteri di Parigi pubblicato da Eugène Sue nel 1842 sul Journal des Débats, poi seguito dai Misteri di Londra e più tardi dai Misteri di Marsiglia di Émile Zola, a sua volta autore anche del Ventre di Parigi. Questo genere destò interesse anche in Italia e, dopo la traduzione dei Misteri di Parigi già nel 1848 ad opera di Domenico Guerrazzi, cominciarono a nascere anche misteri ambientati nelle città italiane; e così ecco quelli anonimi di Torino nel 1849, quelli di Milano nel 1857 di Alessandro Sauli e poi via via fino a quelli di Firenze, ancora del 1857 a firma di Carlo Lorenzini non ancora Collodi. Egli aveva avuto l’incarico di scrivere più volumi di Misteri di Firenze come si deduce dalla dicitura Volume primo posta sul frontespizio di quella edizione, ma, giunto alla fine, dovette ammettere di aver esaurito ogni possibile materiale perché Firenze è un gran paese, nel quale tutti si conoscono e dunque di misteri ve ne sono ben pochi: Qui ogni casa ha il suo eco, e le pareti e i muri maestri, che dividono le stanze e i quartieri, sono di tela rada e bucherellata, come le scene da teatro. Questo genere narrativo dunque richiedeva lo sfondo delle grandi città moderne e così sarà anche per i romanzi polizieschi, ambientati non per nulla per la maggior parte a Londra o a Parigi, dove, oltre ai delitti misteriosi e ai loro autori, esisteva un’istituzione come la polizia incaricata espressamente di scoprirli e di assicurarli alla giustizia. Ma l’Italia ottocentesca non aveva ancora le metropoli, né i colpevoli di reati erano usualmente perseguiti né tanto meno giustamente condannati, come racconta lo stesso Collodi che nelle Avventure di Pinocchio fa arrestare dai carabinieri il povero Geppetto che cercava di riportare a casa Pinocchio (cap. III) , il quale a sua volta, derubato dal gatto e dalla volpe, si reca in tribunale per aver giustizia e, proprio perché vittima di un reato, viene condannato dal giudice-scimmione: Quel povero diavolo è stato derubato di 4 monete d’oro: pigliatelo e mettetelo subito in prigione (cap. XIX).

    E del resto l’assenza della figura dell’investigatore dalla società italiana di allora è dichiarata dal fatto che, ad esempio nei Misteri di Genova (1866) di Anton Giulio Barrili, le indagini su varie vicende delittuose sono svolte da un intraprendente giornalista (di fatto il primo detective involontario della letteratura italiana), mentre nel Cappello del prete (1887) di Emilio De Marchi il colpevole di un orrendo delitto sarà alla fine smascherato dalla sua coscienza dilaniata dai rimorsi e non certo da un pigrissimo intendente di polizia, né da un magistrato crapulone; e semmai anche qui il solo che cerca di capire come sono andate le cose sarà un giornalista.

    Possiamo dunque concludere che il ritardo della nascita in Italia del romanzo poliziesco è motivato da un analogo ritardo sociale e culturale, quando però il genere letterario ormai da qualche decennio aveva cominciato anche da noi ad attirare un numero di lettori sempre più alto, dapprima con traduzioni di testi stranieri, soprattutto di Canan Doyle e di Émile Gaboriau, ospitati anche su diffusi quotidiani come il Corriere della sera o su periodici come il Racconto mensile, ma anche con la creazione di collane come i Romanzi polizieschi nata nel 1914 ad opera dell’editore fiorentino Salani, sostituita nel 1919 dai Racconti misteriosi e nel 1921 dai fascicoli settimanali del Romanziere poliziesco.

    3. Sarà Arnoldo Mondadori, l’editore allora più intraprendente, passato in pochi anni da una dimensione artigianale della sua impresa ad una industriale (anche per essere stato tempestivamente vicino al regime, da quando nell’ottobre del 1922 aveva stampato i volantini per la marcia su Roma, fino a quando nel 1928 si era aggiudicato la pubblicazione dell’unico sussidiario per le scuole elementari) a promuovere ampiamente e sistematicamente in Italia il romanzo poliziesco nel 1929, quando appunto nacquero i Gialli Mondadori, così definiti perché spesso allora le collane editoriali erano contrassegnate da un colore in copertina che indicava al lettore la tipologia del libro: dagli azzurri ai verdi, dai rossi appunto ai gialli, colore che peraltro anche all’estero in qualche occasione era stato attribuito in copertina ai romanzi polizieschi. E appunto dal 1929 in Italia il genere sarà comunemente definito giallo, anche sulla scia del titolo Romanzi gialli di una delle prime importanti recensioni ai volumi inaugurali della collana mondadoriana, scritta da Leonardo Sinisgalli e uscita il I dicembre 1929 sulla prestigiosa Italia Letteraria

    Inevitabilmente i primi titoli della serie, comprendente 24 volumi ogni anno, erano firmati da scrittori di lingua inglese: da S.S. Van Dine a Edgar Wallace, da Robert Louis Stevenson a Anna Katherine Green, per citare gli autori dei primi quattro titoli a loro volta seguiti da altri anglosassoni. Nella sua ottica culturale nazionalistica se non proprio autarchica, il fascismo aveva un atteggiamento piuttosto ostile nei confronti degli scrittori stranieri; ciò era emerso, poco dopo la metà degli anni Venti, a proposito dei libri sulla Prima guerra mondiale e in particolare dopo l’uscita in Italia all’inizio del 1929 di All’ovest niente di nuovo di Remarque, cui seguì la deprecazione, anche da parte di intellettuali non di regime come Massimo Bontempelli, per lo scarso interesse dei nostri scrittori, a differenza dagli stranieri, per quell’argomento, finché all’inizio degli anni Trenta venne emanata una disposizione che imponeva ad ogni serie editoriale di annoverare almeno il 20% di testi di autori italiani. E ciò indusse Mondadori a dover scegliere un nostro scrittore al quale affidare la stesura di quello che doveva essere il primo giallo italiano e la scelta cadde su Alessandro Varaldo.

    4. Ma perché Mondadori incaricò proprio Varaldo di scrivere per lui il primo giallo italiano? Tra i narratori della casa editrice milanese, Varaldo – come risulterà nel 1935 da Scrittori nostri, un’antologia di pagine dei maggiori autori mondadoriani – egli era il più prolifico, come testimoniava la sua lunghissima scheda bibliografica e uno dei più seguiti da un pubblico di fedeli lettori. Abituato a ritmi elevatissimi di lavoro, egli giunse a pubblicare in uno stesso anno fino a quattro volumi, in ciò agevolato dall’ampio raggio dei generi nei quali si impegnava: dal romanzo alla novella, dalla commedia al saggio divulgativo, dalla storia romanzata alla raccolta di memorie con una lunga serie di libri che, pur senza raggiungere le vendite di centinaia di migliaia di copie come accadeva in quegli anni ai romanzi degli scrittori di maggior successo di pubblico, come Guido da Verona, Pitigrilli, Virginio Brocchi e Luciano Zuccoli, avevano tuttavia un’accoglienza generale molto favorevole, raggiungendo regolarmente medie di venti-quarantamila copie vendute come accadde, ad esempio, a tre suoi volumi usciti nel 1919 – Le avventure, La bella e la bestia e Una rosa d’autunno – a I cuori solitari del 1921 e a Donne, profumi e fiori del 1922. Altri suoi libri furono ristampati anche a notevole distanza di tempo, come il romanzo I due nemici, uscito per la prima volta nel 1900 presso Roux & Viarengo, per la seconda nel 1919 presso Sonzogno e quindi approdato a Mondadori, che lo stampò in aprile e poi in giugno nel 1931 e poi ancora nel gennaio del 1932. Naturalmente il successo dei suoi libri poneva Varaldo in una condizione privilegiata nei rapporti con gli editori che lo trattavano con riguardo; ciò risulta da una sua lettera inviata il I maggio 1936 ad Arnoldo Mondadori e dalla quale si apprende che egli godeva dei diritti d’autore in genere nella misura del 20 %, ridotti al 10% per le collane popolari degli Azzurri e dei Gialli che avevano più alte tirature e più bassi prezzi di copertina; la stessa lettera rivela inoltre che nel 1930 l’editore aveva chiesto contemporaneamente a Varaldo per la collezione azzurra ben tre romanzi già editi almeno e un volume di novelle mai pubblicato; se da altri passi di questa lettera emerge una decisione anche fin troppo ferma nel tutelare i propri interessi, Varaldo fu comunque in rapporti di grande cordialità con l’editore (che dal 1925 ebbe pressoché l’esclusiva per i suoi libri), del quale scriverà più tardi un ritratto molto vivace e affettuoso:

    Guardo questo editore moderno, tutta volontà, tutta energia che deve nascondere la sua sensibilità come il leone le sue ferite, che sorride, è cortese, parla bene degli autori, è dinamico, irrequieto, preciso, piedi a terra, mani aperte e ben tese; con un suo gusto riflessivo, con bagliori di bontà e malinconia negli occhi, vivo e balzante come l’asclepiadeo, rigido per sé prima che per gli altri, felice nel suo nido familiare, portato al bello come pochi editori, che parla bene e ascolta meglio.

    La familiarità con Mondadori, nella cui villa sul lago Maggiore Varaldo trascorreva ogni anno a settembre alcuni giorni di riposo, e i buoni rapporti intrattenuti comunque anche con altri editori (da Treves a Sonzogno, da Vitagliano a Carabba, da Ceschina e Vallecchi) con i quali aveva pubblicato alcuni suoi libri, indicano quanto la sua firma fosse tra le più contese a partire dalla fine del secondo decennio del Novecento, quando ancora non era lunga la sua carriera letteraria. Egli infatti, nato a Ventimiglia nel 1876 (morirà a Roma nel 1953), dopo alcune giovanili esperienze di poesia simbolista che nel 1897 lo avevano portato a comporre con Alessandro Giribaldi e Mario Malfettani il curioso volumetto collettivo Il primo libro dei trittici, aveva esordito in narrativa nel 1898 con la pubblicazione a puntate del romanzo I signori di Nervia nell’appendice del supplemento del quotidiano genovese Il Caffaro, fondato nel 1875 da Anton Giulio Barrili, il prolifico scrittore savonese già volontario garibaldino nel 1866 e nel 1867 nella sfortunata spedizione di Mentana che egli farà rivivere nel libro Con Garibaldi alle porte di Roma (1895) che Benedetto Croce definirà tra i migliori dell’epopea garibaldina. E proprio la narrativa di Barrili, a suo tempo tra gli scrittori italiani più letti nel secondo Ottocento, fu assunta da Varaldo come esemplare modello, della quale aveva fatto proprio l’imperativo di non annoiare i lettori, collocando così i suoi romanzi e i suoi racconti, sorretti dagli ideali patriottici e dai sentimenti più nobili, sullo sfondo costante dei grandi avvenimenti della storia italiana passata e recente.

    La fortuna di Varaldo scrittore andò crescendo considerevolmente negli anni Venti quando, tra il 1920 e il 1928, ricoprì l’incarico di direttore della Società Italiana degli Autori; questo gravoso impegno non gli impedì tuttavia di pubblicare in poco meno di un decennio oltre una quindicina di libri nuovi, per la cui stesura seguiva un metodo ormai ben collaudato e proficuo, anche se non certo angosciato dal rovello filologico; ad Augusto De Angelis, che lo intervistava nel 1925 per il mensile Comoedia, risposndeva:

    Sai come scrivo i miei romanzi, io? Tutti di seguito, senza un pentimento. Mi metto dinanzi due cartelle: una con i nomi dei personaggi e l’altra con gli appunti storici. Poi scrivo; vale a dire: narro quello che è già nettissimo, chiarissimo, definito con ogni particolare nella mia testa.

    5. Vediamo allora un po’ più da vicino il suo modus scribendi prendendo spunto dagli appunti preparatori del giallo Le scarpette rosse (sul quale più avanti torneremo) dove, nell’elenco dei personaggi, si trova quest’annotazione accanto al nome di Virgilio Morandi: Dottore in legge, giovane signore senza professione, bastoncino di malacca a due talloni di madreperla. Diplomatico in aspettativa. Egli dunque creava i suoi personaggi con connotati ben individuabili ancor prima di stendere compiutamente il romanzo e in seguito li introduceva nelle storie che si dipanavano; in questo caso infatti nelle pagine iniziali il personaggio sarà poi così presentato: Virgilio Morandi, giovane signore senza professione, quantunque dottore in legge, scendeva un soleggiato giorno autunnale, come ne conta Roma con prodiga letizia, la via Veneto, roteando il bastone di malacca, aggiungendo poco oltre che era stato in diplomazia.

    La ricetta, pur nella sua schematica semplicità, evidentemente funzionava bene, se è vero che Varaldo, pur oggetto di attenzioni modeste da parte della critica che per lo più si limitava a segnalare l’uscita dei suoi numerosi libri con diligente freddezza in schede molto sintetiche, poteva comunque contare su di un pubblico assiduo e numeroso che, di fatto, lo seguì con fedeltà per circa mezzo secolo. Arnoldo Mondadori era dunque ben consapevole della costante fortuna di pubblico di Varaldo quando decise di affidare a lui la stesura del primo testo di autore italiano da includere nella sua collana di gialli. Sarà lo stesso scrittore a raccontare, in una lettera poi anteposta a mo’ di introduzione al Sette bello, l’episodio dell’incarico ricevuto, in una versione dalla quale emergeva però soprattutto la propria intraprendenza, esibita in occasione di una sua visita nell’ufficio dell’editore:

    "Sul tuo scrittoio c’erano dei volumi gialli: t’annunciai a bruciapelo che avevo l’idea d’un romanzo poliziesco. Drizzasti le orecchie, buon sintomo per un editore, e mi chiedesti il titolo. Il primo che mi venne in mente: - Il Sette Bello -. Trangugiasti senza sforzo. – Di che si tratta? Racconta. – […] Improvvisai ciò che è la sostanza della prima parte di questo romanzo, meno qualche figura e qualche episodio".

    E così, senza smentire le modalità di una narrativa determinata dalla fantasia e dall’improvvisazione pur all’interno di uno schema solido e ormai ben collaudato, iniziava la carriera di Varaldo autore di romanzi polizieschi, genere del quale egli aveva peraltro buona conoscenza, come risulta dal suo articolo Dramma e romanzo poliziesco che presenta opportuni richiami a Conan Doyle, a Wallace e a Simenon, un autore che meriterebbe di essere assai conosciuto, ma ancora non tradotto in Italia, e dal quale egli si sentiva attratto, convinto che il pubblico seguiva questa letteratura perché la comprendeva e perché non si annoiava.

    6. Il sette bello fu dunque il primo giallo di Varaldo e il primo giallo italiano; uscì nella primavera del 1931 ed ebbe subito un discreto successo, tanto che alla prima tiratura ne seguirono altre due, che portarono a 23.000 il numero complessivo delle copie stampate. E sulla scia di questo fortunato esordio, con la sua consueta rapidità (lo aveva già ultimato il 10 luglio dello stesso 1931) Varaldo scrisse un secondo giallo, Le scarpette rosse, uscito in autunno e giunto anch’esso alla terza ristampa, con un numero complessivo di 17.000 copie pubblicate, quota certo apprezzabile anche se lontana da quelle intorno alle 50.000 generalmente raggiunte dai gialli di autori stranieri pubblicati nella stessa collana. Varaldo, che nel 1932 sarà seguito nella collana mondadoriana da altri due giallisti italiani – Alessandro De Stefani con La crociera del Colorado e Arturo Lanocita con Quaranta milioni – negli anni seguenti pubblicherà ancora nei gialli Mondadori altri sei volumi: La gatta persiana (1933), La scomparsa di Rigel (1933), Circolo chiuso (1935), Casco d’oro (1936), Il segreto della statua (1936) e Il tesoro dei Borboni (1938).

    Senza dubbio egli aveva dato del romanzo poliziesco un’interpretazione piuttosto personale e alquanto lontana dai modelli stranieri, ripresentando piuttosto molte caratteristiche del proprio corredo di narratore tardo-ottocentesco, a cominciare dallo schema narrativo di tipo appendicistico fondato su avventure piuttosto movimentate e ricche di colpi di scena ad effetto, con la consueta rigida suddivisione dei personaggi tra buoni e cattivi e con l’inevitabile sconfitta di questi, e ciò del resto in pieno accordo con lo schema del poliziesco che, dopo il reato e l’indagine, richiede appunto l’individuazione e la cattura del colpevole. La scrittura di Varaldo ricalcava quella dei suoi precedenti romanzi, piana e scorrevole ma anche costellata di frequenti citazioni, talora anche in latino, certo poco adeguate alla rapidità essenziale del racconto di fatti quale deve essere il giallo, e perfino con il recupero disinvolto di celebri passi letterari, come il dantesco caddi come corpo morto (in Il sette bello) o il manzoniano se la mia spoglia fosse rimasta orba di tanto spiro (in Il segreto della statua). E se queste gratuite citazioni, gradite al lettore borghese del romanzo ottocentesco che si poteva così compiacere della propria erudizione, offrivano allo stesso scrittore lo spunto per ironizzarvi sopra – C’è sempre un santo o un filosofo che s’addossano un aforisma (in Il sette bello) – , con convinta serietà invece Varaldo adoperava altri ingredienti utili per catturare la partecipazione del suo lettore tradizionale: dalle ampie digressioni storiche, anch’esse in verità poco adeguate al poliziesco spezzando il ritmo narrativo che dovrebbe essere incalzante, al ricorso quasi ossessivo ai detti proverbiali e alle massime didascaliche cui lo scrittore, con l’autorità della vox populi, affidava il compito di esporre i propri valori morali.

    Il romanzo poliziesco era tradizionalmente ambientato nelle moderne metropoli e fu scelta pressoché obbligata per Varaldo collocare la vicenda del Sette bello, che si svolgeva nella primavera del 1930, nello scenario di Roma, che nel frattempo aveva superato i 900.000 abitanti, con frequenti puntate nella periferia della capitale e nella provincia laziale fino a Ronciglione. E se lo sfondo non poteva lasciare a Varaldo molta scelta, egli invece ebbe totale libertà nel costruire i suoi personaggi principali: quattro giovani (tre uomini e una ragazza) amanti dello spirito d’avventura che, senza rendersene conto, si trovavano coinvolti in una vicenda sempre più misteriosa e complessa raccontata, sotto forma di diario in prima persona, da ciascuno di loro e anche dall’investigatore che alla fine riuscirà a far luce su una storia ricca di episodi e di personaggi tale da confondere il lettore, continuamente messo alla prova proprio dall’abbondanza di indizi che finivano per avere un effetto di voluto disorientamento, secondo un criterio esplicitamente dichiarato dall’autore:

    C’è, ad esempio, un personaggio misterioso? Il lettore si chiede: Perché l’autore lo ha messo lì? Deve avere una ragione. Ma l’autore spesse volte ha usato il personaggio misterioso appunto per distrarre.

    7. Autore del primo giallo italiano,

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