Il padrone sono me!
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Anteprima del libro
Il padrone sono me! - Alfredo Panzini
Il padrone sono me!
Immagine di copertina: Shutterstock
Copyright © 1922, 2022 SAGA Egmont
All rights reserved
ISBN: 9788728492406
1st ebook edition
Format: EPUB 3.0
No part of this publication may be reproduced, stored in a retrievial system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.
This work is republished as a historical document. It contains contemporary use of language.
www.sagaegmont.com
Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.
Il padrone sono me!
Al signor dott. ALDO MAYER
Trieste
Caro signor Mayer,
questo romanzo è stato scritto all’altra delle sponde del suo mare, e per l’appunto negli anni che seguirono a quella vittoria italiana per cui fu abbattuto l’Impero d’Austria.
Ora lei si ricorderà di quel giorno dell’ottobre scorso, che parea primavera; e lei mi fece salire fino alla terrazza della sua bella casa, da cui si vede tutta Trieste. E io stavo incantato, non so piú se per la meraviglia del mare e delle terre che fanno sul mare quel grande ricamo, o per il miracolo che, su quella terrazza, dopo tanta passione, potesse sventolare il tricolore italiano.
E lei, intanto, mi raccontava di quella grande passione, e di quanto fu da Trieste operato per la sua liberazione.
«Oh, ecco — dissi improvvisamente fra me — chi mi potrà difendere!» cioè lei; e cosí sin da allora pensai di offrirle questo mio libro.
Perché lei deve sapere che quando ne mandai il manoscritto al direttore di una Rivista, me lo vidi tornare indietro accompagnato da una lettera che non poteva essere piú lusinghiera; ma in cui era detto che per i lettori un po’ superficiali il romanzo sarebbe sembrato alquanto disfattista, come si diceva con una parola molto frequente allora, e che oggi va decadendo dall’uso.
Rimasi molto male e molto sorpreso. Ma poi ripensandoci, dovetti riconoscere che come direttore di Rivista non aveva torto, in questo senso: che, se, per un giuoco di divinazione, io avessi pubblicato questo romanzo nell’anno 1915, quel povero figliuolo di Robertino e quella sua madre, di cui qui si parla, ci avrebbero pensato due volte prima di prendere tanto entusiasmo. Ed è anche vero che in questo libro si parla dell’Italia in un certo modo che non è quello consueto dei patriotti.
Ah, caro Mayer, un senso di pudore ci obbliga a rinchiudere questo santo nome d’Italia nella solitudine del cuore!
Ma un altro direttore di altra Rivista fece giudizio diverso, che sorti però lo stesso effetto di sorprendermi e farmi stare molto male: cioè disse che il romanzo sarebbe sembrato reazionario, e questa, come lei ben sa, è una di quelle parole sempre usata da noi ed ha la potenza di fare ammutolire, tanto di vituperio contiene.
Con tutta sincerità le confesso che questo romanzo fu scritto specialmente per questa ragione: per fermare con la parola sopra la carta e attraverso una fiaba, le cose che vedevo; ed è una gioia! Si sente un mormorio di dentro che dice: «Si, questa è la verità!». E quanto piú la verità è amara, tanto piú la gioia è intensa, come quando si fa una confessione sincera. Verità? Intendiàmoci! Secondo nostra coscienza! Si meraviglierebbe lei, signor Mayer, che, un giorno, venisse uno a dichiararci che tutto quello che noi credemmo sul moto degli astri, non è esatto? Figurarsi poi sul moto degli uomini! E di quelli uomini, poi, che àbitano su le sabbie mobili, che dire?
La conseguenza fu questa: che la pubblicazione avvenne su un’altra Rivista ¹ , senonché quando io vidi la carta stampata mi accorsi che, nella commozione dello scrivere, molte cose che io credevo espresse per iscrittura, erano invece rimaste nella testa. Perciò mi diedi a rifare tutto il libro. Malauguratamente esso era nato con un vizio organico, e mentre emendavo per un verso, guastavo per altro verso.
«Allora dovevate star zitto!»
Lei, signor Mayer, è troppo ben disposto a benevolenza per dirmi cosí; ma non mancherà chi cosí dirà!
Ma che vuole? I tempi che noi corriamo sono cosí squisitamente drammatici, che con tutta la buona volontà di appartarci, si sente ogni tanto la tentazione di venir sul palcoscenico della patria letteratura.
Per le prime accuse, lei accetti il libro con beneficio ďinventario; per la seconda non si curi affatto di difendermi, tanto piú che io penso che la critica rispetto alla letteratura non è mai acerba abbastanza.
A. P.
In Roma, nel gennaio dell’anno 1922.
I
NOI E LORO
M io padre era un buon uomo che si chiamava Mingòn. Era il custode della villa, e era molto bravo per le patate.
«Le patate piú belle.» diceva la padrona «mettile da parte per me.»
«Che la non dúbiti, signora padrona.»
Noi stavamo in una casetta vicina alla stalla, ché ci chiamavano con un fischio. Nella stalla si teneva una vacca mungana per il latte della padrona.
Veniva ogni tanto anche lei nella stalla, su la punta degli stivaletti, e conduceva anche i forestieri a vedere la sua vacca; ma non bisognava chiamarla cosí. Lei diceva:
«La mia mucchina. Mi raccomando la mia mucchina!»
La concimaia, invece, non la voleva vedere.
«Ci dovreste mettere, davanti, delle rose rampichine.»
«Veda, signora padrona» le spiegava mio padre «quella broda nera fa venir su le patate e l’erba spagna; la mucchina, come dice lei, mangia le patate e l’erba spagna, e cosí vien fuori il latte! È tutto un giro.»
«Lo so, lo so, Mingone, ma non parlare di queste brutte cose.»
«Dove lo consuma poi tutto questo latte!» si domandava mio padre.
Diceva mia madre:
«La si lava col latte per mantenere la pelle fresca. Le signore non vogliono mica aver le grinze! Non lo sapete voi?»
Mia madre era una brava donna. Il suo nome era Maria, ma tutti la chiamavano la Mingona. Era magra e sottile, e non stava mai ferma dalla alzata alla calata del sole. La padrona diceva:
«Marietta, ma bada un po’ anche ai miei fiori!»
Lei, invece, badava ai maiali. Era brava per i maiali. Nelle ore bruciate, andava in giro con un bidone a raccogliere gli avanzi delle cucine.
«Tò, tò, tò» diceva ai maiali «mangiate anche voi come mangiano i signori!»
Quando poi di settembre venivano giú i carri con le barbabiètole, ci andava dietro, e tornava a casa con la faldata piena.
Per questa costuma di tornar sempre a casa con qualche cosa attaccata alle mani, la chiamavano anche la Formica. Era fatta cosí: se vedeva una cosa la toglieva su, come dicono da noi.
Se poi le rimaneva un ritaglio di tempo, allora metteva la lana o la canapa attorno alla rocca, con sopra la pergamena, e filava.
Mia madre è stata una delle ultime, al nostro paese, che filavano. Dopo si è perduta l’usanza.
Quando filava, la padrona si fermava a guardarla. Diceva:
«Come sei estètica!»
Il padrone diceva:
«Tu, Mingona, ripeti il gesto delle antiche donne troiane. Tu non lo sai, Mingona; ma una volta anche le regine filavano come te.»
Mio padre gliene dava di rado a mia madre, una volta ogni mese; ma quando gliene dava, la si sentiva urlare da lontano. La padrona non voleva vedere.
«Ma non sai, Mingone, che l’uomo che alza la mano sopra una donna, è un vile?»
«Da noi vèdela, signora padrona» diceva mio padre «l’è differente: se non ci si dà qualche volta, le donne dicono che è perduta l’affezione.»
Il padrone era un pezzo d’uomo grande e grosso con una gran barba rossa, e portava un cappello largo come il tagliere. Vestiva sempre di bianco ed era contento di stare in campagna perché in città doveva vestire di nero: ma per fargli il vestito ci voleva una vela da barca. Era un gran studiante, che aveva in mente i nomi di tutte le stelle e conosceva la luna meglio di tutti. Appena si entrava nella villa, si vedeva una cosa tonda che pareva uno di quei meloni con la rete; e era, invece, la luna vista da vicino, e sotto c’era scritto: mappa lunare, o faccia della luna pubblicata dal commendatore C… – che era il mio padrone — nell’anno 1891.
La gente che entrava, si fermava a guardare la luna e la padrona diceva:
«Il commendatore ha studiato la luna come nessuno prima di lui. Vedete lí? E le stelle che ha fotografato, che prima non c’erano? Ed è conosciuto in tutte le parti del mondo fuorché qui da voi, gente zotica e ignorante.»
Lui però non era niente superbioso, e si levava il cappello anche alla bassa gente.
La mattina, d’estate, lui stava fuori a godere il fresco sopra una di quelle poltrone di vimini che ci si sta dentro con tutti i comodi. La prima cosa che doveva fare mio padre, era di andare a prendere la posta.
«Oh, bravo, Mingòn! Vediamo cosa succede nel mondo. A te già non importa di sapere quello che succede al mondo.»
E stava lí a leggere i fogli, finché si sentiva rumore, e lui, che era abituato con le stelle, che non fanno rumore, non poteva sentire:
«Oh, si capisce che lei si è alzata!»
Era la padrona, che tutte le mattine trovava da dire; e se non era con la cameriera, era con la cuoca.
«Ma la quiete, mia cara!»
«Ce ne sarà tanta della quiete quando saremo morti» rispondeva la padrona.
Qualche volta, però, anche in campagna, doveva vestirsi di nero, ed era quando lo chiamavano a fare i discorsi.
Quell’anno poi che è venuta la cometa, è dovuto andare cinque o sei volte in giro per le città a spiegare se la cometa cadeva o non cadeva.
Lui diceva che non c’era da avere nessuna paura. «Eh, sí, sí! quante volte al Signore è venuta l’idea di distruggere il mondo, e poi non ne ha fatto niente! La testa della cometa non verrà a sbattere contro di noi: tutt’al piú vi sarà un po’ di puzza nella coda.»
«E io dico invece» diceva mia madre «che peste o fame o guerra verrà di sicuro.»
«Oh, come sei ignorante, Mingona!»
«Me sarà ignorante» rispondeva mia madre «ma me dico di sí.»
E quando doveva andare a fare i discorsi, la padrona lo vestiva con un gran gibbidòmine nero e un gran cravattone.
«Mingòn» diceva lui allora, «tu sai che Giulio Cesare, imperator romano, ha conquistato il mondo; ma con questo colletto che mi pianta mia moglie, attorno al collo, sta pur sicuro che anche lui non concludeva niente.»
Loro venivano in campagna al principio dell’estate e ci stavano sino a San Martino. Quando venivano, bisognava lavare tutta la facciata della casa, che era verniciata di bianco, e mettere su la torretta una bandierina di seta, bianca rossa e verde, che voleva dire che loro erano arrivati. Poi bisognava mettere due vasi davanti alla porta. La torretta era color rosa e aveva tanti sbecchi e ricami che pareva di quei zuccherini colorati che vendono alle fiere; e con quella bandiera faceva uno spicco allegro da tutte le parti.
Guai, però, quando si puliva la facciata, a guastare i nidi delle rondini sotto la grondaia!
Dopo i fiori, le rondanine era la passione della padrona; e questa era una cosa dove lei andava d’accordo col padrone. La mattina, quando si vestiva, la si perdeva a stare alla finestra a guardare le rondanine. Diceva che le conosceva e: «Fanno un verso come i bambini che ridono!».
E quando vedeva i rondanini che erano nati e mettevano fuori la testa dal nido, era tutta contenta.
Ogni tanto capitavano dei forestieri a trovare il padrone. Plif, plaf, parlavano tutte le lingue, che non si capiva un accidente. Lui li conduceva anche a vedere il rústico, e ci presentava come se noi altri, contadini, fossimo stati una razza speciale.
«Però tanto buono, tanto caro il nostro pòpolo!» diceva a quei signori; e a noi poi ci batteva cosí, con la mano su la spalla, come si fa con le bestie.
Gli passavano ogni tanto dei frulli per la testa, come quello di insegnare a noi a fare i contadini.