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Gli stratagemmi di Satana
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Gli stratagemmi di Satana
E-book238 pagine3 ore

Gli stratagemmi di Satana

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Info su questo ebook

Nell'arco di quattordici racconti a tema investigativo, tinti di screziature noir e ambientazioni storiche estremamente variegate, Riccardo Parigi e Massimo Sozzi ci accompagnano lungo un sentiero misterioso che – in rigorosissimo ordine cronologico – ci porta dalla Toscana settecentesca di "Delitto in agrodolce" fino all'aula di un moderno liceo classico in "Lo stoico perfetto". In una perfetta combinazione di elementi narrativi che si susseguono lungo il filo di una ricostruzione storica meticolosa, il duo di giallisti è così capace di costruire una suspense che trascende i racconti e, non ultimi, i secoli in cui si ambientano. Un libro estremamente originale, adatto sia agli amanti del giallo sia a chi si nutre soltanto di romanzi storici: perché non optare per una contaminazione fra i generi, quando il risultato è così bello?-
LinguaItaliano
Data di uscita16 gen 2023
ISBN9788728496954

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    Gli stratagemmi di Satana - Riccardo Parigi

    Gli stratagemmi di Satana

    Immagine di copertina: Shutterstock

    Copyright © 0, 2022 Riccardo Parigi and SAGA Egmont

    All rights reserved

    ISBN: 9788728496954

    1st ebook edition

    Format: EPUB 3.0

    No part of this publication may be reproduced, stored in a retrievial system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.

    www.sagaegmont.com

    Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.

    GLI STRATAGEMMI DI SATANA

    A tutti coloro che ci leggeranno e sapranno guardare oltre

    Escogitiamo nuove trame di sventure,

    che ci rendano famosi presso i posteri…

    (W. Shakespeare, Tito Andronico, atto III, scena I)

    Prefazione di Renzo Cremante

    DALLA MICROSTORIA ALLE MICROSTORIE GIALLE

    La premiata ditta di giallisti toscani Riccardo Parigi e Massimo Sozzi, costituitasi una decina di anni fa e che sono lieto di avere in qualche modo tenuto a battesimo, fra le tante altre coppie nostrane benemerite del genere poliziesco – da Fruttero e Lucentini a Felisatti e Pittorru a Guccini e Macchiavelli – si distingue anche per la dominante, deliberata predilezione accordata a un sottogenere del giallo che, anche entro l’area italiana, nel corso degli ultimi decenni ha registrato e continua a registrare una notevole popolarità: il giallo storico. Da un punto di vista generale la sua odierna vitalità e fortuna saranno certo da mettere in relazione, da una parte, con la concomitante fioritura nella narrativa postmoderna del romanzo storico, dall’altra, con la pubblicazione (avvenuta giusto un quarto di secolo fa) e la clamorosa affermazione de Il nome della rosa di Umberto Eco (mentre storici e filosofi, dal canto loro, non hanno ancora smesso di dibattere intorno ai caratteri strutturali e alle norme procedurali della detective story e del paradigma indiziario).

    Ovviamente anche prima degli anni Ottanta del Ventesimo secolo erano stati pubblicati gialli storici, a cominciare dall’archetipo di Agatha Christie, Death Comes as the End (1945), ambientato nell’antico Egitto e tradotto in italiano col titolo C’era una volta… (si pensi, per esempio, anche ad Ellis Peters e ai misteri dell’Inghilterra del XIV secolo indagati dal monaco benedettino Fratello Cadfael; alle indagini del giudice Dee di Robert Van Gulik; al racconto di Cornell Woolrich cui fa da sfondo la guerra civile americana). Ma è negli ultimi decenni, sulla scorta appunto dello straordinario successo del romanzo di Eco, che il giallo di ispirazione storica ha proliferato; sono state utilizzate le ambientazione storiche e geografiche più disparate e sono scese in campo le più incredibili figure di detective: giudici o scribi egizi, filosofi greci, podestà medievali, ma anche sacerdoti celtici e persino (nel racconto di E.D. Hoc The Three Travellers) i Re Magi! Personaggi storici e di grande rinomanza – da Socrate ad Aristotele, ad Agnello Ravennate, a Dante Alighieri, a Leonardo da Vinci, a Niccolò Machiavelli, al fratello dell’autore di Tom Jones, il giudice cieco John Fielding, a Samuel Johnson, al cardinale Lambertini – hanno vestito l’abito dell’investigatore.

    Rilevando quanto sia facile, talora, cadere in anacronismi, in situazioni caricaturali fumettistiche, dozzinali, sopra le righe, alcuni critici dal supercilio particolarmente severo hanno avanzato riserve non superficiali nei confronti dell’intero sottogenere, affrettandosi a qualificarlo come inevitabilmente minore, marginale, di necessità destinato a palati ancora meno fini di quelli pur assuefatti a una cucina degli avanzi come quella offerta dagli altri generi paraletterari. Una siffatta distinzione non può non apparire ingenerosa e soprattutto, in molti casi, poco fondata: tale da richiamare forse alla memoria la svalutazione aprioristica e la condanna senza appello che certa critica anche autorevole, di marca idealistica, aveva espresso nei confronti dell’intero genere poliziesco, relegandolo senz’altro nelle paludi della paraletteratura e della non poesia, allorché, più di settant’anni fa, nelle librerie e nelle edicole italiane avevano cominciato a comparire i primi libri gialli dell’eponima collana mondadoriana. In realtà esistono gialli storici convincenti e altri meno convincenti: tutto qui. E negli ultimi anni sono stati pubblicati romanzi e racconti ben documentati dal punto di vista storiografico, basati su vicende che possiedono un grado robusto di verosimiglianza, in cui si intrecciano felicemente l’elemento ludico e la riflessione su una determinata epoca.

    Pensiamo, ad esempio, ai gialli del giorgiano B. Akunin, che hanno come protagonista un funzionario di polizia, Erast Petrovic Fandorin, il quale si muove nella Russia degli ultimi decenni dell’Ottocento (il primo caso risale al 1876). In questi testi c’è una ricostruzione documentatissima della Russia del tempo; storie estremamente plausibili; ma la carta vincente è lo stile, che Akunin ricalca, con mimetismo perfetto e grande ironia, su quello dei grandi scrittori russi dell’epoca. E il medesimo gusto della riflessione su nodi essenziali del passato lo ritroviamo tanto in Carlo Lucarelli quanto in Andrea Camilleri, due fra gli autori di maggior successo dell’odierna scena letteraria italiana. Lucarelli ha iniziato la sua attività letteraria con tre romanzi, pubblicati da Sellerio, che descrivono un singolare antieroe seriale, il commissario De Luca, alle prese con delitti che accadono durante il drammatico periodo della Repubblica di Salò (Carta bianca) e nel corso della lotta partigiana (L’estate torbida). L’ultimo episodio, dato alle stampe nel 1996 (Via delle Oche), è ambientato nel dopoguerra, nel 1948, alla vigilia delle prime elezioni politiche. Sono tre romanzi, questi, che, sfruttando gli elementi strutturali di cui abbiamo parlato, rievocano in maniera straordinariamente sottile gli anni del trapasso dalla dittatura alla Repubblica: in questo caso il giallo diviene davvero un’efficace chiave di interpretazione di un periodo cruciale della nostra storia.

    Discorso analogo può essere fatto per il filone tardo-ottocentesco di Camilleri. La Vigàta degli ultimi anni dell’Ottocento è un luogo a suo modo esemplare, in quanto qui si concentrano le piaghe del Mezzogiorno e dell’Italia umbertina: dalla corruzione alla burocrazia bizantina, dall’omertà agli intrecci malavitosi. Il birraio di Preston, La concessione del telefono, La scomparsa di Patò sono nel contempo testi divertentissimi e cataloghi del malcostume e dei problemi con i quali ci troviamo, ancora oggi, a fare i conti.

    Considerazioni analoghe si potrebbero ugualmente riferire ad un’altra appassionata apologeta e protagonista del giallo storico italiano contemporaneo, la scrittrice bolognese Danila Comastri Montanari. Come non ritrovare nella Roma del I secolo d. C., da lei descritta con competenza e bravura e teatro delle indagini condotte dal senatore Publio Aurelio Stazio, una fitta trama di corrispondenze con temi e problemi della nostra realtà contemporanea (l’aborto e la contraccezione, la prostituzione infantile, la società dello spettacolo, il mondo dello sport, dell’editoria, delle banche ecc.)? Ma pur non potendomi occupare in questa sede di autori e temi che certo meriterebbero almeno qualche parola, è però giusto accennare a due vie percorse, di recente, dal giallo storico italiano: la contaminazione con altri generi (ad esempio l’horrore il gotico) e l’utilizzazione – per la costruzione del romanzo – di diversi piani temporali.

    Per quanto concerne il primo filone – quello della contaminazione – uno degli autori più interessanti è lo scrittore romagnolo Eraldo Baldini. La sua abilità consiste, in particolare, nel sapere mescolare una solida documentazione (relativa soprattutto all’Italia dei primi decenni del Novecento) con elementi tratti dalle tradizione del mondo contadino. In Mal’aria, per esempio, la descrizione di una Romagna in balìa di violenti gerarchi e burocrati fascisti si intreccia all’evocazione di sinistre credenze, che riguardano uno dei peggiori flagelli che allora devastava quelle zone rurali: la febbre malarica. Il risultato è un racconto inquietante e originale, con forti valenze simboliche (la malaria come simbolo di uno sfacelo morale che assale, al pari di una malattia, le coscienze).

    Per quanto riguarda invece la costruzione di un testo attraverso l’utilizzazione di diversi piani temporali, lo scrittore che ha sfruttato con più efficacia questo impianto narrativo è forse Valerio Evangelisti.

    A dire il vero Evangelisti non può essere definito, in senso stretto, un giallista, quanto piuttosto l’autore di punta della nuova fantascienza. Ma in realtà è difficile incasellare questo romanziere (come del resto altri autori: Luca Masali e Tullio Avoledo sono i primi nomi che vengono alla mente) in uno dei generi tradizionali. Di sicuro molti dei suoi testi contengono una componente mystery, ma soprattutto presentano un intreccio particolare. Nella fortunata serie uscita presso Mondadori Evangelisti, infatti, alterna spesso due distinte vicende: una è collocata nel Trecento e ha come protagonista Nicolas Eymeric, un inquisitore domenicano realmente esistito, alle prese con eventi terrificanti e, in apparenza, inspiegabili; un’altra viene invece proiettata in un futuro allucinante ma abbastanza prossimo. In apparenza i fatti che accadono nelle due epoche sembrano privi di un qualsiasi collegamento. Ma solo in apparenza: alla fine del romanzo si capisce che esiste un filo che lega questi tremendi avvenimenti, così distanti nel tempo.

    Questo tipo di impianto è stato usato anche nell’ambito più specifico della narrativa gialla. Pensiamo ad esempio all’inedita coppia formata da Francesco Guccini e Loriano Macchiavelli e al loro primo romanzo Macaronì, o agli stessi Parigi e Sozzi, che, ne Il casoAppiani(Todaro Editore, 1999) si sono divertiti a intrecciare un mistero che prende corpo nel 1938 (quando già erano state emanate le leggi razziali) e una serie di delitti che accadono nel 1967, in una Firenze che è stata da poco investita dall’alluvione, e che sta per essere travolta dalla contestazione studentesca.

    E questo intreccio narrativo viene riproposto anche nel loro secondo romanzo, Anno Domini 1799 (Libreria dell’Orso, 2003): il tentativo di liberare Pio VI, rinchiuso dal Granduca di Toscana nella Certosa di Firenze, da parte di alcuni nobili antifrancesi, nel 1799, avrà un seguito e un epilogo singolare nel 1969, in un periodo segnato da roventi critiche nei confronti delle istituzioni.

    Va detto, invece, che interamente ambientato nel passato, e più esattamente agli inizi del XIV secolo, è il loro ultimo, riuscitissimo romanzo per ragazzi, L’artiglio di Satana, pubblicato nel 2005 nella collana Junior Giallo della Mondadori. La riflessione su momenti cruciali del nostro passato, sia prossimo sia remoto, è del resto ben viva anche nei racconti raccolti nel presente volume, alcuni dei quali hanno avuto significativi riconoscimenti: da Il guanto di volpe, che nel 1996 ha vinto ex aequoil Premio Gran Giallo Città di Cattolica, ad Assassinio in agrodolce e Dies Irae, vincitori, rispettivamente, della VI e VII edizione del Premio Ghostbusters-Bertoldo, a Gli stratagemmi diSatana, che nel 1999 si è classificato nella rosa dei vincitori del Premio Orme Gialle di Pontedera. In questi racconti, qui proposti secondo l’ordine cronologico delle ambientazioni storiche, Parigi e Sozzi giocano a coinvolgere il lettore offrendogli una grande varietà di situazioni, di fatti, di personaggi e ricorrendo a diverse tonalità del mystery. La raccolta, alla fine, compone un prisma che, insieme a temi e motivi della realtà contemporanea, riflette anzitutto la strenua passione degli autori per il giallo di ambientazione storica, la convinzione che prendere spunto da un documento, il rifarsi ad una fonte o testimonianza, possano contribuire a costruire un percorso labirintico – sufficientemente stimolante e divertente – di misteri, misfatti ed enigmi da risolvere.

    Renzo Cremante

    Renzo Cremante è professore ordinario di Letteratura Italiana alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Pavia. Attento studioso della storia del giallo nel nostro Paese, ha dedicato a questo tema numerosi articoli specialistici e divulgativi. Attualmente è direttore della rivista Delitti di carta.

    DELITTO IN AGRODOLCE

    Del sovrano Pietro Leopoldo di Toscana viene in genere ricordata l’attività riformatrice che egli portò avanti, con tenacia e spirito illuminato, per oltre vent’anni, tra il 1765 e il 1790. Animato da profonda cultura e desideroso di far progredire le condizioni del suo popolo, Pietro Leopoldo impiegò la sua energia per elaborare una serie di leggi e riforme che sono passate alla storia.

    Recentemente è stata scoperta, all’Archivio di Stato di Firenze, una lettera del sovrano che non era stata utilizzata neppure da Adam Wandruszka nella sua monumentale – e fondamentale – biografia sul figlio di Maria Teresa d’Asburgo.

    Il documento, in verità, riveste un estremo interesse perché lumeggia convenientemente alcuni aspetti della personalità del Granduca che potremmo definire inediti. Se era risaputa l’umanità di Pietro Leopoldo e la sua attenzione per le concrete condizioni di vita della sua gente, nessuna ricerca aveva sottolineato la passione del sovrano nei confronti della cucina in generale e dei rapporti conviviali in particolare.

    Ma la lettera è assai di più di una semplice testimonianza di certe predilezioni gastronomiche del Granduca: è anche una singolare descrizione di un episodio sotto molti versi sconcertante della Toscana di fine Settecento.

    Il documento, scritto il 29 giugno 1778, fu inviato da Pietro Leopoldo al Conte von Kaunitz, il principale collaboratore della regina madre. La lettera fu stesa in tedesco ma una copia venne tradotta in italiano, con tutta probabilità dal Consigliere Tavanti, e conservata nell’Archivio granducale. Ci è sembrato opportuno riportare alcuni stralci salienti e riassumere – per comodità del lettore – le altre parti del documento. Come è ovvio, analizzeremo la lettera, con finalità e metodo scientifici, in una sede diversa da questa.

    Dalla lettera di Pietro Leopoldo al Conte von Kaunitz:

    Conte carissimo, Vi scrivo per renderVi a parte degli ultimi accadimenti travagliosi. Dico travagliosi perché in veruna occasione l’Arte del Governo ha fatto sentire il suo peso gravoso sulle mie spalle come oggidì.

    La soppressione delle congregazioni monastiche, vera combriccola di oziosi e di incolti, mi è costata e mi costa continue e fiere rampogne del Santo Padre. Tante plaghe del mio Regno sono una sentina spaventevole di mal’aria e vengono flagellate da una carestia implacabile. La fame fa ingresso nelle case dei sudditi la cui felicità cerco invano di procacciare. E di questo ognora mi cruccio e mi risento.

    In mezzo a questo mare di ambasce, sono approdato, qualche giornata addietro, su una minuscola isola dove ho vissuto un piccolo lasso di tempo di svago inusitato. Vi narro il fatto, ma farete promessa di nulla riferire alla Regina Madre, ché Ella censurerebbe ciascuno mio atto in questa formidabile vicenda.

    Dovete sapere che ha preso congedo dalla Corte – or sarà un anno – il cuoco Cosimo Beccafumi, certo il più valente ed estroso delle mie Cucine. L’ho remunerato con un giusto appannaggio di duecento fiorini e il buon uomo si è ritirato con la moglie Alessandra – una donna piena di senno e coscienza – in un casolare non di molto distante da Firenze, presso Peretola. E qui il Papaso – questo è lo strano nomignolo con cui veniva universalmente indicato – si è ingegnato a tirar su una locanda. Ma non mi era incognito il fatto che, talora, invitasse membri della Corte, stimabili persone, a festeggiare con i suoi piatti inimitabili le più solenni ricorrenze. Cossicché lo scorso 23 giugno, vigilia della riveritissima festa del Patrono fiorentino, saputo che il Papaso approntava il suo desco, ho voluto presenziare alla cena. Non vi sbigottite, né muovetemi rimprovero. Ho detto del mio umore strordinariamente melanconico, eppoi ritengo questi Beccafumi gente buona, lavoratori onesti, sudditi leali e fedeli: ed è compito precipuo dei Reggitori dello Stato riconoscere i Meriti e le Virtù così come è loro onere estirpare il Vizio ovunque alligni.

    Sedevano alla mensa del Beccafumi, quella sera, alcuni begli spiriti: l’archiatra Lorenzo Matti, fervido seguace delle teorie dello Harvey con cui talvolta converso, con frutto e diletto, della circolazione sanguigna; il Fontana, fisiologo e anatomista illustrissimo, che ho incaricato di visionare il nuovo Museo di Scienze Naturali (e stupirete se vi degnerete di visitarlo, ché non è una dozzinale Wunderkammer come tante ce ne sono nelle capitali d’Occidente); Ferdinando Magliabechi, nipote del grande Angelo, che ricalca l’orme del suo colendissimo zio in qualità di bibliotecario capo nel Palazzo della Dogana: egli aspira comunque al lauro poetico e si esibisce come Accademico degli Intruonati e buon compositore di versi dell’Arcadia (…)

    Era infine stato invitato, per volontà del sovrano, Francesco Macina, l’altro cuoco responsabile delle cucine granducali. Dalle testimonianze dell’epoca – non ultima quella dello stesso Granduca – si comprende che i due personaggi, il Macina e il Papaso, erano quanto di più diverso si potesse immaginare. In primo luogo dal punto di vista fisico: Beccafumi aveva una corporatura minuta e agile; Macina era un gigante di oltre due metri, dalla complessione massiccia e dall’andatura lenta e dondolante. Ma ben più sostanziose erano le differenze del loro carattere: tanto riservato e schivo appariva il Papaso, tutto concentrato nel lavoro di cucina, quanto estroverso, pronto alla battuta anche scurrile, il Macina. E queste differenze, nell’arco di quasi vent’anni, si erano evidentemente fatte sentire scatenando una rivalità che aveva oltrepassato il campo della professione e invaso – si vociferava – quello dei sentimenti: Macina, infatti, aveva cercato invano di sposare Alessandra, che aveva invece, alla fine, scelto il Beccafumi. Va detto, per inciso, che donna Sandra era davvero molto bella e spiritosa, tanto da permettere di farsi chiamare, dagli amici, con il soprannome di Grascia granducale: nomignolo che le era stato regalato per il ruolo che aveva ricoperto, in tanti anni, nelle cucine di corte. Pietro Leopoldo, inserendo tra i commensali anche il cuoco, aveva creduto che fosse giunto il momento di far svaporare gli antichi rancori ed appianare le residue rivalità. Ma quella sera del 23 giugno Macina era taciturno, si limitava a masticare straccamente le vivande e, di tanto in tanto, gettava qualche sguardo interrogativo all’indirizzo del Papaso che gli sedeva di fronte.

    Gli altri ospiti, al contrario, sembravano festeggiare il Giovedì grasso piuttosto che la festa di San Giovanni, tali erano le risa, lo scoppiettio di battute e la frenesia della conversazione.

    Il Fontana appariva entusiasta del cibo e, soprattutto, del vino. — Orsù, Vostra Grascia — disse scherzando quando si fu giunti all’ultima portata — svelateci la formola dei cenci! Penso che nessun scienziato, neppure il grande Galileo, saprebbe indovinarne la posologia.

    — Lo scienziato no — rise il Magliabechi — ma il poeta, che ha il dono divino dell’intuito, sì…

    — Più che dell’intuito — ribatté il Fontana — mi sembra che abbiate il dono dello stomaco, visto come vi siete rimpinzato!

    — Ahh… — mugolò il bibliotecario. — Osservazioni di ben misero calibro, degne di chi è abituato ad usare il metro

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