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Letargo ovvero La finestra traslata
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E-book683 pagine9 ore

Letargo ovvero La finestra traslata

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Info su questo ebook

Frammenti di vetro, sparsi e insidiosi feriscono il lungo incedere di Luigi nell’oscuro labirinto della sua esistenza. I raggi del sole che filtrano dalle imposte colpiscono le schegge, donando loro particolarità caleidoscopiche. Ogni scomposizione e relativa trasformazione delle immagini riporta Luigi al vissuto, al dialogo interiore, al confronto con i suoi fantasmi e alle impossibilità ad accettare la sua esistenza. La staticità letargica lo inibisce negli slanci e impeti trasportandolo in una dimensione di affannosa ricerca. Il suo passato è costantemente presente. Dopo aver vissuto in istituti previdenziali fino alla maggiore età, lo zio Leopoldo, suo mentore e guida, lo accoglie in casa. La sua vita inizia da qui, con l’amore disperato e assoluto per Milena: pagine d’amore drammatico, legato a una triste vicenda. Milena è intrisa di rabbia e di passione. Anche lei letargica e assonnata non va oltre i suoi pensieri e al suo risentimento, crede possibile vivere affacciandosi al suo trompe l’oeil e rivivere quei momenti…
Letargo ovvero la finestra traslata è il secondo romanzo della trilogia di Carlo Amadio. Struggente e Carico di pathos, il lirismo poetico giunge al parossismo e rivela un’emozione travolgente, ma è anche una analisi accorta dei tempi politici trascorsi che hanno caratterizzato il nostro Paese, una condanna all’emblema del capitalismo che si erge a padrone assoluto degli esseri umani.

Carlo Amadio è nato a Milano ove la famiglia si sera trasferita per motivi politici. Ha vissuto a Trastevere negli ultimi anni di guerra, poi ancora a Milano fino al 1953, anno del definitivo rientro a Roma. Al quarto anno di Liceo ha avuto un breve ma intenso periodo letterario pubblicando quattro gialli da edicola e due novelle. Conseguita la maturità scientifica si è inscritto ad Architettura laureandosi a pieni voti con pubblicazione della tesi.
Per alcuni anni ha svolto attività didattica presso la facoltà e con Cattedra presso gli ITIS fino al 1993. Ha svolto la professione per cinquant’anni, redatto Piani Urbanistici e Progettazioni di Edilizia Civile e Sociale. Letargo ovvero La finestra traslata è la seconda parte della Trilogia che comprende Conoscere per capire e Apologia di reato ovvero La Piazza attraversata dall’Asse dell’Universo.
LinguaItaliano
Data di uscita31 lug 2022
ISBN9788830667730
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    Anteprima del libro

    Letargo ovvero La finestra traslata - Carlo Amadio

    Come sogni strappati

    a sonni irrequieti

    (piccola traslazione temporale)

    1.

    L’intonaco si stacca dalle pietre e si sgretola tra le dita impolverate che hanno grattato come rastrelli tra gli strati incoerenti addossati alla base delle pareti.

    I grumi sono cristalli di ghiaccio nella polvere impalpabile, biancastra come farina di grano non depurata della crusca. Le scarpe ne sono velate. Le punte hanno cancellato i solchi tracciati dalle dita per frugare nella massa ma non hanno incontrato consistenze diverse dalla superficie del pavimento, ancora livido e compatto al centro della stanza ma disgregato dove le raffiche hanno infierito.

    Impronte diverse attraversano irrazionali l’ambiente, evidenti quando la polvere più sottile appare compressa e radunata al centro di macchie bordate dagli aloni.

    I frantumi delle lastre di vetro, misti alle schegge di legno degli infissi, discosti dai grumi d’intonaco sbriciolato, sono sparsi intorno all’ingresso che, dalla strada, immette direttamente nell’ambiente.

    La soglia di peperino, rimossa e riposta nella sede, ridotta in pezzi labili, ha ondeggiato sotto il suo peso quando l’ha calpestata nell’entrare. Sembra sussultare ancora al riverbero tranciato dai lembi del nastro di plastica bianco e rosso, fluttuanti nella corrente d’aria provocata del riscontro di un vano invisibile che li risucchia verso l’interno.

    Una luce senza ombre, lo richiama nell’ambiente contiguo attraverso un arco.

    "Che cerchi, chi cerchi?".

    L’aria è stranamente asciutta, carica di odori ed aromi leggeri. Nessuno prevale né risulta distinguibile tra tanti, subito rincorso da un altro che ne disperde il sentore, filtrato attraverso una finestrella senza vetri e raccolto chissà dove dal fondovalle.

    A lato del camino una modesta catasta di ciocchi in parte bruciati è ingrigita dalla cenere del focolare passata al setaccio e riappeso dopo l’uso d’accatto al gancio del trave. Una seggiola impagliata e sfondata è rovesciata accanto alla legna. La raddrizza e si siede mantenendola a fatica in equilibrio sulle tre gambe non danneggiate.

    Gli occhi si perdono nel buio del focolare.

    Nella cappa giocano strani fruscii che echi minuti trasformano in note diverse.

    Accende un fuoco immaginario sotto il tegame dal fondo lacero e ispessito dal nero grumoso cristallizzato come coke dall’uso nel tempo, ma non riesce a dargli un contenuto.

    "Con cosa vi sfamavate?".

    Lo sguardo scorre sulle pareti.

    Nella penombra l’intonaco non presenta lo sfascio dell’ambiente lasciato alle spalle e i crateri, più radi e dai contorni più definiti, appaiono appena scalfiti da una operazione di raccolta contabile più rapida e più semplice.

    Dalle travi del soffitto pendono ragnatele cariche di polvere grigia connaturata con la trama, spesse come corde sfilacciate e palpitanti nella corrente d’aria.

    Chiude gli occhi e spinge la fronte tra le mani.

    "Fratello mio, fratello mio…".

    I pollici premono le tempie sopra un pulsare lento che varia al pensiero e diviene quasi rumore.

    "Quando ti ho cercato non ti ho trovato… o non hai voluto…".

    Si alza mentre la seggiola si rovescia per assumere la stabilità di quiete.

    "… farti vedere".

    Qualcosa rotola e si nasconde sotto i ciocchi ammassati. Le dita sono sporche di cenere, ma ora il pugno serra un grumo di piombo sfuggito al novero minuzioso di una ricerca di ufficio ormai annoiata. La mano si riapre solo dopo che ha penetrato la tasca del giubbotto per lasciarvi cadere il pezzo di metallo.

    Ritorna nella stanza d’ingresso poggiando i piedi sulle sue stesse orme. Si addentra nell’angolo più buio scansando il relitto al centro dell’ambiente. L’ammasso di tavole forate e scheggiate a malapena denunciano la geometria di un tavolo rovesciato.

    Si avvicina alle ferraglie del letto. Nessun lembo di stoffa o riccio di lana è rimasto imprigionato come sogni strappati a sonni inquieti tra gli uncini delle reti smagliate.

    Ritrae la mano sinistra che ha scorso il ferro ruvido della testiera, ossidata di ruggine rossa. Come sangue rappreso. Forse sangue cristallizzato.

    "… Solo il viso era indenne. La donna giaceva sul letto poco distante, come una massa informe…".

    Porta la destra alle labbra che stringe tra le dita con un grido silenzioso.

    Si lascia cedere lentamente sulle ginocchia.

    1.1

    Non sa quanto tempo è rimasto chino vicino al letto, con la destra che comprime al petto la sinistra chiusa a pugno. Una quantità che non sa né vuole valutare.

    Nelle sfumature del buio tra i rottami di ferro e il relitto del tavolo, ora gli occhi sono in grado di percepire il segno rozzo, tracciato con il gesso, poco più chiaro della polvere che ricopre il pavimento.

    "… al suolo, la faccia a terra e le braccia aperte. In mano la pistola con il proiettile in canna…".

    Raccoglie un’assicella dai rottami del tavolo e la fa scorrere di coltello sul pavimento liberando la superficie dallo strato più consistente di polvere.

    Il tratto di gesso si richiude delimitando una sagoma. Quella che circoscrisse il corpo esanime del fratello.

    Una storia finita

    2.

    Quel tuo parlare serrato e sommesso con lui, quel vostro discorrere che tende ad escludermi come interlocutore e nello stesso tempo lascia trapelare di esserne io oggetto e in cui non voglio essere coinvolto, e che pure lentamente mi prende con il suo persistere più sfacciatamente nel tempo, lo sento reclamarmi emotivamente, sollecitare la sensazione indesiderata del dover partecipare. Ne percepisco la provocazione attraverso parole sussurrate che non posso intendere, di cui non reclamo il senso, che non riescono a suscitare il mio interesse tra le occhiate che mi rivolgi, furtive tra le ciglia, rapide, ma non tanto da non voler essere notate.

    La tua mano sfiora spesso la sua con un compiacimento ostentato, mentre i tuoi sorrisi si fanno più aperti e il tuo viso si avvicina al suo, si inclina a raccogliere e a imprigionare il suo sguardo che ha smesso di scrutarmi fuggevole ma sicuro. Non sono più parole ormai le vostre bensì respiri che si fondono ed io, che pur non lo richiamo, percepisco un dolore lontano, assopito ma non dimenticato, estraneo a voi che ignorate di suscitarlo nella volontà di ferirmi, comunque in modo diverso, e a fondo, ma senza esserne la causa.

    Dalla bottiglia il vino scorre frequente nei vostri bicchieri a piccole dosi che spariscono con una rapidità indifferente, che rende inutile il travaso nei due vetri e che già vi fa attingere dallo stesso orlo.

    Allontani la ciocca di capelli scesa sulla bocca, trattenuta appena tra le labbra umide di vino e di saliva, come voce alitata dall’intimo, scuoti la testa con il gesto molle che la discosta e la riavvicina senza ricomporre la massa soffice che ho amato… per qualche tempo: ora non più.

    Si ritrae, come sferzato in viso dai tuoi capelli, ma è per dire parole che devo intendere e che mi devono ferire.

    2.1

    Non è stato l’unico a raccogliere le parole solo in apparenza rivolte a Tilde.

    Omar ha scollato gli occhi dalla crostata alla marmellata di more che né la madre né uno dei due adulti si è ancora deciso a tagliare, ed ora lo spia per vedere la sua reazione, dando corpo alle allusioni dell’altro. L’espressione del bambino sembra materializzare la sua domanda, più di attesa che di curiosità.

    Si stacca dal tronco del leccio. Esce dall’area più in ombra, da dove a lungo, in silenzio, ha osservato lo scorrere dell’acqua del ruscello tra i raggi riflessi del sole e le opere di micro ingegneria idraulica da poco interrotte dal ragazzino, non proprio indifferente come lui ai giochi della madre con l’altro.

    Senza alzarsi, prende il coltello dalla tovaglia stesa sull’erba e ne immerge la punta al centro del dolce. Due tagli, preleva un settore di quarantacinque gradi e lo porge usando la lama come una paletta.

    «Prenditi ’sta fetta di crostata e vatti a fare una passeggiata… Non è il classico gelato, ma è come se dovessi andartelo a comprare».

    Si alza a fatica. La situazione di cassintegrato da un anno e sette mesi lo hanno appesantito né servono a ridargli la sua forma le due mattinate a settimana a scaricare e a immagazzinare in nero nel bottegone dell’altro.

    Percepisce la contrarietà del ragazzino che il bottino tra le mani non riesce ad addolcire. In quel gioco scemo, esautorato dell’antagonismo, di adulti, tifa per lui ed ora lo guarda interrogativo e con perplessità per la sua rinuncia alla rissa.

    Nello stato di precarietà con l’esistenza in generale e con quello della madre in particolare, ha con lealtà rifiutato di sostituirsi alla figura del padre che il ragazzino non ha conosciuto, e tuttavia l’affetto reciproco è sfuggito al controllo della razionalità.

    «L’ho portato in gita da queste parti mica per caso. Perché non va a vedere? in un quarto d’ora ci arriva… Ma non sarà geloso…o è il lavoro che lo affatica?».

    Non ha raccolto il berretto di tela. Ha dato per scontato il suo ritorno alla merenda sull’erba e di aver accettato i due aspetti della provocazione masticati dall’altro, tali da essere sentiti non solo dall’orecchio e dalle labbra della donna.

    Si allontana. Alle spalle, poco distante, percepisce passi inutilmente attutiti.

    2.2

    È da un quarto d’ora che mi stai osservando senza cercare il mio sguardo, anzi sviandolo quando nei miei spostamenti ti sono quasi di fronte ed è la seconda volta che mi butti il mozzicone della sigaretta acceso ai piedi, tra gli scarti degli imballaggi. Lo spengo roteandoci sopra la suola della scarpa quasi un gesto connaturato nel lavoro di magazzinaggio che da quattro ore eseguo senza pause a favore del tuo capitale.

    Certo il mio distacco ti irrita.

    Il sudore mi scende dalla fronte, mi brucia gli occhi quando mi cola tra le ciglia. All’interno della tuta i miei panni sono zuppi. Ti sei tolto la giacca, ma non per muovere le braccia, e la camicia lavata e stirata di tintoria e il nodo della cravatta leggermente allentato sul colletto slacciato solo per presiedere, rimarcano la condizione dei nostri stati diversi che in tre mesi si va ormai radicalizzando.

    Il tono confidenziale di Tilde quando ci ha presentati, io recente compagno di letto, tu vecchio compagno di lotte, casualmente incontrato dopo dieci anni, di quando, sollecitato da lei, mi hai offerto il lavoro in nero nel tuo bottegone per salvarmi dallo spregio dell’elemosina della cassa, appare ormai il gioco di una metafora amena.

    Il discorso della provocazione non regge. Il fatto che solo toccando il fondo si possa pervenire alla consapevolezza del proprio stato non mi convince e tu, malgrado i tuoi discorsi di cauto rivoluzionario, ti imbrigli, o meglio, ti crogioli nel ruolo sociale del padrone di cui, almeno con me, ti compiaci.

    «Ieri mattina è passata Tilde».

    Ti sei acceso un’altra sigaretta. E continui:

    «Era una bella ragazza prima e ora s’è fatta una gran bella… gnoc... donna… Ed è rimasta una vera compagna».

    Ti avvolgi nel fumo di profonde boccate materializzando l’effimera barriera verso il dipendente per poi sfondarla con arroganza confidenziale.

    «Ho deciso di portarvi in gita domenica».

    Sballo il contenitore delle scatole di accessori per computer e prendo a disporli sul ripiano.

    «Tilde s’è dimostrata entusiasta… Ha l’impressione che quel ragazzino resti troppo in casa e che subisca la depressione che vi regna… che gli dai…».

    Mi asciugo il sudore della fronte e tu mi fai credere di prendere il gesto come un segno d’assenso.

    «Conosco un posto ideale per una scampagnata, tra gli Ernici e il Parco Nazionale d’Abruzzo…».

    Mi getti la mezza sigaretta accesa tra i piedi. Il tempo di spengerla e di connettere e sei già in cima alle scale. Mollo le scatole sul pianale e faccio per raggiungerti, ma al posto tuo c’è Donato che scende. Quando atterra coi suoi centoventi chili ha l’ironia incorniciata nel faccione inumidito da una miriade di perline grasse.

    «Hai fretta di andartene oggi, com? Guarda che la sirena non è ancora suonata… anche se Vito se n’è andato».

    Toglie l’ingombro, salgo in un lampo, ma al piano terra non ci sei più e neppure fuori, sul marciapiedi. La contrarietà si trasforma in risentimento, mentre lo smog di viale Marconi mi si incolla al viso come una ragnatela e mi deprime i polmoni.

    2.3

    Il rumore di passi esitanti e l’uh! uh! di richiamo. Poi il rumore sordo della soglia sconnessa che basculla sotto il peso in movimento e un’ombra che introduce effetti smorzati sulle pareti più rischiarate. Non può cogliere l’espressione sul viso controluce del piccolo mentre la sagoma minuta emerge nel buio della casa.

    Ne percepisce l’ansia e il timore.

    «Gino…» lo sente sussurrare.

    Gli rivolge un sorriso, spera, e gli accarezza la testa. Poi finge stupore:

    «Dunque, mi hai seguito!».

    «Non venivi più fuori da là dentro…» dice timoroso.

    Ha un rigo rosso bruno su una guancia che sembra una ferita e in una mano stringe un pezzo di crostata che ora gli solleva al viso.

    «Ne ho conservato un pezzo per te».

    Gli trattiene il polso e china la testa sul dolce per staccarne un morso.

    «Grazie, davvero buona. Questa però mangiala tu. Dovremo fare molta strada per tornare e avrai bisogno di energie».

    In prossimità del torrente intensifica il rumore del calpestio dei passi sul sentiero e il bambino lo imita fingendolo un gioco.

    Tilde non è in piedi ma scruta il loro ritorno. Ha il viso contrariato e con questa espressione si rivolge ad Omar:

    «Ma dove ti eri cacciato?».

    Il bambino non risponde né Luigi intende fornire per lui spiegazioni che sono in linea con i disegni della donna, tuttavia le si avvicina frugando nella tasca del giubbotto. Su di lei, le tende la mano chiusa a pugno e impolverata. Di riflesso Tilde gli sottopone la sua a coppa. Il contenuto scivola da una mano all’altra.

    «Questa non ha ferito, ma è stata raccolta sul campo. Potete aggiungerla alla collezione dei feticci… morali».

    Ha il viso rosso di vino e d’altro e fa per alzarsi ma Gino lo rimette a sedere con facilità sospingendolo con una mano sulla fronte. Dalla stretta di mano della presentazione, dopo tre mesi che lavora nel magazzino, questo è il loro secondo contatto fisico che sulla fronte sudata dell’uomo seduto a terra, lascia l’idea dell’impronta di un palmo.

    Mentre si inchina sull’acqua del torrente per rimuovere la polvere dalle dita e bagnarsi la faccia accaldata, lo raggiunge la voce impastata al sarcasmo dell’altro, bassa ma non al punto di non essere udita:

    «È proprio senza coglioni!».

    «Se ne lava le mani… come Pilato» osserva Tilde più diretta. Udibile.

    2.4

    Mi guardi dalla porta della camera da letto e ti trovi dove a quest’ora non dovresti essere.

    I tuoi occhi neri, profondi nel viso afflitto, ricordano quelli sofferenti dei tuoi confratelli lontani come appaiono da reportage televisivi e dalle foto dei giornali.

    Tua madre (l’avevo da poco conosciuta) l’unica volta che l’ho vista piangere, mi disse, che proprio in questa camera, eri stato concepito e nato, durante una missione in Palestina, dall’amore con un fedayin poco prima che questi fosse ucciso.

    «Non dovresti stare a giocare a casa di Tonino?».

    Hai un brivido e ti stringi nelle spalle. Ti mordi il labbro inferiore e mi rispondi con un’altra domanda.

    «Te ne vai?».

    Guardiamo entrambi la valigia a sacco in cui sto gettando senza metodo i capi di vestiario essenziali, il rasoio, un paio di libri…

    Compari sulla porta alle spalle di tuo figlio, il trucco leggero ma non rapido, più bella, se possibile. Alla domanda di Omar rispondi tu.

    «Ma no che non va via! Vieni, andiamo da Tonino che ti sta aspettando con la porta aperta sul pianerottolo».

    Solo allora mi accorgo che tieni tra le mani un sacchetto di carta. Tua madre, quasi ti sospinge, vuole che tu venga a portarmelo. Mi guardi per un istante e poi lo lasci cadere nella sacca. Ne escono un blocchetto e un pennarello.

    «Sono per disegnare gli alberi, come mi avevi promesso».

    Non mi guardi più e fuggi. Fuggi davvero.

    Inserisco gli oggetti nel sacchetto col timore di rovinarli. Dal pianerottolo mi giungono le voci della vicina e dei bambini, poi lo scatto della serratura della porta d’ingresso che viene richiusa.

    Torno alla sacca con un maglione con cui copro il sacchetto di carta, e nel mentre sento cigolare la porta del bagno nel corridoio.

    Ho aggiunto altre cose ma non ho colmato la valigia. Tiro le lampo e blocco la fibbia. Mi alzo.

    Ti percepisco qualche istante prima di vederti. Ti ha preceduto l’alito leggero del tuo profumo. Sei sulla porta, a piedi nudi ed hai lasciato i vestiti da qualche parte. Hai la mano allo stipite e la fronte appoggiata. Hai sciolto i capelli che ora ti ricadono sulle spalle con malizia domestica. Hai affidato il peso del busto ad un’anca e la tua femminilità che prorompe, vorrebbe precludermi la via di uscita.

    «Ti ho amato, Tilde, con la mia disperazione. Ora non ti amo più.

    «Dormivi profondamente questa mattina. Ho telefonato in redazione e ho preso un giorno di permesso da passare tutto con te…».

    Mi avvio ad uscire dalla camera e ti disponi al centro del vano della porta.

    «Non c’è stato e non c’è niente tra me e lui, stupido! L’abbiamo fatto per provocarti, per suscitare la tua rabbia, per saggiare la tua disperazione… Il mondo precipita… e noi abbiamo bisogno di uomini come te, cerebralmente e motivatamente incazzati, capaci di combattere con forza e intelligenza, che hanno subito torti…».

    «Certo, con ieri, anche quelli ereditati e…».

    Ti sono praticamente addosso nella mia intenzione di raggiungere la porta e tu non accenni a tacere né a spostarti.

    «… Quanto alla disperazione, ci siamo praticamente riusciti».

    Mi prendi la testa tra le mani e mi baci sulla bocca. La mia mano libera ti sale istintivamente alla schiena e ti comprime sul mio petto. La tua lingua si inserisce tra le mie labbra, ma è un attimo. La mano mi scende al fianco. Mi distacco.

    «Fermiamoci qui. Ritarderei solo di un’ora…».

    Ora mi guardi negli occhi, superiore e ironica, con la tua consapevolezza di donna che tuttavia ti trae in inganno.

    «Ma dove vai, senza casa, senza lavoro… senza amore… senza Omar?…».

    Parli e sorridi, ma per un momento i miei pensieri sono altrove. Avevo tutto con te e fu la fine di tutto. Con te nulla mi è mai appartenuto e nulla mi appartiene… ed ora è la fine, sì, ma la fine di nulla.

    Scuoti la testa intuendo la determinazione nei miei pensieri e dai tuoi capelli si leva un tepore che mi sale al viso. Sì, è vero che ti ho amato. Allora avevo la disperazione nel cuore, e oggi, quella assopita, ne avete aggiunta una nuova e diversa.

    «… Senza me – continui – … Senza ideali…».

    Avrei voluto andarmene anche senza parole e la giornata di ieri è sembrata, della nostra vicenda, l’epilogo che rendesse superfluo ogni chiarimento. Una mattinata, questa, come tutte le altre, tu al lavoro e Omar a giocare dai vicini ed io che raccolgo le quattro tracce di un percorso accidentale in un paese che non mi appartiene e che di me, non volendone io far parte, non sa che farsene.

    Anche tu non vuoi le mie parole perché mi metti la mano sulle labbra. Con la mia ti raccolgo le dita e le bacio sulle punta.

    «Grazie, addio».

    Ma devo passare con l’ingombro del tuo corpo che resta nudo appoggiato allo stipite e di fatto mi impedisce il passaggio. La gamba tra le mie ti aggiunge certezze che credi di avere perché il tuo sorriso, mio malgrado, mi perviene al sesso.

    «Perché non vuoi essere dei nostri?».

    2.5

    Gli occhi rivolti alla porta d’ingresso sono attratti dal piccolo oggetto che la donna ha appoggiato sulla consolle la sera avanti, al rientro dalla gita.

    È un piccolo grumo di piombo. Strappato alle viscere della terra e, fuso, è rinato dall’ingegno dell’uomo per uno scopo preciso. Tuttavia, così concepito, ha mancato la sua ragione d’essere. È il rottame di un fine, è un aborto.

    È piombo, peso per antonomasia, eppure, per lui, pesa meno di niente.

    La donna ne ha seguito lo sguardo.

    «Uno dei cento che gli hanno tirato addosso…».

    Lo insegue:

    «Come è possibile che non ti senti rimescolare dentro?».

    «Ho bisogno di capire e voi, con i vostri pregiudizi, non mi sareste d’aiuto».

    Nella strana casa di uno strano zio

    3.

    Questi vostri occhi di umanità profonda, questo vostro sguardo così simile a quello puro e innocente di Lara, che talvolta mi è capitato di cogliere anche in Omar, quasi eredità di un marchio di fabbrica, mi hanno sempre turbato ed ora sono lì che mi guardano dal buio, buchi neri cerchiati di neve dello spazio umano che tutto assorbono, restituendo solo il vuoto del nulla cosmico.

    3.1

    Non è più entrato nella casa dello zio Leopoldo, cugino della madre, unico parente sopravvissuto, alla morte di lei.

    3.2

    Quando era arrivato a Luna di Roma, la cittadina gli era apparsa un centro ostile, non per caratteristiche autoctone, in quanto per esser provincia della Capitale, usciva dalla grettezza congenita comune a tante consorelle, ma per il riflesso di quel che egli stesso portava con sé, della tragedia familiare e degli anni passati negli istituti di assistenza. Non ricorda perché, ma solo come fosse approdato a quella casa, presso lo strano zio sconosciuto, e che non sapeva ancora, in qual modo la gente del paese lo avesse schedato.

    C’era giunto una sera di primavera, quando già l’inverno aveva smesso di infierire anche nell’istituto di montagna in cui da ultimo era stato accolto.

    Un uomo, nella penombra che circondava l’arrivo dei pullman, dopo avergli chiesto se fosse Luigi, non aveva atteso risposta, aveva preso per lui la valigia estratta dall’autista dal ventre dell’automezzo incrostato di fango, e si era avviato verso la periferia del paese, senza schivare sguardi curiosi ed ottusi.

    L’aria era fresca e umida, sorprendentemente profumata per chi scendeva stordito da un mezzo di trasporto di quel tipo, dopo un percorso lungo e non del tutto levigato e rettilineo, tra i fiati pesanti dei pendolari che rientravano con le stesse condizioni di luce con cui erano partiti.

    L’uomo aveva mantenuto il silenzio per l’intero tragitto e non aveva dato segni di avvertire la necessità di spiegazioni neppure quando, lasciate alle spalle le ultime case del paese, aveva preso per una strada di campagna.

    «È qui…» aveva mormorato infine, raggiunto il limite in cui l’ultimo lampione della carreggiata concludeva la sua funzione, e aveva aperto, su un’area tenuta a prato, un cancello di legno privo di serratura.

    Una luce al neon, annidata nel portichetto d’ingresso di un fabbricato più simile a un granaio che ad una casa, rischiarava il viottolo che fluiva nel prato secondo un percorso in leggera discesa, evitando strane masse quasi emerse alla superficie verde dal ventre oscuro della terra.

    La porta a vetri colorati, incastrati in telai d’acciaio, prendeva l’intera altezza del portico facendola apparire più grande di quanto in realtà fosse. Sospinta dalla maniglia anch’essa priva di serratura a chiave, era roteata sui cardini confermando l’impressione di pesantezza, mentre una massa nera e pelosa, quasi calciata dall’interno buio, aveva preso a rimbalzare, con mugolii, guaiti e fremiti, tra le gambe dell’uomo.

    «Lara, saluta Gino che è venuto a vivere con noi» aveva mormorato chinandosi sulla piccola meticcia che all’invito aveva preso a occuparsi di lui usando il naso carnoso come rumorosa sonda d’indagine.

    Una luce abbagliante s’era accesa, dirompente. Suddivisa in fonti diverse, assieme alle disposizioni sfalsate dei pavimenti, differenziava il grosso ambiente, chiarendo funzioni dissimili eppure immediate. Dalla parte opposta all’ingresso porticato, un imponente diaframma scorrevole sotto una delle due capriate, tagliava verticalmente i tre quarti dello spazio coperto da un tetto a due falde, diverse per pendenza e dimensioni, per più di cinque metri dal suolo. Alla zona ribassata, che si presentava come un grosso studio-laboratorio, dotato di macchine e attrezzature utensili, di piani e castelli di lavoro, si accedeva attraverso tre gradini che scendevano parallelamente al diaframma. Sulla destra una scala in legno serviva due aree soppalcate, divise alla stessa quota, delimitate da pareti mobili che ne rendevano intimi gli spazi circoscritti. Sotto i soppalchi, due porte immettevano in ambienti estraniati, probabilmente servizi. Sulla sinistra il pavimento risultava diversificato dai materiali e dai dislivelli raccordati con alcuni gradini. Una cucina rustica si apriva ad un’area intermedia con un lungo tavolo e un caminetto enorme. Comunicava di lato con una zona arredata con due divani ad angolo racchiusi da una libreria carica di libri, articolata anch’essa ad angolo e che includeva all’interno una scrivania. Una delle tante luci, concentrata sul tavolo, dava risalto alla varietà di cibi disposti sul piano e nei contenitori senza ricercatezza ma con logica essenziale.

    Immerso nella temperatura ambientale confortevole, aveva percepito la diversità di odori che stimolavano più curiosità che accettazione o dissenso e tra essi il più penetrante e diffuso di legno di canfora.

    Aveva voltato lo sguardo sull’uomo che ora poteva osservare alla luce e che da parte sua lo scrutava con pari interesse.

    Aveva un corpo asciutto vestito con spigliatezza giovanile dato che appariva uscito ormai dalla maturità. Indossava jeans e un maglione su una camicia di flanella a quadri. I capelli, lunghi alle spalle, col bianco prevalente sul grigio, erano raccolti sotto alla nuca da un lacciolo colorato.

    Era evidente che aveva voluto vivere il momento dell’arrivo del nipote ancora sconosciuto, solo con lui, nel chiuso di una intimità perfetta e confezionata, non in presenza di estranei, lontano dalla curiosità e dalle intrusioni di paese, e per questo non aveva fatto parola né rivolto altro sguardo verso di lui per l’intero percorso. Gli aveva sorriso e il ragazzo si era trovato per la prima volta tra le braccia dello zio che gli sussurrava:

    «Benvenuto, Luigi. Questa è casa tua».

    L’uomo aveva avvertito l’irrigidimento spontaneo, quasi difensivo, del ragazzo, quale contenitore di sentimenti in espansione e di esperienze dure che andavano dalla disintegrazione violenta della famiglia al pellegrinare negli istituti di assistenza dove la chiusura e l’egoismo erano stati i soli strumenti indispensabili all’autoconservazione.

    «Vedrai, caveremo dal tuo bagaglio solo le cose belle da ricordare».

    Era stato come quello strano zio, emerso anch’egli da un’altra invenzione del destino, gli aveva promesso stringendolo a sé, incurante della sua diffidenza, consapevole di una vittoria lenta e difficile ma certa.

    «Vieni, non avrai mangiato niente in viaggio, e devi avere una fame da lupo».

    Era proprio vero, c’era voluto tempo, ma un tempo che giorno dopo giorno aveva avuto qualcosa di nuovo e di bello da offrire.

    3.3

    La vegetazione incolta ha preso il sopravvento.

    Rampicanti selvatici hanno legato e imbavagliato le composizioni di ferro e pietra nate dalle concretizzazioni di dialoghi tra materia, natura vivente e il singolare zio, imprigionate in forme geometriche regolari, coni, cilindri, piramidi, ellissoidi, calotte sferiche. I raggi del tramonto dietro la collina, continueranno ancora per poco ad accendere di rosso le loro sommità.

    Le sterpaglie, diffuse nel giardino con altezza incostante, restituiscono sottoforma di vapore aromatico il calore della giornata di sole assorbito dal suolo e con esso sembrano levitare le forme verdi, come pensieri emersi dalla terra, galleggianti su un tappeto giallo di bambagia riarsa.

    Poggia la mano sul cancello che non cede al tentativo di apertura, ostacolato dalla ruggine delle cerniere e dalla gramigna. Il sentiero che porta all’ingresso della casa è solo un suo preciso ricordo che ne rivela il tracciato nell’invadenza della vegetazione. Spinge con forza falciando un breve arco. Usa la borsa come una prua e avanza con difficoltà per una decina di metri nello stagno di sterpaglie. Ora, non più nascosto dalle sculture che lo rendevano invisibile dalla strada, gli appare un tracciato rettilineo diretto al portico, scolpito nel tappeto vegetale da un uso continuo e recente, largo quanto il passaggio di un uomo. Non riesce a distinguerne il punto di origine sul confine della strada e lo immagina nascosto tra il gruppo d’alberi in prossimità della curva, dove ha inizio la discesa della poderale. Pochi ed ostacolati passi ancora ed è sul tracciato percorribile nel silenzio ovattato su un terreno battuto dall’uso, dove la borsa passa sfiorando le sponde d’erba e non produce fruscii.

    La porta apre senza gemiti.

    L’interno è in penombra e il lieve profumo di canfora non è solo una percezione mentale. Il chiarore proveniente dalle vetrate del laboratorio opposto all’ingresso, offusca la vista. La mano va istintivamente all’interruttore ma nulla può accadere, poi sale alle valvole del quadro elettrico che, azionate, non producono risultato diverso.

    Gli occhi cominciano ad adattarsi. Nulla sembrerebbe cambiato in poco meno di diciotto anni e, come spesso avviene, dopo l’assenza di anni, la realtà riduce le dimensioni della memoria.

    Lo sguardo sale alla sua camera che affaccia nel grande ambiente. Nei tre anni che l’aveva abitata, lo zio c’era entrato solo due volte. La prima al suo arrivo, quando lo aveva preceduto sulla scala di legno ed aveva deposto la valigia accanto al letto attribuendogli con poche parole un territorio a suo uso esclusivo.

    La seconda…

    3.4

    Lo stava aspettando come sempre quando rientrava anche in ritardo dalla scuola, seduto al tavolo con i piatti coperti, un bicchiere di vino smezzato e le portate ancora intatte. Aveva alzato gli occhi dal giornale e lo aveva salutato con un sorriso.

    Era salito in camera senza dire una parola, come non era mai successo prima e come nelle più banali delle situazioni. Salendo la scala di legno aveva sentito il fruscio del giornale che lo zio aveva richiuso su una lettura rimandata a tempo indeterminato. Aveva gettato lo zaino a terra e si era buttato sul letto.

    Lo scricchiolio delle scale lo aveva richiamato dal breve torpore in cui era caduto. Le lancette dell’orologio sulla scrivania si erano mosse almeno di un quarto d’ora. L’uomo, preceduto da Lara, era adesso ai piedi del letto e gli indicava la fronte dove rodeva il bruciore della escoriazione.

    3.5

    «È successo…» aveva constatato lo zio.

    Il suo aspetto non tradiva emozioni mentre lasciava al tempo il chiarimento. E come l’uomo, da quel che vedeva, aveva tratto in breve la sua conclusione, ora il ragazzo, con il convincimento, sentiva il risentimento trasformarsi in rabbia.

    «Zio… Tu sei omosessuale?».

    L’uomo non aveva mutato espressione.

    «È quel che dicono in paese».

    Si era seduto sulla sponda del letto e gli aveva preso un ginocchio tra le mani. Poi lo aveva guardato negli occhi con ironia:

    «Come del resto hai potuto constatare tu stesso…».

    Aveva avuto un breve sorriso di anticipazione a quel che avrebbe voluto dire, ma poi aveva cambiato parere.

    Si era alzato e il ragazzo aveva avvertito un senso di liberazione mentre l’uomo gli lasciava il ginocchio.

    Aveva scosso la testa, l’uomo, e aveva lasciato la stanza.

    L’epoca delle ciliegie

    4.

    «Dunque, stai due anni indietro, somaro…!» dicesti, spargendo con l’alito un profumo di ciliegia.

    Avevi sorriso, lasciando correre il tempo più del necessario.

    Ormai rimosso il velo di riservatezza con cui ti proteggevi, mi avevi avvicinato il sacchetto di frutta consapevole che la mia ombrosità non aggressiva, avrebbe potuto avere nella sua patologia risvolti indesiderati se non addirittura incontrollabili.

    Facesti il giusto perché gli anni negli istituti mi avevano temprato il carattere ma non certo affinato il senso dell’umorismo. Mi avevi mandato uno sguardo alla menta dove, malgrado il filtro guardingo delle folte ciglia nere, l’ironia sopraffaceva la cautela.

    Per la prima volta mi eri tanto vicina.

    Ti avevo osservata e studiata in quel paio di mesi. Il trasferimento, avvenuto ad anno scolastico già avviato, aveva reso più problematico l’inserimento in quel quarto corso di ragioneria, anche se alla classe doveva essere stato anticipato l’arrivo di un nuovo elemento con una storia non pubblicizzabile per rispetto del privato, ma comunque decisamente diversa da quella degli altri alunni.

    Ti notai subito, bella, ma non necessariamente la più bella tra le diciotto ragazze, indubbiamente la più interessante, certo la più dolce e sensibile e anche la più corteggiata, irraggiungibile ma non solo dai sette compagni di classe.

    Il cuore mi rimbalzava pompando nel petto con un frastuono smodato e incontrollabile, impossibile a credere che restasse inascoltato dai compagni in ricreazione nel corridoio. In quel trambusto avevi rovesciato sul mio diario, aperto da me pretestuosamente sul tuo banco per registrare gli argomenti delle lezioni svolte nei miei due precedenti giorni di assenza, il sacchetto da cui erano uscite alcune ciliege. Scelsi la meno brillante, ma egualmente invitante.

    «Non sempre si perdono gli anni perché si è somari».

    «Non intendevo inasprirti con una drupa globosa acerba – forbisti togliendomi di mano la ciliegia e offrendomene una più matura – È il secondo anno che vinco il premio della qualità come esponente a livello nazionale della produzione di ciliege».

    Lasciasti che staccassi il frutto con i denti direttamente dal peduncolo che trattenevi tra le dita che quasi sfiorai con le labbra. Gli occhi ti brillarono di ironia mentre nella mia bocca si spandeva il succo della ciliegia più buona in assoluto.

    «Il fatto che non mi piaccia questo corso di studi non è la vera causa» avevo ripreso parlando per la prima volta di me nella classe.

    Ebbi appena il tempo di liberarmi del nocciolo che subito mi porgesti un secondo frutto, secondo nel tempo ma non in vero nel gusto.

    E allora ebbi l’intuizione: quelle ciliege non erano buone di per se stesse, per la qualità della pianta, per il sole che le aveva maturate: era il tocco delle tue dita che ne trasformava il succo in nettare.

    «Ho perso due anni a causa dei diversi trasferimenti che ho dovuto subire… I miei genitori sono morti e sono rimasto solo. Il mio corso di studi lo ha scelto il destino… meglio qualcun altro per me».

    Forse, se i tuoi occhi non avessero assorbito tutto il mio interesse e tutto il mio campo visivo, mi sarei accorto di lui… che in verità di anni ne aveva persi altrettanti ma da vero somaro… grosso come una montagna… i cui spasimi avevi già respinto… e mi sarei accorto anche degli altri, che si erano fatti attorno a noi, e certo non avrei continuato a parlare di me.

    «… Ma ora rimarrò definitivamente con mio zio…».

    «… Allora te ce trovi bene cor frocio!».

    Mi levai lentamente dal banco cercando di capire.

    Presi atto che la situazione era profondamente cambiata ma non riuscivo a coglierne il senso, mentre la mia lingua roteava vorticosamente il nocciolo contro il palato. Comunque il momento magico era svanito per sempre.

    Aveva interloquito e i suoi occhi andavano dal tuo viso al mio, senza posarsi più di un attimo su nessuno dei due, e il ghigno trasformava la derisione iniziale in livore, mentre, pur nell’ilarità condivisa dai compagni, si rendeva conto della mia incomprensione e della tua perplessità.

    Mi guardasti con apprensione, incapace di sciogliere per me i diversi interrogativi che mi si affollavano nella mente. Ma ormai l’altro non rideva più e il suo viso si era fatto minaccioso.

    «Dormite nello stesso letto, la notte?… Sei sempre così sgualcito la mattina!».

    In pochi secondi mi passarono per la mente le situazioni analoghe cui avevo assistito negli istituti e le grandi lezioni di sopportazione ai soprusi cui non avevo voluto sottostare e che mi avevano reso prematuramente adulto, le tecniche del rinvio per la sopravvivenza, le strategie del confronto a tempo e luogo nel tentativo di arginare e scongiurare un impatto feroce…

    Quei secondi non furono pochi perché la sua mano mi strinse il collo e mi scosse. La presa dava all’altro certezze e aveva ripreso a ghignare.

    «Mi vuoi rispondere? Ma che ti vergogni, finocchio?».

    L’ultima scossa ebbe risultati imprevedibili. Per prendere aria che la stretta non mi consentiva, fui costretto a liberarmi del nocciolo secondo un traiettoria obbligata che lo trasferì fatalmente nella bocca aperta al ghigno.

    Allora successe di tutto, ma la preoccupazione di quei momenti eri solo tu che continuavi a guardarmi con apprensione: tu, Milena, e i tuoi pensieri.

    Credevi a quelle calunnie?

    Per la prima volta mi venivano gettate in faccia e sembravano dar concretezza a certi atteggiamenti e derisioni dei compagni di classe, alle allusioni e ai motteggi di gente del paese che non ero riuscito a comprendere, che pure mi turbavano e per istinto tendevo ad attribuire all’estinzione tragica della mia famiglia… ai miei trascorsi negli istituti.

    Successe di tutto… Tossivo e cercavo aria per l’effetto della stretta al collo che continuava a dolermi. Toni, piegato in due raschiava la gola e cercava di liberarsi del nocciolo di ciliegia sputando saliva e rabbia, i compagni ridevano sgangheratamente e attizzavano la lite, le ragazze vociavano animate e trepidanti alimentando la speranza di una conclusione più movimentata.

    Qualcuno diede un paio di manate sulla schiena di Toni che espulse il nocciolo e recuperò la posizione eretta. Aveva il viso livido e sudato e mi guardava gonfiando il petto, indeciso su come colpirmi. Un altro, alle mie spalle, decise per lui e mi spinse fra le sue braccia mentre tratteneva le mie.

    «Fanne polpette» gridò qualcuno nel consenso degli altri.

    Certo Toni non aveva conoscenza della mia formazione e come il mio rifiuto alla violenza non fosse vigliaccheria ma neanche sola scelta morale. Era la strategia per la sopravvivenza in un mondo che dà il potere a chi può opprimerti perché più forte, a chi può schiacciarti avendo gli strumenti che al contrario non possiedi.

    Mi aveva colpito allo stomaco. Reagii solo dopo che mi avevano lasciato libere le braccia perché Toni potesse spingermi gravandomi sulle spalle per un paio di metri a testa bassa contro un banco. Assecondai la spinta per tirarmi dietro la massa del suo corpo ma a poca distanza dal mobile abbassai ulteriormente la testa e mi piegai in avanti flettendo sulle ginocchia. Toni, perso l’equilibrio, mi scivolò sulla schiena con tutto il suo impulso. Mi rialzai sulle ginocchia mantenendo il capo abbassato e sollevando la sua massa in movimento dall’estremità. Lo sentii piroettare al di sopra della mia testa e schiantare sopra il banco. Nel fracasso da terremoto, avvertii un dolore alla tempia per l’impatto contro lo spigolo del piano che non ero riuscito ad evitare.

    Il resto fu commedia.

    Tua madre entrò in classe mentre la campanella annunciava la fine del breve intervallo.

    Ripresi il mio posto al banco in fondo all’aula.

    Mentre il branco dei maschi si apriva evitando il contatto, diversamente le compagne indugiarono al mio passaggio in una impercettibile resistenza che mi costringeva a sfiorare, con i gomiti e con i fianchi, le parti tenere dei loro corpi, ratificando il cambiamento repentino della situazione: nei primi un rispetto rancoroso, nelle seconde la lusinghiera accettazione del nuovo.

    Qualcuno aiutò Toni a rialzarsi mentre, piegato in due a contenere il sangue che gli usciva dal naso, rifiutava sgarbatamente l’aiuto delle mani amiche, ripetendo:

    «Non è niente, non è niente!».

    «Ognuno segga al proprio posto!» ingiunse tua madre.

    Le era bastato un colpo d’occhio per avere un quadro sommario di quanto fosse accaduto. Si rivolse al bidello che era accorso alle sue spalle:

    «Accompagni Antonio e Luigi in infermeria e chiami un altro collega per rimuovere quel rottame».

    Poi alla classe:

    «Mi assumo le responsabilità che mi competono per non essere stata in aula durante l’intervallo e al cambio di lezione. Vi ricordo tuttavia il preavviso di ieri, e cioè che nell’intervallo di oggi si sarebbe potuto verificare un ritardo da parte mia per la consegna della prova scritta dell’altra classe. Ora voglio da ognuno di voi una relazione scritta, dettagliata e puntuale, sull’incidente. Avete un’ora di tempo e varrà come prova scritta. Punirò chi sorprenderò a scambiare impressioni e valutazioni sull’accaduto.

    4.1

    Non l’aveva raggiunto subito.

    Il digiuno e la tensione della mattinata lo avevano fatto passare dal torpore al sonno pesante, dove gli occhi di Milena galleggiavano con ironia verde in un lago di sciroppo di ciliege.

    Era stato risvegliato dal rumore della smerigliatrice, invadente e persistente anche se generato nel laboratorio e contenuto in parte dalle pareti vetrate.

    Ora, seduto da tempo sui gradini che separavano il laboratorio, lo osservava lavorare come faceva spesso quando era libero dallo studio o quando scendeva per avere un suggerimento sui compiti di scuola.

    4.2

    Lo zio aveva lasciato la smerigliatrice addosso ad una specie di totem impiantato su un blocco di peperino grezzo, stava saldando bielle, flange, bilancieri, bulloni, nervature, raccattati in qualche sfascio a ridosso della consolare fuori dal raccordo. Aggrappato al castello, con i grossi occhiali di protezione a vetro nero, con la lancia termica e i capelli raccolti a coda come un corsaro da un nastro turchese e coperti da un foulard dello stesso colore, appariva nel controluce del tramonto delle finestre di fondo, simile ad una enorme mantide intrecciata ad un corpo agonizzante.

    Lara, che fino al suo arrivo era stata occupata a seguire a distanza i movimenti dell’uomo, sonnacchiosa e un po’ disturbata dal rumore, era venuta a poggiare il muso sulle sue ginocchia, gradendo lunghe e distensive coccole, sollecitate con una manovra del naso a vite d’Archimede allorché la mano si attardava, inerte, meno del gradito. Pure, tra una carezza e l’altra, percepiva la tensione che accomunava i pensieri di zio e nipote e spostava lo sguardo più che umano, canino infatti, dall’uno all’altro, quasi implorasse una soluzione.

    Sapevano entrambi, l’uomo e il ragazzo, che il chiarimento era ormai prossimo e che sarebbe bastata una parola pronunciata indifferentemente da uno dei due per suscitarlo e che in ogni caso, qualunque fosse stato, avrebbe lo stesso rappresentato l’accettazione incondizionata della verità che avrebbe lasciato inalterati stima e affetti.

    Scendeva il crepuscolo e dalle finestre entrava luce azzurra.

    Lara si era alzata di scatto.

    Il corpo, teso nello spazio come un cuneo, naso–coda, sospeso su tre zampe, l’altra sollevata, aveva cessato il fremito per un solo istante. Poi era volata sui gradini, aveva attraversato il laboratorio facendo cadere tutto ciò che poteva cadere lungo il percorso e si era gettata sulla porta del retro guaendo di gioia.

    Serena

    5.

    Era sulla soglia, china a contenere la gioia di Lara, rovesciata sulla schiena per farsi accarezzare la pancia. Aveva smesso di guaire e assieme era cessato il frastuono delle vibrazioni dei vetri.

    Anche la lancia termica aveva smesso di ansimare.

    Ti togliesti gli occhiali perché decidesti di aver concluso il lavoro e non per riconoscere la nuova venuta. Lara ti aveva già detto chi fosse prima ancora del suo slancio. Ti calasti dal castello senza fare rumore, come un gatto, agile a dispetto degli anni. Ti passasti la parte interna del foulard sul viso per rimuovere qualche scoria, ma restasti dove eri sceso.

    La figura snella e giovanile si alzò e mosse dei passi verso di te provocando le proteste di Lara, che la seguì mugolando, tuttavia contegnosa, consapevole di aver ricevuto un saluto congruo alla circostanza.

    «Perché?» chiedesti, mentre la donna ti toccava il viso con le dita.

    «Questa sera non sono qui per te, ma per Luigi».

    La madre di Milena ti prese dalle mani il foulard e ti rimosse con quello dalla fronte una scoria che ti era sfuggita.

    «Questa è la fine che fai fare alle mie sottovesti?».

    «Conservano il tuo profumo… ti fanno sentire qui mentre lavoro…».

    Intrecciò le dita dietro la tua nuca, sotto il nastro e ti baciò sulla bocca.

    Il tempo di quel bacio fu più lungo di quello dedicato al resto della visita e quando la donna si staccò da te aveva le lacrime agli occhi.

    «Amore, amore mio dolcissimo… e disperato».

    Fuggì senza dirmi una parola, anche se aveva affermato di essere venuta solo per me. La guardasti uscire e poi ti sedesti sui gradini accanto a me.

    Lara, dopo averla seguita fino alla porta, era tornata con uno scodinzolio mesto per poggiare il muso sui tuoi piedi.

    Serena era venuta a dirti che era ormai il momento di parlarmi di voi.

    5.1

    «Armando, un ceramista del casertano, che avevo conosciuto ad una mostra primaverile in Romagna, mi si era appiccicato al braccio come un tatuaggio. Alla seconda di Sangiovese prosciugata barattando la mia bottiglia con la sua piadina, nu ciesso si pensassi a la pizza, mi disse in lacrime che d’arte si può solo morire, ma che l’ammore ti fa agonizzare. Stava per mollare la cattedra in un istituto d’arte di Luna di Roma.

    "Uhé! chiesi sulo u trasferimiento e niente cchiù, e ch’aggio a murì sienza u stipendie ’e scùola? In vero io ci stava bbene assai, ma uhé!, nun me vado annammurà ’e a mujera ’e u preside… chillo teneva dint’a gasa nu babbà, Leopò! Era diventata un’ossessione: tutt’i ccose che facevo, vasi, brocche, piatti, tenevano argomento monotematico: ’a Venere di Luna di Roma, tette e culo ’e Sophia e u vise: cchille ’e a mujera ’e u preside… e cchillo, ’stu mariuolo, s’ingazzò! ’Na vita impossibile: orari da carcere, il laboratorio distrutto dalla mia presunta incompetenza a tenire ’a classe, casa e l’atejere a pezzi… in paese, dopo la prima incetta, nessuno comprava cchiù le mie ceramiche…

    In conclusione: facessi pure a dumanna per l’insegnamento, cché di titoli accademici e professionali ne tenevo tandi assai: all’incarico mio e al trasferimento suo ci avrebbe pensato lui stesso e nu cumpare suo al ministero…".

    "La mostra non era andata bene, avevo venduto solo un paio di pezzi. Al ritorno trovai un altro collega che aveva fatto la stessa scelta di Armando e che mi consigliò di fare altrettanto.

    A metà dicembre venni chiamato all’Istituto d’arte di Luna di Roma. Tre insegnanti avevano rinunciato all’incarico dopo poche settimane soltanto. Armando, un paio di giorni prima, mi raggiunse per telefono per saggiare la mia disponibilità. Al termine delle lezioni del primo giorno d’incarico mi portò a vedere la casa e l’atejere, un fienile più che un casale, fuori paese semi diroccato. In serata stipulammo il compromesso di compravendita del casale, questo che vedi restaurato… e l’incarico all’istituto e l’atejere non furono i soli lasciti di Armando.

    Serena era la donna affascinante che vedi senza essere una bellezza aggressiva. Era impegnata nelle attività della sinistra locale e nel sindacato, in aperto contrasto con il marito preside reazionario di destra. Erano in perenne conflitto e ai collegi dei docenti lei lo attaccava senza scrupoli quando prendeva decisioni antidemocratiche… ma lui, oltre ad esserne innamorato avanzava diritti di proprietà come su cosa sua e la teneva con il ricatto della figlia.

    Politicamente legammo subito. La mia iscrizione, al partito e al sindacato, le devo a lei. Era il periodo meraviglioso in cui le rivendicazioni riuscivamo a conseguirle. Ma Serena era rigida. Quando venne a sapere come avevo preso l’insegnamento si storse in modo imprevedibile, mi isolò e alzò una barriera nei miei confronti che durò il tempo durante il quale, ignorando la segreteria del personale e la presidenza dell’istituto, fece ricerche e controlli al provveditorato per verificare se la mia nomina fosse stata corretta, promettendomi che si sarebbe attivata per far avanzare ricorso a chi avessi rubato il posto.

    Era ormai tanto che mi aveva tolto il saluto e mi trattava con freddezza. Io del posto me ne fregavo ma a lei ci tenevo già tanto. Un giorno la trovai sola in sala professori, accanto alla finestra. Sapeva che avevo lezione e che venendo da fuori sarei passato a prendere il registro. Mi disse che il giorno prima, il suo libero della frequenza, era andata al provveditorato dove aveva completato le indagini sul mio stato di servizio. Tutto era risultato in perfetta regola, sia la valutazione dei titoli che le procedura d’incarico, comprese le rinunce di chi mi aveva preceduto. Questo aveva potuto appurarlo parlando per telefono direttamente con gli interessati: uno era stato assunto all’enel, un altro in banca, il terzo si era trasferito in Canada. Era ovvio che si era trattato di un caso di millantato credito da parte di quel pagliaccio di Armando per assicurarsi la copertura del trasferimento e per rifilarmi le sue proprietà in rovina.

    Per me, se di coincidenze si era trattato, certo erano state al limite della credibilità. Ma Serena era raggiante più che soddisfatta, e mi tese la mano chiedendomi di perdonarle l’ostracismo. Mi sorrise, ma nello stesso tempo le sfuggì una smorfia di dolore e si coprì il labbro inferiore. Mi ero reso conto che aveva qualcosa di strano in viso, ma aveva la luce della finestra alle spalle e io ero abbagliato da entrambe. Altre volte avevo già notato sul suo viso contusioni o graffi, ma il suo ritegno non aveva mai dato spazio ad approfondimenti.

    Le tolsi la mano dalla bocca e le baciai la punta delle dita.

    Quella bestia… mormorai.

    Poi, trovando le sue labbra dischiuse non seppi contenermi e la baciai per la prima volta. Quello fu il bacio più doloroso e più dolce della nostra storia, lei che piangeva e rideva per la gioia di quanto stava iniziando e che aveva riempito da tempo i suoi pensieri come era accaduto nei miei… e per il male fisico al labbro contuso dove la sera avanti il marito aveva infierito.

    La sua situazione familiare era disperata, come già avevo appreso. Il marito per motivi di immagine, non avrebbe mai consentito al divorzio, di recente istituzione, e il potere locale di cui godeva e di cui avrebbe potuto giovarsi, gli avrebbe di sicuro consentito di toglierle la figlia se solo Serena avesse fatto un colpo di testa. Vivevano sotto lo stesso tetto, ma le loro camere erano separate da anni, e l’impossibilità di averla, passata attraverso la promessa di lei di non lasciare la casa, si manifestava nelle aggressioni vigliacche, quando non erano presenti la figlia, la domestica, la sorella di lui zitella.

    Come vedi, Luigi, anche la nostra situazione era ed è disperata e tu ora, per volontà sua, contando anche Lara, sei la quinta persona che la conosce».

    5.2

    Mi guardasti con un sorriso indefinibile, zio Poldo, mentre accarezzavi la testa di Lara che ad occhi chiusi stabiliva con la tua mano una intesa escludente il resto del mondo. Nel vostro microcosmo, autosufficiente e definito, ero piovuto io, voluto da te, ma con il mio potenziale di turbative, come un sasso nella immobilità di uno stagno che smuove dopo la superficie anche il fondo, rimestando tra sedimenti digeriti dal tempo. Ma tu sembravi non

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