La guerra dei mondi
Di H. G. Wells
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Edizione integrale
Originariamente pubblicato a Londra nel 1897, La guerra dei mondi resta l’opera più famosa di Wells ed è considerato uno dei primi romanzi del genere fantascientifico. Con i suoi alieni implacabili e apparentemente invincibili, ha prodotto innumerevoli riduzioni, tra le quali è rimasta nella storia quella per la radio, interpretata da Orson Welles nel 1938: la storia, in forma di cronaca, venne narrata in modo così realistico che gli spettatori, terrorizzati, intasarono i centralini, credendo fosse davvero in atto un’invasione di extraterrestri. Altrettanto celebri le due versioni per il cinema, quella del 1953, diretta da Byron Haskin, e quella del 2005, diretta da Steven Spielberg con Tom Cruise nei panni di protagonista.
H.G. Wells
Herbert George Wells nacque a Bromley, nel Kent, nel 1866. Frequentò la Normal School of Science di Londra, e dalle conoscenze scientifiche seppe trarre linfa vitale per i suoi romanzi. È considerato il padre della fantascienza moderna, insieme con Jules Verne. Morì a Londra nel 1946. La Newton Compton ha pubblicato La guerra dei mondi, L’uomo invisibile e La macchina del tempo – L’isola del Dottor Moreau.
H. G. Wells
H.G. Wells is considered by many to be the father of science fiction. He was the author of numerous classics such as The Invisible Man, The Time Machine, The Island of Dr. Moreau, The War of the Worlds, and many more.
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Anteprima del libro
La guerra dei mondi - H. G. Wells
LIBRO PRIMO
L’ARRIVO DEI MARZIANI
Capitolo 1
La vigilia della guerra
Ma chi ci sarebbe su questi mondi se sono abitati?
Siamo noi o loro i Signori del Mondo?
E perché mai tutte le cose sarebbero fatte per l’uomo?
Keplero, L’anatomia della malinconia
Nessuno sul finire del XIX secolo avrebbe creduto che questo mondo fosse sotto minuziosa e attenta osservazione da parte di intelligenze superiori a quelle dell’uomo e tuttavia ugualmente mortali; che ci fosse qualcuno che studiava e analizzava gli esseri umani occupati nelle loro varie faccende con quasi la stessa applicazione con cui un uomo al microscopio esaminerebbe le effimere creature che brulicano e si moltiplicano in una goccia d’acqua. Con infinito compiacimento gli esseri umani se ne andavano di qua e di là per questo pianeta presi dalle loro attività nella beata certezza della loro supremazia sulla materia. È possibile che lo stesso facciano i microrganismi sotto la lente del microscopio. Nessuno si preoccupava che i mondi più antichi presenti nello spazio potessero essere fonte di pericolo per gli umani; e se mai li considerava, era solo per escludere come impossibile o come minimo improbabile l’eventualità che su di essi ci fosse la vita. È strano ricordare certi preconcetti di quei giorni andati. Se un terrestre immaginava la presenza di altri uomini su Marte, lo presumeva forse al massimo inferiore a sé e pronto ad accogliere con gratitudine una spedizione di missionari di civiltà. E invece sull’altra sponda dello spazio, menti che stanno alle nostre menti come le nostre stanno a quelle delle bestie più umili, intelletti evoluti e pratici e insensibili contemplavano questa Terra con invidia e architettavano con metodo e impegno i loro piani contro di noi. E all’alba del XX secolo venne il momento del grande disinganno.
Non c’è bisogno di ricordare al lettore che il pianeta Marte gira intorno al Sole alla modesta distanza di centoquaranta milioni di miglia, e che la luce e il calore ricevuti dalla nostra stella sono appena la metà di quelli che riceve questo mondo. Se le ipotesi astronomiche sono veritiere, Marte dev’essere più vecchio del nostro mondo e sulla sua superficie la vita deve aver avuto inizio ben prima che questa Terra cessasse di forgiarsi. Il fatto che in volume sia meno di un settimo della Terra deve avere accelerato il suo raffreddamento fino alla temperatura a cui può insorgere la vita. Possiede aria e acqua, e tutto quanto è necessario per sostenere l’esistenza di esseri animati.
Ma l’uomo è così presuntuoso e così accecato dalla vanità, che nessuno scrittore fino al termine del XIX secolo ha espresso la possibilità che la vita intelligente possa essersi sviluppata lassù più che da noi, forse a un livello estremamente superiore. Né in generale si è voluto notare che, giacché Marte è più vecchio della Terra, con una superficie di meno di un quarto rispetto alla nostra e più lontano dal Sole, di conseguenza non solo è più distante dall’inizio del tempo, ma anche più prossimo alla sua fine.
Sul nostro vicino il secolare raffreddamento che un giorno dovrà avere il sopravvento sul nostro pianeta è in una fase ben più avanzata. Le condizioni fisiche di Marte ci sono in larga misura ignote, ma sappiamo ormai che persino nella sua regione equatoriale la temperatura a mezzogiorno si avvicina a stento a quelle dei nostri inverni più rigidi. La sua aria è molto più rarefatta della nostra, i suoi oceani si sono ritirati fino a coprire non più di un terzo della sua superficie e con il lento mutare delle stagioni le enormi calotte ai poli si coprono di neve che periodicamente si scioglie inondando le zone temperate. Per gli abitanti di Marte quest’ultima fase di esaurimento, che per noi è ancora incredibilmente lontana, è diventata un problema quotidiano. L’immediatezza della necessità ha sollecitato il loro intelletto, amplificato i loro poteri e indurito i loro cuori. E guardando attraverso lo spazio con tali strumenti, e forti di tali intelligenze quali noi nemmeno immaginiamo, vedono alla modesta distanza di soli trentacinque milioni di miglia in direzione del Sole, come una stella mattutina portatrice di speranza, il nostro pianeta più caldo del loro, verde di vegetazione e grigio di acque, con un’atmosfera nebbiosa che è indice di fertilità, e con scorci di ampie distese di terre popolose e stretti mari affollati di navi a fare capolino tra le nubi.
E noi esseri umani, le creature che abitano questa Terra, dobbiamo essere per loro alieni e inferiori quanto per noi lo sono scimmie e lemuri. Intellettualmente l’uomo già ammette che la vita è un’incessante lotta per l’esistenza, e sembrerebbe che di questo siano altrettanto convinte le menti di chi vive su Marte. Il loro mondo è in via di raffreddamento definitivo mentre il nostro è ancora popolato di vita, ma popolato solo da quelli che considerano animali inferiori. Aggredire il pianeta più vicino al Sole è l’unica loro via di fuga dall’annientamento che, generazione dopo generazione, incombe ineluttabile sul loro futuro.
E prima di giudicarli con troppa severità dobbiamo ricordare quale spietatezza e distruzione totale la nostra specie ha inferto non solo sugli animali come l’estinto bisonte e il dodo, ma anche sulle sue razze inferiori. A dispetto della loro evidente umanità, i tasmaniani sono stati interamente spazzati via nello spazio di cinquant’anni in una guerra di sterminio condotta dagli immigrati europei. Possiamo ergerci ad apostoli della misericordia lamentandoci se i marziani ci aggrediscono con lo stesso spirito?
Sembra che i marziani abbiano calcolato la loro calata con incredibile precisione, forti evidentemente di conoscenze matematiche di gran lunga superiori alle nostre, e che abbiano messo a punto la loro azione con un’unanimità di intenti a dir poco perfetta. Ce lo avessero consentito i nostri strumenti, ci saremmo accorti del problema che si andava formando già nel XIX secolo. Uomini come Schiaparelli avevano osservato il pianeta rosso, e a questo proposito è ironico che per innumerevoli secoli Marte sia stato l’astro della guerra, senza saper interpretare correttamente le fluttuazioni delle tracce che pure trascrivevano con tanta accuratezza. È ovvio che i marziani si stavano preparando.
Durante l’opposizione del 1894, sulla faccia illuminata del disco fu avvistata una luce intensa, prima all’Osservatorio di Lick, poi da Perrotin a quello di Nizza, e successivamente da altri osservatori. I lettori inglesi ne vennero a conoscenza per la prima volta dal numero di «Nature» del 2 agosto. Io sono propenso a credere che il bagliore possa essere stato provocato dalla fusione dell’enorme cannone, situato in una vasta depressione del pianeta, da cui spararono su di noi. Durante le due opposizioni seguenti, nei pressi di quel lampo intenso furono notate strane tracce ancora inspiegate.
Sono trascorsi ormai sei anni da quando su di noi scoppiò la tempesta. Con l’avvicinarsi di Marte all’opposizione, Lavelle da Giava fece vibrare il telegrafo astronomico con la stupefacente notizia di una vasta esplosione di gas incandescente sul pianeta. Era avvenuta verso la mezzanotte del 12 agosto, e lo spettroscopio al quale aveva fatto immediatamente ricorso indicava una massa di gas in fiamme, principalmente idrogeno, proiettato verso la Terra a grandissima velocità. Verso le dodici e un quarto il getto di fuoco era diventato invisibile. Lavelle lo paragonò a una colossale vampata sprigionatasi improvvisamente e con violenza dal pianeta, come la fiammata di un colpo di cannone
.
Non avrebbe potuto trovare definizione migliore. Eppure il giorno dopo sui giornali non c’era niente di tutto questo, salvo un trafiletto sul «Daily Telegraph», e il mondo rimase ignaro di uno dei più terribili pericoli che abbiano mai minacciato la specie umana. Io stesso non avrei probabilmente saputo niente della fiammata se non avessi incontrato il noto astronomo Ogilvy a Ottershaw. Era profondamente emozionato da quell’avvenimento e, nell’esuberanza della sua eccitazione, mi invitò a fargli compagnia quella notte nell’osservazione del pianeta rosso.
Nonostante tutto quello che accadde in seguito, ricordo ancora molto bene quella veglia: l’ambiente nero immerso nel silenzio, la lanterna schermata che da un angolo rischiarava debolmente un tratto di pavimento, il costante ticchettio dei meccanismi del telescopio, la piccola feritoia nel tetto, una striscia di profondità striata di firmamento. Sentivo Ogilvy muoversi, invisibile ma percepibile. Guardando attraverso il telescopio si vedeva un cerchio di blu scuro in cui galleggiava il minuscolo pianeta rotondo. Appariva così insignificante, luminoso e piccolo e immobile, tracciato da sottili linee diagonali e schiacciato quel tanto da non essere perfettamente rotondo. Ma com’era piccolo, com’erano caldi i suoi riflessi argentati: una capocchia di spillo di luce! Sembrava fremere, ma in realtà a vibrare era il telescopio mosso dal meccanismo che lo manteneva puntato sul pianeta.
Vedevo il pianeta ingrandirsi e rimpicciolirsi e poi avanzare e tornare indietro, ma era solo perché avevo l’occhio stanco. Si trovava a quaranta milioni di miglia da noi, più di quaranta milioni di miglia di vuoto. Pochi si rendono conto dell’immensità del nulla in cui fluttua la polvere dell’universo materiale. Più vicino, ricordo, c’erano tre deboli punticini di luce, tre stelle telescopiche infinitamente distanti, e tutt’intorno c’era l’incommensurabile buio dello spazio vuoto. Sapete che aspetto ha quel nero in una gelida notte stellata. Attraverso un telescopio è ancora più profondo. Ed era per me invisibile, perché così lontana e piccola, volando rapida e sicura verso di me attraverso quell’incredibile distanza, sempre più vicina di migliaia di miglia minuto dopo minuto, giungeva la Cosa che ci stavano inviando, la Cosa che ci avrebbe portato tanti tormenti e calamità e morte. Mentre osservavo, mai mi sarei sognato nulla di tutto questo, nessuno sulla Terra si era immaginato la presenza di quel missile dalla mira precisa.
Sempre quella notte, sul lontano pianeta si sprigionò un altro getto di gas. Lo vidi io stesso. Un lampo dai margini rossastri, un profilo appena accennato nel momento in cui il cronometro segnava la mezzanotte; al che ne informai Ogilvy che prese il mio posto. La notte era calda, io avevo sete e tra le esclamazioni di Ogilvy, che osservava la scia di gas venire verso di noi, mi sgranchii goffamente le gambe e a tastoni nel buio arrivai al piccolo tavolo sul quale c’era il sifone.
Quella stessa notte, a un secondo o giù di lì dalle ventiquattr’ore trascorse dopo il primo lancio, da Marte partiva sulla Terra anche un secondo missile invisibile. Ricordo che ero seduto al tavolo nell’oscurità, con macchie verdi e rosse che mi fluttuavano davanti agli occhi. Avrei tanto desiderato avere una luce accanto alla quale fumare, lungi dal sospettare il significato del lumicino che avevo appena visto e tutto quello che ne sarebbe conseguito. Ogilvy rimase in osservazione fino all’una prima di cedere, e allora accendemmo la lanterna e ce ne andammo verso casa. Sotto di noi, nell’oscurità, c’erano Ottershaw e Chertsey e tutte le centinaia di persone che dormivano in pace.
Quella notte Ogilvy si lasciò andare a varie teorie su Marte e derise l’ipotesi popolare dell’esistenza di marziani che ci mandavano segnali. La sua idea era che sul pianeta stesse precipitando un denso sciame di meteoriti o che fosse in corso un’esplosione vulcanica. Mi illustrò l’improbabilità che in due pianeti adiacenti la vita si fosse evoluta in una medesima direzione.
«La probabilità che su Marte esista qualcosa di simile all’uomo è di una su un milione», dichiarò.
Quella notte e la seguente, verso mezzanotte, furono centinaia gli osservatori che videro la fiammata e così per dieci notti, ogni notte una. Perché i lanci cessarono dopo la decima, nessuno sulla Terra ha mai tentato di spiegarlo. Può essere che i gas prodotti dalle esplosioni avessero effetti negativi sui marziani. Attraverso potenti telescopi terrestri si videro, come piccole chiazze grigiastre in sospensione, dense nuvole di fumo o polvere offuscare l’atmosfera del pianeta e oscurarne la fisionomia a noi più familiare.
Persino i quotidiani presero finalmente interesse per queste turbolenze e apparvero un po’ dappertutto commenti di cronaca spicciola sui vulcani di Marte. La rivista satirica «Punch», rammento, se ne servì allegramente per la sua vignetta di satira politica. Intanto, nell’ignoranza generale, i missili che i marziani avevano spedito verso di noi viaggiavano attraverso lo spazio a una velocità che era ormai di molte miglia al secondo, sempre più vicini, ora dopo ora e giorno dopo giorno. Oggi mi sembra quasi incredibilmente fantastico che, con quel destino che ci stava piombando addosso, gli uomini si dedicassero serenamente alle loro incombenze quotidiane come se nulla fosse. Ricordo l’entusiasmo di Markham per essersi assicurato una nuova fotografia del pianeta per la pubblicazione illustrata che curava in quel periodo. Ai giorni nostri non ci si rende conto dell’abbondanza e dell’intraprendenza della nostra editoria nel XIX secolo. Dal canto mio ero occupato soprattutto a imparare ad andare in bicicletta e a studiare una serie di saggi che dissertavano dei probabili sviluppi dei concetti morali con il progredire della civiltà.
Una sera (quando il primo missile doveva essere a meno di dieci milioni di miglia) uscii a fare due passi con mia moglie. C’era una volta stellata, e le illustrai i segni dello zodiaco e le indicai Marte, un punticino splendente in ascesa verso lo zenit sul quale erano puntati molti telescopi. Il clima era mite. Mentre tornavamo a casa, ci incrociò un gruppo di escursionisti che tornavano da Chertsey o da Isleworth cantando e suonando musica. La gente si apprestava a coricarsi, e le luci nei piani superiori delle case erano accese. Dalla stazione ferroviaria giunse il suono dei convogli in manovra, un tramestio metallico che la lontananza smussava trasformandolo quasi in melodia. Mia moglie mi fece notare il bagliore del rosso, il verde e il giallo dei semafori appesi in una cornice di cielo. Tutto era così sicuro e tranquillo.
Capitolo 2
La stella cadente
Poi venne la notte della prima stella cadente. Fu vista di prima mattina sfrecciare su Winchester verso oriente, una traccia fiammeggiante alta nell’atmosfera. A centinaia devono averla vista e scambiata per una comune stella cadente. Secondo la descrizione di Albin, lasciò dietro di sé una scia verdastra che brillò per qualche secondo. Denning, la nostra massima autorità sui meteoriti, affermò che nel momento in cui fu avvistata era a un’altezza tra le novanta e le cento miglia. Gli sembrò che fosse caduta sulla Terra a un centinaio di miglia a est da noi.
A quell’ora io ero a casa nello studio a scrivere e, sebbene le mie porte-finestre fossero rivolte verso Ottershaw e non avessi abbassato lo scuro (perché in quei giorni mi piaceva levare gli occhi verso il cielo notturno), non vidi niente. Eppure l’oggetto più strano mai arrivato sulla Terra dallo spazio siderale dev’essere caduto mentre ero seduto lì, a me perfettamente visibile se solo avessi alzato lo sguardo al suo passaggio. Alcuni di coloro che ne intercettarono il volo raccontano che viaggiasse emettendo un sibilo. Io non avevo sentito niente. Nel Berkshire, nel Surrey e nel Middlesex devono essere stati in molti a vederlo cadere e, in generale, devono aver pensato che fosse precipitato l’ennesimo meteorite. Sembra che quella notte nessuno si sia preoccupato nel vedere quel corpo celeste cadere dal cielo.
Ma nelle prime ore di quella mattina il povero Ogilvy, che aveva visto la stella cadente ed era persuaso che da qualche parte nelle campagne tra Horsell, Ottershaw e Woking dovesse essere precipitato un meteorite, si alzò prima del solito, deciso a trovarlo. E lo trovò, poco dopo l’alba, e non lontano dalla cava di sabbia. Nell’urto il proiettile aveva scavato un’enorme buca facendo schizzare sabbia e ghiaia in tutte le direzioni, sparse in cumuli visibili per un miglio e mezzo nella brughiera. Verso est tutta l’erica era bruciata, e nell’alba si levava un rado fumo blu.
La Cosa era quasi interamente sepolta nella sabbia tra i resti di un abete che aveva investito riducendolo in frantumi. La parte visibile aveva l’aspetto di un gigantesco cilindro compatto, ricoperto in parte da una bruna incrostazione squamosa. Il diametro era di una trentina di metri. Si avvicinò sorpreso dalle sue dimensioni e ancor più dalla sua forma, giacché i meteoriti sono solitamente più o meno sferici. Ma era ancora così incandescente per il volo attraverso l’aria da impedirgli di accostarsi più di tanto. Il rumore vibrante dentro il cilindro, lo attribuì al raffreddarsi irregolare della sua superficie, perché lì per lì non immaginò che potesse essere cavo.
Ogilvy rimase ai margini del cratere che la Cosa aveva scavato per sé a contemplarne la strana apparizione, meravigliato soprattutto dalla forma e il colore così insoliti, senza minimamente immaginare ancora allora che potesse essere arrivata intenzionalmente. Nel primo mattino c’era un silenzio incredibile e il Sole, che spuntava da sopra la pineta verso Weybridge, era già caldo. Non ricorda di aver sentito cantare gli uccelli, quella mattina, di certo non c’era brezza e gli unici suoni erano i vaghi movimenti all’interno del cilindro incandescente. Era tutto solo in mezzo al parco.
Poi a un tratto notò con un soprassalto che alcune parti dell’incrostazione scura, quella materia bruna che copriva il meteorite, si stavano staccando dall’estremità circolare. Cadevano a scaglie nella sabbia. All’improvviso si staccò un pezzo più grande precipitando con un tonfo secco che gli fece salire il cuore in gola.
Per un minuto non riuscì a capire che significato avesse e, nonostante il calore eccessivo, scese nella fossa per osservare la Cosa più da vicino. Era ancora convinto che i fenomeni fossero dovuti al raffreddamento, ma a contraddire quell’ipotesi c’era il fatto che la cenere si staccasse solo dall’estremità del cilindro.
Allora ebbe l’impressione che, sebbene molto lentamente, la cima circolare del cilindro stesse ruotando. Era un movimento molto graduale: lo scoprì solo notando che un segno nero, che cinque minuti prima era vicino a lui, si trovava ora sull’altro lato. Ciononostante, ancora non riuscì a trarne un’indicazione ragionevole, finché non udì un fruscio sommesso e vide il segno nero scattare in avanti di un paio di centimetri. Allora per lui fu come un’illuminazione. Il cilindro era artificiale, cavo, con un’estremità che si andava svitando! Qualcosa, dentro il cilindro, stava svitando il tappo!
«Dio del cielo!», esclamò Ogilvy. «Lì dentro c’è un uomo. Degli uomini! Quasi arrostiti a morte! Che cercano di salvarsi!».
Subito, con un balzo immediato della mente, collegò la Cosa alla fiammata su Marte.
Il pensiero di una creatura imprigionata là dentro gli fu così raccapricciante da fargli dimenticare il calore e spingerlo ad avvicinarsi al cilindro per dare una mano a girare l’estremità. Per fortuna però l’aria cocente lo fermò prima che si bruciasse le mani sul metallo che ancora non aveva smesso di ardere. A quel punto sostò per un momento indeciso, poi si girò, si arrampicò fuori del cratere e si mise a correre all’impazzata verso Woking. Dovevano essere circa le