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L’uomo di nebbia e i segreti della Fiuma
L’uomo di nebbia e i segreti della Fiuma
L’uomo di nebbia e i segreti della Fiuma
E-book320 pagine4 ore

L’uomo di nebbia e i segreti della Fiuma

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Info su questo ebook

Giacinto vive da solo in un paesino della Bassa. È una solitudine totale, la sua: ha perso i genitori in un’alluvione che era ancora bambino; gli amici d’infanzia, crescendo, lo hanno abbandonato perché “troppo strano”, fuori luogo, fuori tempo. La fabbrica in cui lavorava ha chiuso i battenti e si è trovato a riempire il tempo con lunghi giri in bicicletta e qualche sosta al bar del centro. A fargli compagnia, ormai, sono solo il passato e la voce della Fiuma, un anonimo corso d’acqua non lontano dal grande fiume che scorre placido nella pianura. Quando, però, in paese si viene a sapere della morte di Angela, figlia della Dinetta, un ricordo torna prepotentemente a galla, riempiendolo di tormento e angoscia, ma facendogli anche riassaporare momenti di infinita dolcezza.

Mario Banchieri è nato Livorno nel 1947, diplomato al liceo artistico di Carrara. Ha sempre avuto una grande passione per l’arte in qualsiasi forma essa si presenti. Terminati gli studi, ha iniziato a proporre i suoi lavori di pittura in diversi concorsi e mostre personali, ottenendo importanti riconoscimenti. La passione per la scrittura ha preso il sopravento quando si è accorto che scrivendo riusciva a esprimere meglio le sue emozioni e sensazioni. Dopo essere andato in pensione, nel 2009 pubblica Oltre il cammino – L’emozione di un viaggio, racconto del Cammino di Santiago che ha percorso in bicicletta sui sentieri dei pellegrini. La passione per la bicicletta lo porta spesso ad attraversare i paesi della Bassa parmense e da qui l’idea, quasi la necessità, di mettere nero su bianco le emozioni che questa parte della pianura gli trasmette. Nasce così L’uomo di nebbia e i segreti della Fiuma. L’essere in pensione gli ha permesso di dedicarsi al volontariato e come Milite della Pubblica Assistenza di Parma, nel 2021 ha pubblicato, a scopo benefico, un breve racconto, Pulmino 40, nel quale descrive la quotidianità del rapporto con la disabilità.
 
LinguaItaliano
Data di uscita31 dic 2022
ISBN9791220136341
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    Anteprima del libro

    L’uomo di nebbia e i segreti della Fiuma - Mario Banchieri

    cover01.jpg

    © 2022 Europa Edizioni s.r.l. | Roma

    www.europaedizioni.it - info@europaedizioni.it

    ISBN 979-12-201-3166-7

    I edizione dicembre 2022

    Finito di stampare nel mese di dicembre 2022

    presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)

    Distributore per le librerie Messaggerie Libri S.p.A.

    Questo libro è un’opera di fantasia. Personaggi e luoghi citati sono invenzioni dell’autore e hanno lo scopo di conferire veridicità alla narrazione. Qualsiasi analogia con fatti, luoghi e persone, vive o defunte, è puramente casuale.

    Mario Banchieri

    L’uomo di nebbia e i segreti della Fiuma

    L’uomo di nebbia

    e i segreti della Fiuma

    1

    La luce diafana di un giorno che si è appena svegliato sovrasta sospesa un cielo sonnolente e lattiginoso simile al vetro di una grande finestra appannata, al di là della quale un mondo silenzioso inizia a respirare la nebbia di un anonimo mattino d’autunno. In quel paesaggio senza ombre, da un improvviso turbinio dell’aria, si stacca una folata di vento che apre quella finestra e un colpo d’ali sibila sulla pianura proiettando un’ombra leggera, risvegliando ogni cosa, riportandola, dopo la notte, alla vita.

    Ed io dall’alto, sopra tutto questo, ascolto il mormorio di quel mondo che condensa in immagini i propri sentimenti, le proprie speranze che svaniscono nel nulla di un vuoto, nel quale muovo le mie ali sostenute dall’imprevedibile agitarsi di tiepidi venti che segnano l’invisibile traccia di tutte quelle vite.

    Non mi è dato scegliere, né determinarne la lunghezza o il tempo, ma solo raccoglierle sotto la mia ala con attenzione, con pazienza, al momento stabilito. E quel momento ognuno lo sceglie da sé, lo stabilisce senza saperlo e tu, Giacinto, come tutti gli altri, hai scelto il tuo. E adesso sei nella mia mente, ed io nella tua, e il tuo pensiero è l’aria sulla quale appoggio le ali del mio volo, è alla mia mente che parli di te e senza la tua aria precipiterei. La tua voce in mezzo alle altre è diventata via via sempre più chiara, ti racconta e ovunque tu vada la sentirò, la farò mia.

    Sarò un vento freddo al quale racconterai della tua solitudine, sarò nebbia alla quale darai corpo ogni volta che vorrai vivere un ricordo, sarò pioggia, quando cercherai l’emozione di un sentimento e fra quelle gocce scoprirai le tue lacrime.

    Continuerai a vivere d’istinto, perché è così la tua vita, è così che hai scelto di farla scorrere di nascosto, come un silenzioso corso d’acqua, in mezzo alla cecità di un mondo timoroso di sé stesso e ostile verso chi cieco non è, e vede il mondo con occhi diversi.

    Vivrai la tua vita così fino a quando capirai, scoprirai sorpreso, cosa, chi sono e stringerai perplesso fra le dita una delle mie piume adagiata, quasi sospesa, fra i fili d’erba sul margine di un corso d’acqua. Una di quelle che nel mio volo, prima di allontanarmi, promemoria di un ritorno, si staccherà assieme ad altre, sfiorando le lettere di metallo di una grande scritta che si staglia arrogante nel cielo appoggiata su pilastri di ferro, sostegni del pesante cancello d’ingresso di una fabbrica. Ricordo in un tempo lontano di averne viste simili altrove, in pianure gelate, parlare ingannevoli e beffarde di lavoro e di libertà, annerirmi le piume con un fumo pesante, macabro figlio della paura del diverso. Queste mi hanno colpito per la loro muta solitudine, per un senso totale di indifferenza così profonda da sentirle più fredde del loro metallo. Ho visto le mie piume scendere e sfiorandole, cadere a terra simili a foglie gelate. Il tempo del mio battito d’ali fu lungo, lento, pesante e nel grigio di quel cielo sporco, disegnai il cerchio di una planata che credevo conclusa ma che con il disagio del tuo vivere, mi fai capire non ancora completata. La tua voce, Giacinto, è uscita dal coro di milioni di voci simili e questo tuo canto fa paura a molti perché incapaci di capirlo, sordi a quelle note, ciechi a quelle parole, egoisti gelosi della propria musica tanto da rendere stonata ogni altra ai loro orecchi. È così che si creano i diversi.

    Proseguo il mio volo, il tempo non aspetta anche se vivo di un tempo che non è il mio ma in quello che altri hanno scelto per loro.

    Quelle lettere mai nessuno le aveva viste brillare riflettendo la luce del sole, non solo perché patinate dal tempo, ma anche perché chi passava sotto a quell’arco che entrasse o uscisse, ci passava a capo chino pensando alle dure ore di lavoro che lo avrebbero atteso o stanco per aver finito la giornata.

    Il nome del fondatore della fabbrica: il vecchio, il padrone come lo chiamavano tutti fuori e dentro quelle mura, se n’era andato anni prima lasciando in mano ai figli un lavoro ben avviato da due generazioni. Nel giro di cinque anni i figli Vittorio e Luigi erano riusciti a farla fallire. In paese si parlava di spese scellerate, investimenti sbagliati, auto di lusso, barche, debiti di gioco e donne e su quest’ultimo aspetto la gente non aveva dubbi e le fantasie correvano a briglia sciolta. Di tutto questo a chi aveva perduto il lavoro importava ben poco e chi aveva l’età o le capacità e anche gli agganci giusti per trovarne un altro, si era messo a posto assicurandosi lavoro e futuro.

    Ma non per tutti era andata così Qualcuno non più abbastanza giovane ma neppure troppo vecchio e senza una qualifica c’era, e rimaneva sospeso nella consapevole attesa di un impiego che non ci sarebbe mai stato.

    Seduto su una sedia impagliata, vecchia quanto il tavolo di legno che lo separava dal resto della sala del bar, osservava quasi con timore quell’angolo freddo di mondo che lo circondava, lasciando che lo sguardo, guidato dalla mente, si muovesse adagio confondendo i pensieri in un’aria grigia appesantita da bave di fumo pungente che impregnava la stanza.

    Sapeva quanto gli sarebbe rimasto ancora da vivere? No, ipotizzava e dentro avvertiva un sottile tremore. Sapeva perché se lo stava chiedendo? Sì, perché aveva perso il lavoro e su questo non ipotizzava, era una certezza come l’impressione di essere morto, finito, senza futuro, con la sensazione del tempo che gli stesse sfuggendo di mano.

    Nel mare burrascoso della sua mente, come una barca alla deriva in balia delle onde, si agitava una domanda, ma più che una domanda, un pensiero carico di angoscia: Cosa ci faccio io, qui che non ho più vita?.

    Dopo tanti anni, dopo una vita, sì, lo poteva proprio dire, dopo una vita si sentiva ancora a disagio, o meglio, lo facevano sentire a disagio.

    Gli abitanti di quel borgo della Bassa, modellato dalle nebbie, disegnato da opprimenti estati afose, mosaico di case in quella parte di pianura a ridosso del Po, il grande fiume, lo facevano sentire scomodo da sempre. Un elemento di disturbo del vivere quotidiano di una comunità chiusa, secondo la quale lui non si era adattato, che si era calata in una sorta di omertà, facendolo diventare un estraneo, quasi un pericolo da accettare comunque a malincuore perché anche lui, di quella società, nonostante tutto, ne era parte.

    In un angolo semibuio della sala opposto al suo, uno sguardo spento gli si posava addosso mentre una mano tremante portava lentamente alla bocca, nascosta da folti baffi bianchi ingialliti dal fumo, un calice scintillante di vino rosso che pareva col tempo si fosse annacquato nel bianco lacrimoso degli occhi del vecchio Azzali, che lo guardava senza vederlo, come fosse trasparente. Sapeva che quello sguardo andava oltre, che gli passava attraverso, ma comunque si sentiva scavare dentro, svuotare e non era l’unico, tutti lo guardavano dandogli l’impressione di non vederlo pur sapendo che c’era, il fatto era che, molto più semplicemente, lo ignoravano.

    Lui stava lì, a chiedersi perché la presenza di quell’uomo lo avesse sempre colpito per quel suo apparire pesante anche da seduto. Suggeriva una staticità prossima all’abbandono, figlia di una resa incondizionata agli eventi di una vita che sembrava rivivere e assaporare, con la stessa gravità religiosa con la quale portava alla bocca il bicchiere, come se la sorseggiasse attimo dopo attimo per sentirsene colmo, sperando forse di dimenticarla, cercando di sorseggiarne una diversa, nella quotidiana ubriacatura.

    Guardava l’Azzali e si chiedeva preoccupato se sarebbe finito così anche lui.

    Ma lui che cosa avrebbe potuto ricordare della propria vita se questa era tuttora trasparente, inesistente come la vedevano gli altri. Ad ogni sorso cosa avrebbe ricordato o rimpianto? E poi il suo bicchiere non brillava del rosso caldo del vino ma del verde freddo dello sciroppo alla menta. Lo avrebbe vissuto così il suo passato? Sorsi freschi come l’aria del mattino, profumati come l’erba appena tagliata, da assaporare lentamente come i tramonti, da far bagnare la gola arsa da una ventata di polvere calda di una carraia. L’avrebbe rivissuta così la sua vita? Sì, non avrebbe potuto essere diversamente e nemmeno l’avrebbe voluta diversa.

    Osservava quel vecchio e stava lì, ai margini di quella scacchiera di tavoli, sulla quale come pedine vocianti o assopite dal vino, da sempre, teste e cappelli degli avventori si muovevano al ritmo di un vocio altalenante danzando in imprevedibili mosse, impegnati nel giocare a carte e che s’interrompevano solo per il tempo di un’occhiata fugace verso la porta quando si apriva. In quei momenti, l’aria rarefatta, complice omertosa di quel mondo, sembrava venire risucchiata all’esterno, schiarendone l’opacità, facendo calare un improvviso e innaturale silenzio, un fermo immagine, come se i presenti temessero che quell’aria potesse portare fuori, via da lì, anche i loro segreti. Poi tutto tornava come prima, come sempre.

    Così, come sempre, era arrivato nel borgo percorrendo ormai da anni la solita vecchia strada. Quella strada gli piaceva, perché ogni giorno, ogni volta, era una emozione nuova, a ogni pedalata era rivivere sentimenti profondi tuffandosi nei ricordi.

    Era come rivedere e abbracciare un vecchio amico dopo una lunga assenza. In quell’abbraccio era racchiuso il gesto assurdo di aprire la bocca e, immaginando di addentare l’inconsistenza della nuvola di zucchero filato come faceva da bambino, oggi pedalando, assaggiava la densità di un’aria che si era fatta più pesante, quasi palpabile, assaporandone la fredda umidità che entrando in bocca gli pungeva la gola e lo faceva lacrimare: la nebbia.

    Il suo sguardo si fissava in un punto preciso oltre quel velo opaco, gli occhi socchiusi e appannati inventavano per gli orecchi il sommesso fruscio dell’acqua che scorre e a quel respiro lungo e profondo, rispondeva lo sciacquio di un anonimo fluire di acque imbrigliate in una vena di cemento, unica voce di una campagna sorda ad ogni invito di risveglio. Era la voce della Fiuma che scorreva lenta e si apriva come una ferita, nel ventre di quella terra piatta e muta, rassegnata a lasciarsi scivolare il tempo addosso, piuttosto che cercare di accompagnarsi ad esso.

    In tratti sempre più rari, sembrava fermarsi quasi volesse accarezzare la pelle scura e molle di sponde di terra ricoperte di erba e di arbusti, dove ancora la natura riusciva a far sentire la propria presenza.

    Al suo fianco, più in alto, sull’argine, scorreva la strada mal ridotta dal tempo, segnata dall’uso simile ad una logora cintura che teneva ancora uniti il vuoto della campagna, alle case del borgo e che obbligava ad andare in senso opposto al procedere delle sue acque.

    Su quella vecchia via la gente del paese aveva costruito la propria esistenza, cullato le proprie speranze, provato ad affermare di esserci, di esistere ancora, nonostante tutto.

    Sì, esistere nonostante tutto.

    Nonostante l’amara consapevolezza che il grido rabbioso e disperato alla ricerca di un conforto, di una esistenza migliore, si sarebbe spento fra le braccia di una risposta muta, figlia di un eterno silenzio, cullata da una radicata rassegnazione.

    Nonostante il silenzio fosse rimasto l’unica voce nel giardino delle suore, dietro al grande portone tinto di verde come le panchine della piazza. Scolorito dal tempo, da anni non si apriva più al suono di una campanella per fare uscire uno sciame urlante di bambini coi grembiulini bianchi e neri come fossero le pedine della dama rovesciate da un sacchetto sulla scacchiera. Nonostante i vecchi avessero perfino perduto il gusto di lamentarsi, imprecando contro una incomprensibile gioventù, dimenticando di esserlo stati anche loro, per poi osservarli con lo sguardo pieno di invidia e di ricordi.

    Nonostante la piazza, i vicoli e le strade si ripopolassero nuovamente solo le domeniche e nel giorno di mercato, cercando di ritrovare la voglia di sentirsi viva, in un mondo fatto da gente che attendeva rassegnata di arrivare sfinita alla fine del giorno, che altrimenti non usciva di casa se non per una partita a carte o quattro chiacchiere al bar.

    Solo per la sagra il suo acciottolato sconnesso rivedeva anche chi aveva mantenuto comunque nella memoria i luoghi delle proprie radici, piantate in una terra troppo avara di soddisfazioni, generosa solo di fatiche e di sudore. Da quella era fuggita andando poi a far germogliare i propri frutti, in una realtà lontana, sconosciuta, idealizzata, ma non per questo meno faticosa e difficile, ma che comunque avevano scelto, infrangendo il muro di nebbia della rassegnazione.

    E chi era rimasto nascondeva l’invidia, dietro uno sguardo curioso verso chi era coraggiosamente andato via, e tornato a mostrare di avercela fatta. Chi, sconfitto, si era adattato all’idea di esserci senza apparire, sopportando sguardi ironici confondendosi con chi aveva preferito vivere all’ombra di una esistenza che passa silenziosa attraverso i giorni e gli anni, percorrendo una strada della quale non si sono mai preoccupati di cercare una fine.

    Come la strada sull’argine della Fiuma che sembrava scomparire nel nulla.

    Una strada che con le stagioni cambiava la pelle come una biscia, che si faceva sentire viva.

    Viva nel rimescolio di terra, di ghiaia, di sassi sparsi qua e là come semi al vento, andando a morire a poca distanza dalle prime case del paese, scomparendo inghiottita in un pulviscolo grigio che si rapprende lucido, anonimo come sono anonimi i muri delle case che la circondano.

    Quell’asfalto che in inverno brillava al gelo come uno specchio, riflesso di cieli lividi, per scomparire in rivoli scuri tra le mura delle case, in estate pareva quasi sciogliersi sotto il sole, fumare come un tizzone immerso nell’acqua, lasciando in bocca il sapore soffocante dell’impasto di aria rovente, di gomma riscaldata e nel naso il pungente odore di olio bruciato

    Quella via sull’argine passava davanti alla canonica seguendo le rare e dolci curve della Fiuma, disegnando, prima di arrivare al paese, una striscia bianca e polverosa come fosse farina uscita da un gigantesco sacco rotto, ammucchiato con altri sul pianale mal ridotto del barroccio di un mugnaio distratto.

    Da una vita, pedalando, andava e veniva per quella carraia bianca, residuo inviolato all’avanzare della modernità, baluardo antico di un mondo contadino, immutato nel tempo.

    Era come il nastro di una macchina da scrivere logoro per l’uso, sul quale si erano impresse sovrapposte come lettere, le storie di tante vite, finendo per forarlo, romperlo, fino a scomparire, a renderlo inutile, una strada divenuta vecchia ma che conservava la memoria di tutto quanto era passato sopra di lei. Una strada su un argine, niente di più.

    Anche quella mattina era partito dalla canonica della Chiesa di San Damiano, sulla sua bicicletta, per la meta di sempre: il paese o meglio il borgo, perché il paese, quello vero, era qualche chilometro più in là verso la città tanto che lui per andarci prendeva la corriera.

    Da quasi un anno non lavorava più, la fabbrica aveva chiuso, era fallita e ora non aveva più un impiego. Il parroco, Don Luciano, gli dava sempre qualche commissione da fare nel borgo così trovava il modo per staccarsi dalla canonica come in quella mattina uguale a tante altre, grigia, opaca, come sono in quella stagione le giornate di nebbia sul finire dell’autunno.

    In quel silenzio ovattato, il suono che usciva dalle ruote della vecchia bicicletta pareva il triste cigolio di un’altalena vuota. Sembrava rimbalzare contro quel muro di nebbia, apparentemente consistente e solido, ma impalpabile, che si rivelava fragile al primo refolo d’aria. Riusciva, come in un gioco di prestigio, a nascondere e a far ricomparire tutto ciò che gli stava intorno, alberi, case, animali, dando a tutto un’aria di incertezza, di precarietà. Sì, precarietà, un termine, una parola che anche lui, ormai, aveva incominciato a sentire ronzare insieme a cassaintegrato, pensionato, parole che risuonavano nell’aria del bar come un fastidioso ronzio di mosche.

    Sulla strada, immerso in quell’aria opaca, immaginava che intorno a lui potesse esistere un mondo parallelo, uguale solo in apparenza a quello dove si stava muovendo, un mondo del quale si convinceva di riuscire a percepire suoni e odori, che spesso andava a mescolarsi con la realtà, una realtà fittizia, come quella dei sogni o dei desideri così fortemente voluti da immaginarli realizzati, veri, concreti.

    In quell’ambiente rarefatto la sua mente creava una atmosfera di sogno.

    Socchiudeva gli occhi di tanto in tanto, come per tentare di vederci meglio e immaginava di pedalare lentamente su una bicicletta fatta di nebbia, con le ruote biancastre come il colore del fumo che usciva in fili sottili dai camini delle case che giù in basso, nell’umida golena, lentamente gli venivano incontro e gli si affiancavano.

    Si ricordava che da bambino scriveva su un foglio il proprio nome in stampatello, a caratteri larghi che riempiva prima di colore, poi li ritagliava, alzava il foglio davanti agli occhi, e si divertiva a guardare, attraverso il vuoto lasciato dalle lettere nella carta, un mondo immaginario, tutto suo.

    E anche adesso gli piaceva immaginare di vedersi ritagliato nel grande velo di nebbia, simile al vuoto lasciato in un foglio, e attraverso di lui scorgere il paesaggio, così in quel foglio grigio la sua mente aveva scritto una grande G seguita da altre lettere a comporre il suo nome: Giacinto.

    Sì, lui proprio lui, Giacinto. Lui, sulla sua bicicletta fatta di nulla, pedalava, forse volava nella nebbia, trainando il vuoto del proprio nome come si fa con un aquilone.

    Sentiva che quel vuoto era lui.

    Ma se prima quell’immaginarsi un vuoto era la gioia del gioco a tornare bambino, adesso pesava, gli pesava come un macigno sul cuore. Adesso quel vuoto era essere nessuno e lo faceva sentire triste ogni volta che, anche nella nebbia più fitta, a quella curva della strada, vedeva spuntare la sagoma grigia della fabbrica, che ormai chiusa sembrava ancora più grigia perfino d’estate anche in pieno sole.

    Ora appariva tetra, senza vita in mezzo alla campagna disegnando un profilo seghettato sull’orizzonte.

    Gli aveva dato una vita, una identità, un esserci, un modo di essere come gli altri, uguale agli altri e quando guardava i campi di grano maturo che la circondavano, immaginava di essere una di quelle migliaia di spighe simili fra loro ma ognuna diversa; la fabbrica un campo, le spighe lui e i suoi compagni di lavoro. Sì, un campo di grano perché diventa farina, diventa pane, nutre la gente povera o ricca che sia, è importante, indispensabile come l’operaio, come il lavoro, il suo lavoro per sé stesso e per gli altri. Della propria condizione di disoccupato nella quale era precipitato, aveva capito solo di essere diventato come la nebbia che esiste, si vede, ma alla fine è niente ed è lì in attesa di diventare qualcosa, magari pioggia, grandine, chissà.

    Poi continuando a pedalare ritornava alla realtà che un po’ lo spaventava e cercava di farsi coraggio.

    Ti conosco, ti conosco bene, di te conosco ogni metro diceva fra sé e sé e spesso ad alta voce, rivolto alla strada quando doveva vincere quel tremore che, improvviso, sentiva gelargli lo stomaco, confondergli la mente, sorpreso da una subdola sensazione di incertezza, di solitudine come se, d’improvviso spaesato, non sapesse più dove si trovasse. Questo lo metteva alla prova, lo riportava ad un passato lontano, difficile da dimenticare.

    In quegli istanti pedalava avanzando lentamente quasi contro voglia, lo sguardo in basso, in direzione della Fiuma e delle sue acque, cercandola con l’ansia nell’anima per sentirne il sommesso sciacquio poco sotto di lui, per confermare a sé stesso dove fosse, che non era più bambino, che era tutto passato, e il pacato sonnolento scorrere lo rassicurava ma al tempo stesso lo intimoriva.

    Comunque quella carraia era la sua strada.

    Quella strada fu la seconda cosa che vide quando arrivò, anni prima, in paese, dal parroco di allora: Don Egidio.

    Perché quella sera, pochi giorni prima del Natale, per primo vide il muro di sassi della canonica dopo che era rimasto solo al mondo, quando il fiume era salito fino a lambire le tegole della sua casa, nascondendo tutto sotto l’acqua, riempiendo il vuoto delle lettere del suo nome, scorrendoci dietro veloce come un paesaggio visto dal finestrino di un treno, attraversandole, portando via con sé ogni cosa, alberi, bestie, mobili, la certezza dei suoi affetti, la spensieratezza di bambino.

    Sì, fu proprio un muro, Giacinto, e un muro ti avrebbe sempre circondato, addirittura anticipando il tuo cammino nella vita. Ero passato sul tetto della tua casa, le mie ali avevano avvolto nel buio il futuro gioioso della tua vita ed io ero là, immobile, sospeso nell’aria gelida sopra a quel mondo di acque turbolente. Ai tuoi occhi di bambino sembravano onde gigantesche anche se il mare non lo avevi mai visto e forse non lo immaginavi così spaventoso. Il tuo gracile corpo sciabordava spinto dal vento come in una barca ed io in quel vorticare doloroso lasciai cadere due piume. In quei giorni insieme agli altri, l’ombra delle mie ali coprì con il buio molte vite.

    Il mio girovagare non era terminato, sapevo che ti avrei ritrovato perché non ti avevo perso allora e anche se ancora non lo sai, ti sono vicino adesso, mentre racconti la tua vita a te stesso, quasi tu abbia intuito l’origine di quel malessere incomprensibile che da stamani ti rode dentro.

    Giacinto non pensava ma riviveva quelle sensazioni.

    Avvertì un alito di vento freddo scivolargli sul viso, volle pensare ad una impalpabile carezza, si disse che era l’emozione che quel ricordo gli stava dando anche se era sgradevole la sensazione di umidità nei vestiti che incominciava a percepire sulla pelle, che sentiva nelle ossa mentre la mente faceva della nebbia il buio e del sommesso sciacquio della Fiuma lo scrosciare violento della pioggia.

    Dai, raccontati. Riempi con il fluttuante movimento delle tue nebulose domande, la solitudine della tua anima cercando invano da tempo, risposte che ne colmino il vuoto. È un nuovo giorno, Giacinto, e lo stai vivendo correndo sulla tua strada, è un giorno senza tempo, senza alba né tramonto; è nebbia, solo nebbia. Vado, comunque sappi che ti ascolto.

    2

    Di pioggia ne era caduta tanta, ovunque e a lungo.

    Il cortile era diventato il laghetto per le oche che lui vedeva dalla finestra rincorrersi e svolazzare goffamente. Nel fosso intorno a casa, l’acqua sciabordava gorgogliando e, a tratti, sommergeva alla radice il tronco del salice le cui fronde appesantite sembravano cercare un sostegno appoggiandosi a terra.

    La pioggia non dava tregua.

    Ricordava che, in quei giorni, suo padre evitava di guardarlo, consapevole di essere incapace di regalargli anche solo un accenno di sorriso, ma che comunque non dimenticava di accarezzargli la testa, infilando le forti dita nodose fra i suoi riccioli neri, con un gesto delicato carico d’affetto. Lo vedeva che andava e veniva dall’argine alla casa. Il cappuccio gocciolante della pesante mantella cerata sulle spalle curve adombrava un volto teso solcato da sottili rughe indurite dal traballante chiarore della lanterna che non riusciva

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