Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

I draghi del sole morente
I draghi del sole morente
I draghi del sole morente
E-book737 pagine10 ore

I draghi del sole morente

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Sono trascorsi ormai cinquant’anni dalla terribile Guerra del Chaos, che ha costretto le divinità all’abbandono di Krynn. I dragoni, crudeli e potenti, esercitano un serrato controllo su Ansalon, spartendosi tra loro il dominio del continente e assoggettando a pesanti tributi il popolo che hanno reso schiavo. Gli eroi del passato si godono un meritato riposo. I nuovi eroi hanno preso il loro posto nella lotta contro il male implacabile. Nuovi eventi, forse funesti, si profilano all’orizzonte. Una violentissima tempesta magica scuote Ansalon, scatena paurosi incendi, fa scorrere sangue a fiumi, portando devastazioni e morte in tutto il continente. Ma ecco comparire una giovane donna, una figura misteriosa e dotata di arcani poteri. Il suo destino è legato indissolubilmente a quello di Krynn. Forse lei sola conosce la verità sul futuro, un futuro stranamente e inestricabilmente legato a un terribile mistero del passato.
LinguaItaliano
EditoreArmenia
Data di uscita5 mag 2022
ISBN9788834436448
I draghi del sole morente

Correlato a I draghi del sole morente

Titoli di questa serie (70)

Visualizza altri

Ebook correlati

Fantasy per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su I draghi del sole morente

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    I draghi del sole morente - Margaret Weis

    La canzone di Mina

    Il giorno se n’è andato senza che noi potessimo fermarlo.

    I petali si chiudono sul fiore.

    La luce svanisce nell’ora

    dell’ultimo respiro del giorno.

    L’oscurità della notte circonda

    le anime distanti di stelle ora splendenti.

    Lontano da questo mondo di dolore, paura e morte,

    al quale siamo legati.

    Dormi, amore; dormi per sempre.

    La notte proteggerà la tua anima.

    Abbraccia l’oscurità profonda.

    Dormi, amore; dormi per sempre.

    L’oscurità avvolgente s’impadronisce delle nostre anime,

    racchiudendoci in un gelido abbraccio,

    nella profondità del vuoto della Signora che tiene

    il nostro destino nelle sue mani.

    Sognate, guerrieri, il buio sopra di voi,

    e sentite la dolce redenzione

    della Consorte della Notte e del suo amore

    per coloro che sono nel suo cerchio.

    Dormi, amore; dormi per sempre.

    La notte proteggerà la tua anima.

    Abbraccia l’oscurità profonda.

    Dormi, amore; dormi per sempre.

    Chiudiamo gli occhi, riposiamo le menti,

    sottomettiamo i nostri desideri al suo ordine.

    Confessiamo le nostre debolezze,

    e pieghiamoci al suo volere.

    La forza del silenzio colma il cielo,

    la sua profondità oltre me e te.

    Nelle sue braccia voleranno le nostre anime,

    e là cesseranno paura e dolore.

    Dormi, amore; dormi per sempre.

    La notte proteggerà la tua anima.

    Abbraccia l’oscurità profonda.

    Dormi, amore; dormi per sempre.

    Libro primo

    1.

    Il Canto della Morte

    Inani chiamavano la valle Gamashinoch, il Canto della Morte. Nessuno dei viventi ci metteva piede di sua spontanea volontà. Chi vi entrava lo faceva per disperazione, urgente bisogno, o perché ne aveva ricevuto l’ordine dal proprio comandante.

    I cavalieri ascoltavano il «canto» da ore, mentre la loro avanzata li portava sempre più vicini alla valle desolata. Era angoscioso, terribile. Le parole, mai chiaramente udibili, mai del tutto distinguibili – almeno non con le orecchie – parlavano della morte, e peggio. Il canto parlava di catture, frustrazioni amare, tormenti infiniti. Era un lamento, un’espressione di desiderio per un luogo che l’anima ricordava, un porto di pace e di beatitudine ormai irraggiungibili.

    Nel sentire per la prima volta quel lugubre suono, i cavalieri avevano tirato le redini dei destrieri, allungando la mano verso le spade; si guardavano intorno con apprensione, gridando: «Che succede?» e «Chi va là?».

    Ma non c’era nessuno. Nessuno dei viventi. I cavalieri fissarono il comandante che, ritto sulle staffe, esaminava le rupi a strapiombo su di loro, a destra e a sinistra.

    «Non è niente», disse questi, infine. «Solo il vento fra le rocce. Andate avanti».

    Spronò il cavallo sulla strada che correva sinuosa attraverso i monti noti come Signori del Fato. La pattuglia seguì in colonna; il passaggio era troppo stretto perché gli uomini potessero procedere affiancati.

    «Ho già sentito il vento, mio signore», osservò un cavaliere, burbero, «e deve ancora acquisire voce umana. Questo canto ci avvisa di stare lontani. Faremmo meglio a dargli ascolto».

    «Sciocchezze!». Il caposquadra Ernst Magit si girò sulla sella per trafiggere con lo sguardo il suo ricognitore e comandante in seconda, che veniva dietro di lui. «Sproloqui superstiziosi! Del resto, voi minotauri siete famosi perché vi aggrappate a idee e costumi vecchi e superati. È tempo che entri nell’epoca moderna. Gli dei se ne sono andati, e meno male, dico io. Noi esseri umani governiamo il mondo».

    Una sola voce, una voce di donna, aveva dapprima intonato il Canto della Morte. Ora le si aggiunse uno spaventoso coro di uomini, donne e bambini, innalzato in una tragica nenia di disperazione, rovina e tormento che riecheggiava fra le montagne.

    A quel suono luttuoso diversi cavalli si fermarono, rifiutando di proseguire; e, a dire la verità, i loro padroni non fecero molto per incitarli.

    Il cavallo di Magit s’impennava e scartava. Magit gli conficcò gli speroni nei fianchi, lasciando grossi incavi sanguinolenti, e la bestia avanzò riluttante, con la testa bassa e le orecchie scosse da spasmi. Il caposquadra cavalcò per circa mezzo miglio, prima di accorgersi che non sentiva rumore di altri zoccoli. Guardandosi intorno, vide che era il solo a procedere. Nessuno degli uomini l’aveva seguito.

    Furibondo, Magit si girò, tornando al galoppo dai suoi. Trovò metà pattuglia a terra, e l’altra metà che, con aria imbarazzata, stava in sella a cavalli tremanti.

    «Le bestie hanno più cervello dei loro padroni», disse il minotauro, in piedi sulla strada. Pochi cavalli permettevano a un minotauro di montarli, e meno ancora avevano la forza e la stazza necessarie per portare uno dei più grossi. Galdar era alto più di due metri, contando le corna. Teneva il passo con la pattuglia, correndo agevolmente accanto alle staffe del comandante.

    Magit sedeva sul suo cavallo, le mani sul pomo della sella, il viso rivolto agli uomini. Era un tipo alto, esageratamente magro, le cui ossa sembravano legate insieme con il filo d’acciaio, perché era molto più forte di quanto non dicesse il suo aspetto. Gli occhi, di un azzurro acquoso, erano scialbi, senza intelligenza, senza profondità. Era famoso per la sua crudeltà, per la sua disciplina inflessibile – molti l’avrebbero detta irragionevole – e per la sua devozione completa e totale a un’unica causa: se stesso.

    «Monterete sui vostri cavalli e mi seguirete», intimò freddamente, «o vi denuncerò tutti quanti al capitano. Vi accuserò di codardia, ammutinamento, e tradimento della Visione. Come sapete, la pena per anche uno solo di questi crimini è la morte».

    «Lo può fare?» bisbigliò un cavaliere novello, che era alla sua prima missione.

    «Certo», risposero i veterani, cupi. «E lo farà».

    I cavalieri rimontarono in sella e incitarono i cavalli con gli speroni. Erano costretti a girare intorno al minotauro, Galdar, che restava in piedi in mezzo alla strada.

    «Ti rifiuti di obbedire al mio ordine, minotauro?» domandò rabbiosamente Magit. «Pensaci bene, prima. Sarai anche il pupillo del Protettore del Teschio, ma dubito che persino lui potrebbe salvarti se ti deferissi al Consiglio per codardia e violazione di giuramento».

    Piegandosi sul collo del cavallo, Magit parlò con finta confidenza. «E da quel che sento, Galdar, il tuo padrone potrebbe non essere più tanto ansioso di proteggerti. Un minotauro con un braccio solo. Un minotauro guardato con pietà e disprezzo dalla sua stessa gente. Un minotauro ridotto al rango di ricognitore. E sappiamo tutti che ti hanno assegnato quel ruolo tanto per farti fare qualcosa. Anche se ho sentito suggerire che ti mettessero a pascolare nei campi con il resto delle pecore».

    Galdar strinse il pugno che gli rimaneva, conficcando nella carne le unghie acuminate. Sapeva molto bene che Magit lo stava provocando, adescandolo in una lite, lì, dove ci sarebbero stati pochi testimoni. Lì, dove Magit avrebbe potuto uccidere il minotauro storpio, e ritornare a casa sostenendo che il combattimento era stato equo e glorioso. Galdar non era particolarmente attaccato alla vita, non da quando la perdita del braccio l’aveva trasformato da temibile guerriero a goffo ricognitore. Ma che fosse dannato se doveva morire per mano di Ernst Magit. Non avrebbe dato al suo comandante quella soddisfazione.

    Il minotauro si fece strada a spallate oltre Magit, che lo guardò con un ghigno di disprezzo sulle labbra sottili.

    La pattuglia continuò verso la meta, sperando di raggiungerla con la luce del giorno, se così si poteva chiamare il freddo, grigio chiarore che non riscaldava nulla. Il Canto della Morte risuonava lugubre e lamentoso. Una delle reclute cavalcava con le guance rigate di lacrime. I veterani procedevano curvi, con le spalle alzate sulle orecchie, come per escludere quel suono terribile. Ma anche con le orecchie piene di stoppa, anche con i timpani rotti, l’avrebbero sentito comunque.

    Il Canto della Morte riecheggiava nel cuore.

    La pattuglia entrò nella cosiddetta valle di Neraka.

    Nella notte dei tempi, la dea Takhisis, Regina delle Tenebre, aveva posato all’estremità meridionale della valle una prima pietra, salvata dall’esplosione del tempio del Sommo Sacerdote di Istar. La pietra aveva cominciato a crescere, traendo vitalità dal male del mondo e diventando un tempio, vasto e imponente; un tempio di oscurità orrenda e grandiosa.

    Takhisis aveva contato di usarlo per ritornare al mondo da cui era stata scacciata da Huma Dragonbane, ma l’amore e l’abnegazione le avevano bloccato la strada. Tuttavia, aveva conservato un grande potere, con cui aveva sferrato contro il mondo una guerra che lo aveva quasi distrutto. I suoi perfidi comandanti, come un branco di cani selvatici, si erano messi a litigare fra loro. Era sorta una coorte di eroi che, guardandosi nel cuore, aveva trovato il potere di contrastarla, sconfiggerla e umiliarla. Il tempio di Neraka era stato fatto a pezzi dalla rabbia della Regina per la sua disfatta.

    Le pareti erano esplose, e in quel giorno terribile dal cielo erano piovuti massi neri ed enormi che avevano schiacciato la città di Neraka. Fuochi purificatori avevano distrutto gli edifici del luogo maledetto, i mercati, i recinti per gli schiavi e i numerosi corpi di guardia erano bruciati, riempiendo di cenere le vie tortuose, labirintiche.

    Oltre cinquant’anni dopo, non rimaneva più traccia della città originaria. I frammenti dell’ossatura del tempio costellavano il fondo della parte meridionale della valle di Neraka. Da tempo, il vento aveva soffiato via la cenere. Qui, non cresceva nulla: i vortici di sabbia avevano coperto ogni segno di vita.

    Restavano solo i massi neri, i resti del tempio. Erano una vista orrenda, e persino il caposquadra Magit, posandovi lo sguardo per la prima volta, si chiese in cuor suo se la sua decisione di addentrarsi in quel luogo fosse stata intelligente. Avrebbe potuto aggirarlo, ma così avrebbe aggiunto due giorni al viaggio, ed era già in ritardo, avendo trascorso qualche notte in più con una nuova prostituta arrivata al suo bordello preferito. Doveva recuperare tempo, e aveva scelto come scorciatoia questo percorso attraverso la parte meridionale della valle.

    Forse a causa della forza dell’esplosione, la roccia nera che aveva formato le pareti esterne del tempio aveva acquisito una struttura cristallina. I massi che si ergevano dalla sabbia non erano scabri, rugosi; erano lisci, con piani nettamente definiti culminanti in punte sfaccettate. Immaginate cristalli di quarzo nero che sporgano dalla sabbia grigia, alcuni alti quattro volte un uomo. Questi potrebbe vedere il suo riflesso nei loro lucidi piani, un riflesso deformato, distorto, e tuttavia completamente riconoscibile.

    Questi uomini si erano uniti di buon grado all’esercito dei Cavalieri di Takhisis, spinti dalla promessa del bottino e degli schiavi vinti in battaglia, dalla loro gioia nell’uccidere e nell’opprimere, dal loro odio per elfi, kender, nani, o qualunque altro essere diverso da loro. Questi uomini, da tempo insensibili ai buoni sentimenti, guardarono nei piani lucenti dei cristalli e furono atterriti dalle immagini che ritornavano loro, poiché si videro aprire la bocca, per intonare quel canto terribile.

    La maggior parte rabbrividì, e distolse rapidamente lo sguardo. Galdar non li imitò. Nel vedere i cristalli neri ergersi da terra, aveva abbassato gli occhi, e bassi li tenne, per reverenza e rispetto; o superstizione, come sicuramente avrebbe detto Ernst Magit. Gli dei non erano in quella valle. Galdar sapeva che era impossibile: erano stati scacciati da Krynn più di trent’anni prima; ma il loro spirito aleggiava in quel luogo, ne era certo.

    Magit guardò il suo riflesso nella roccia; e proprio perché ne rifuggiva internamente, si costrinse a fissarlo fino a dominarsi.

    «Non mi farò spaventare dalla mia ombra!» esclamò, con un’occhiata significativa a Galdar. «Come una stupida mucca». Magit aveva da poco inventato questo humour «bovino». Lo considerava estremamente buffo e altamente originale, e non perdeva occasione di farvi ricorso. «Capito, minotauro?» concluse con una risata.

    Il canto della morte la raccolse, e le conferì melodia e tono: cupi, discordanti, opposti alle sue altre voci. Il suono era così orribile che Magit fu scosso. Tossì e inghiottì la risata, con grande sollievo dei suoi uomini.

    «Tu ci hai portato qui, caposquadra», ribatté Galdar. «Abbiamo visto che questa parte della valle è disabitata, che nessuna forza solamnica vi si nasconde, pronta a piombare su di noi. Possiamo procedere verso il nostro obiettivo, sicuri che da questa direzione non abbiamo nulla da temere dalla terra dei vivi. Ora lasciamo questo posto, e in fretta. Torniamo a fare rapporto».

    I cavalli erano entrati nella valle meridionale con tanta riluttanza che in certi casi i cavalieri erano stati costretti a smontare di nuovo, a coprire loro gli occhi e a guidarli, come nella fuga da un edificio in fiamme. Sia gli uomini sia gli animali erano evidentemente ansiosi di andarsene. I cavalli si diressero piano verso la strada da cui erano arrivati, affiancati dai cavalieri.

    Ernst Magit voleva lasciare quel luogo tanto quanto gli altri. E proprio per questa ragione decise che sarebbero rimasti. Nel profondo del cuore, era un codardo; e lo sapeva. Per tutta la vita, aveva compiuto imprese per provare a se stesso il contrario. Niente di veramente eroico. Magit evitava il pericolo non appena poteva; anche per questo stava di pattuglia, e non si era unito agli altri Cavalieri di Neraka, che assediavano la città di Sanction, controllata dai Solamnici. Intraprendeva azioni futili, di poco conto, le quali non lo esponevano a rischi, ma avrebbero dimostrato a lui e ai suoi che non aveva paura. Azioni tipo trascorrere la notte in quella valle maledetta.

    Guardò ostentatamente il cielo, che era di un giallo pallido e malsano, una strana tinta che nessuno dei cavalieri aveva mai visto.

    «Ormai è il crepuscolo», annunciò in tono sentenzioso. «Non voglio farmi sorprendere dalle tenebre fra le montagne. Ci accamperemo qui e ripartiremo domattina».

    I cavalieri lo fissarono increduli, inorriditi. Il vento era cessato. Il canto non riecheggiava più nei cuori. Sulla valle era sceso il silenzio, dapprima accolto con gioia, poi sempre più odiato man mano che si protraeva. Il silenzio pesava su di loro, li opprimeva, li schiacciava. Nessuno parlava. Aspettavano che il comandante dicesse loro che aveva voluto scherzare.

    Magit scese da cavallo. «Ci accamperemo qui», ripeté. «Montate la mia tenda di comando vicino al più alto di quei monoliti. Galdar, ti rendo responsabile delle operazioni. Spero che saprai affrontare questo semplice compito».

    Il tono sembrò innaturalmente alto, la voce stridula. Un soffio d’aria, freddo e pungente, sibilò nella vallata, alzando la sabbia in turbini che vorticarono sul terreno spoglio, e si allontanarono con un sussurro.

    «Stai commettendo un errore, signore», osservò Galdar sommessamente, per di­sturbare il silenzio il meno possibile. «Qui non siamo benvoluti».

    «E chi non ci vuole, Galdar?». Il caposquadra sogghignò. «Le rocce?». Colpì il lato di un monolito di cristallo nero. «Ah! Che pecora stupida e superstiziosa!». La sua voce s’indurì. «Voi uomini. Smontate da cavallo e cominciate a piantare le tende. È un ordine».

    Ernst Magit si stiracchiò, fingendosi rilassato. Si piegò su se stesso, sciolse i muscoli. I cavalieri, cupi e infelici, eseguirono i suoi comandi. Metà pattuglia scaricò i rotoli dalle selle e cominciò a montare le tende piccole, per due persone. Gli altri tolsero dal bagaglio cibo e acqua.

    Ogni tentativo di accamparsi fu un fallimento. Nessun martellio, per quanto protratto, riuscì a conficcare le punte di metallo nel terreno duro. Ogni colpo di martello rimbombava fra le montagne, e ritornava amplificato cento volte, finché non sembrò che le montagne stesse si accanissero su di loro.

    Galdar buttò a terra il mazzuolo, adoperato goffamente con l’unica mano.

    «Che succede, minotauro?» domandò Magit. «Sei così debole che non riesci a piantare un picchetto da tenda?».

    «Provaci tu, signore», replicò Galdar.

    Gli altri gettarono il mazzuolo e rimasero a fissare il comandante, con aria ostile e provocatoria.

    Magit era livido di rabbia. «Voi uomini potete dormire all’aperto se siete troppo stupidi per montare una semplice tenda!».

    Tuttavia, non tentò di conficcare i picchetti nel suolo roccioso. Si guardò intorno finché non trovò quattro cristalli neri che formavano un quadrato rozzo, irregolare.

    «Legate la mia tenda a quei quattro massi», ingiunse. «Almeno io dormirò bene, stanotte».

    Galdar eseguì l’ordine. Avvolse le corde alla base dei monoliti, borbottando nel contempo un canto magico che, per i minotauri, placava lo spirito dei morti senza pace.

    Gli uomini cercarono di legare le bestie alle pietre, ma esse s’impuntavano e s’impennavano, prese dal terrore e dal panico. Infine, i cavalieri tesero una corda fra due monoliti, e vi legarono i cavalli. Questi si strinsero fra loro, nervosi e agitati, roteando gli occhi e tenendosi il più possibile lontani dalle rocce nere.

    Mentre gli uomini si davano da fare, Ernst Magit prese una mappa dalla bisaccia e, dopo un’ultima occhiataccia all’intorno per ricordare a ognuno il proprio dovere, l’aprì e cominciò a studiarla con un’aria attenta e tranquilla che non ingannava nessuno. Stava sudando, e non aveva lavorato per nulla.

    Lunghe ombre si stendevano sulla valle di Neraka, rendendola molto più oscura del cielo, illuminato da un bagliore giallo fiamma. L’aria era calda, più di quando erano arrivati, ma di tanto in tanto vortici di vento freddo turbinavano da ovest, gelando le ossa fino al midollo. I cavalieri non avevano portato legna con sé. Mangiarono razioni fredde, o almeno cercarono di farlo. Ogni boccone era inquinato dalla sabbia; alla fine, gettarono via la maggior parte del cibo. Seduti sul terreno duro, si guardavano costantemente alle spalle, scrutando attentamente nel buio. Tutti avevano la spada sguainata. Non c’era bisogno di stabilire i turni di guardia: nessuno aveva intenzione di dormire.

    «Ehi! Guardate!» chiamò Ernst Magit in tono di trionfo. «Ho fatto una scoperta importante! Abbiamo fatto bene a passare un po’ di tempo qui». Indicò la sua mappa, e poi l’ovest. «Vedete quella catena montuosa? Non è segnata sulla mappa. Deve essere di formazione recente; lo farò certamente notare al Protettore. Forse sarà chiamata col mio nome, in mio onore».

    Galdar guardò la catena. Si alzò lentamente, fissando il cielo occidentale. Sicuramente, a prima vista, quella formazione grigio acciaio e blu cupo sembrava proprio una nuova montagna spuntata dal terreno. Ma, d’un tratto, il minotauro notò qualcosa che il caposquadra, nel suo entusiasmo, si era fatto sfuggire. La montagna cresceva e si espandeva con rapidità allarmante.

    «Signore!» gridò Galdar. «Quella non è una montagna! Sono nuvole di tempesta!».

    «Sei già una pecora, non fare anche l’asino», ribatté Magit. Aveva raccolto un pezzo di roccia nera e lo stava usando a mo’ di gessetto per aggiungere il Monte Magit alle meraviglie del mondo.

    «Signore, da giovane ho passato dieci anni per mare, e so riconoscere una tempesta. Anche se non ho mai visto niente del genere!».

    Ora il banco di nubi s’innalzava a velocità incredibile; con il suo cuore nero, ribolliva tumultuoso come un mostro vorace dalle molte teste, inghiottendo la cima delle montagne, allungandosi su di esse per consumarle tutte intere. Il vento gelido si rafforzò, buttando la sabbia negli occhi e nelle bocche, e investendo la tenda del comandante, che sbatté violentemente, lottando contro i legacci.

    Il vento ricominciò a intonare lo stesso terribile canto, lo stesso lamento funebre, lo stesso gemito di disperazione, lo stesso urlo di angoscioso tormento.

    Colpiti dal vento, gli uomini cercarono di rialzarsi. «Comandante! Dobbiamo andarcene!» gridò Galdar. «Ora! Prima che scoppi la tempesta!».

    «Sì!» rispose Ernst Magit, pallido e scosso. Si leccò le labbra, sputò della sabbia. «Sì, hai ragione. Dobbiamo andarcene subito. Lasciate stare la tenda! Portatemi il mio cavallo!».

    Un fulmine lampeggiò nell’oscurità, trafisse il terreno vicino al punto in cui erano legati i cavalli. Esplose il tuono. La scossa fece cadere alcuni uomini. I cavalli nitrirono, s’impennarono, agitarono gli zoccoli. Chi era ancora in piedi cercò di calmarli, ma loro non ne vollero sapere; liberatisi con uno strattone dalla corda che li teneva, galopparono via in preda a un folle panico.

    «Prendeteli!» esclamò Magit, ma gli uomini avevano il loro daffare a restare ritti contro il vento sferzante. Un paio fecero qualche passo traballante verso i cavalli, ma era ovvio che la caccia era completamente inutile.

    Le nubi della tempesta correvano nel cielo, combattendo contro la luce, e sconfiggendola facilmente. Il sole cadde, sopraffatto dalle tenebre.

    La notte era scesa su di loro, una notte fitta di sabbia turbinante. Galdar non vedeva assolutamente nulla, nemmeno la sua unica mano. Un attimo dopo, ogni cosa all’intorno fu illuminata da un altro fulmine devastatore.

    «State giù!» urlò, gettandosi a terra. «Mettetevi distesi! Tenetevi lontani dai monoliti!».

    Le gocce di pioggia cadevano lateralmente, colpendoli come frecce lanciate da un milione di archi. I chicchi di grandine li percuotevano come fruste dalla punta d’acciaio, lasciando lividi e ferite. Galdar aveva la pelle dura, i chicchi lo pungevano come morsi di formica; ma gli altri gridavano di dolore e di terrore. Il fulmine si muoveva in mezzo a loro, scagliando le sue lance fiammeggianti. Il tuono scuoteva la terra, rombando e rimbombando.

    Sdraiato sulla pancia, Galdar lottava contro l’impulso di squarciare la terra con la mano, per rintanarsi nelle profondità del mondo. Fu stupefatto nel vedere, durante il lampo successivo, il suo comandante che cercava di alzarsi.

    «Signore, sta’ giù!» intimò, e fece per afferrarlo.

    Magit imprecò, sferrandogli un calcio alla mano. A testa china contro il vento, il caposquadra barcollò fino a uno dei monoliti. Vi si mise davanti, usando la sua grande mole per ripararsi dalla pioggia battente e dalla grandine martellante. Poi, ridendo dei suoi uomini, sedette sul terreno, appoggiò la schiena contro la pietra e distese le gambe.

    Il lampo accecò Galdar. Lo scoppio lo assordò. Con la sua forza, il fulmine lo sollevò da terra, poi lo ricacciò giù. Aveva colpito così vicino che il minotauro aveva udito lo sfrigolio nell’aria, e sentiva odore di fosforo e zolfo. Sentiva anche qualcos’altro: odore di carne bruciata. Si strofinò gli occhi per cercare di vedere attraverso il bagliore frastagliato che li riempiva. Quando gli tornò la vista, guardò verso il comandante. Con il lampo successivo, vide una massa informe, rannicchiata ai piedi del monolito.

    La carne di Magit rosseggiava sotto una crosta nera, come un pezzo di arrosto troppo cotto. Da essa si levava del fumo, che il vento soffiava via, insieme a frammenti carbonizzati. La pelle del viso, incenerita, rivelava una chiostra di denti aperta in un orrido sorriso.

    «Felice di vedere che stai ancora ridendo, caposquadra», borbottò Galdar. «Eri stato avvisato».

    Si appiattì ulteriormente sul terreno, maledicendo le costole che facevano da ostacolo.

    La pioggia s’intensificò, se era possibile. Il minotauro si chiese quanto potesse continuare la violenta tempesta. Gli sembrava che durasse da una vita; che in essa fosse nato, e in essa sarebbe invecchiato e poi morto. Una mano l’afferrò per il braccio; lo scosse.

    «Signore! Guarda là!». Uno dei cavalieri l’aveva raggiunto, strisciando sul terreno. «Signore!». L’uomo mise la bocca all’orecchio di Galdar, gridò raucamente per farsi sentire sopra la pioggia sferzante, la grandine martellante, il tuono costante e, peggio ancora, il canto della morte. «Ho visto qualcosa muoversi laggiù!».

    Galdar sollevò la testa, scrutò nella direzione indicata, nel cuore della valle di Neraka.

    «Aspetta il prossimo lampo!» urlò il cavaliere. «Ecco! Eccolo!».

    Il lampo successivo fu una cortina di fiamma che illuminò il cielo, il terreno e le montagne di un fulgore bianco e porpora insieme. Contro la terribile luce si stagliava una figura, che avanzava verso di loro, muovendosi calma attraverso la tempesta impetuosa; sembrava non toccata dal vento, non scossa dal fulmine, non timorosa del tuono.

    «È uno dei nostri?» indagò Galdar, pensando dapprima che uno degli uomini fosse impazzito e scappato, come avevano fatto i cavalli.

    Ma nello stesso momento in cui faceva la domanda, capì che non era così. La figura camminava, non correva. E non fuggiva, si avvicinava.

    Il lampo si spense. Cadde il buio, e la figura scomparve. Galdar aspettò con impazienza che il lampo successivo gli mostrasse quell’essere pazzo che sfidava la furia della tempesta. Il fulmine illuminò il terreno, le montagne, il cielo. La persona era ancora lì, e veniva ancora verso di loro. Sembrò a Galdar che il canto della morte si fosse trasformato in un peana di celebrazione.

    Di nuovo il buio. Il vento si placò un poco. La pioggia si addolcì in un acquazzone costante. La grandine cessò del tutto. Il tuono si stemperò in un rullio, che sembrava accompagnare il passo dello strano profilo scuro, sempre più vicino a ogni bagliore. La tempesta passò a infuriare dall’altra parte delle montagne, in altre parti del mondo. Galdar si alzò in piedi.

    Bagnati fradici, i cavalieri si tolsero acqua e fango dagli occhi, guardando mestamente le coperte zuppe. Il vento era gelido e pungente, e tremavano tutti tranne Galdar, la cui pelliccia e la spessa pelle lo proteggevano fino alle temperature più rigide. Con uno scossone, il minotauro liberò le corna dall’acqua, e aspettò che la figura arrivasse a portata di voce.

    Le stelle, simili a punte di lancia dal bagliore freddo e mortale, apparvero a ovest. L’ultimo scaglione della tempesta, con i suoi bordi frastagliati, sembrava scoprirle al suo passaggio. La luna solitaria era sorta sfidando il tuono. Ormai, lo sconosciuto era a non più di sei metri e, alla luce argentea della luna, Galdar poteva vederlo chiaramente.

    Un essere umano, un giovane, a giudicare dal corpo snello, ben piantato, e dalla pelle liscia del viso. I capelli, rossi, erano tagliati a spazzola, il che accentuava i tratti del viso, mettendo in risalto gli zigomi alti, il mento aguzzo, la bocca arcuata. Il giovane indossava la camicia e la giubba di un comune cavaliere e stivali di pelle, e non portava spada alla cintola, né nessun’altra arma che Galdar potesse vedere.

    «Alt, fatti riconoscere!» gridò aspramente il minotauro. «Fermati lì, ai margini del campo».

    Il giovane obbedì, con le mani alzate, i palmi rivolti all’esterno per mostrare che erano vuote.

    Galdar sguainò la spada. In quella strana notte, non voleva correre rischi. La teneva goffamente nella sinistra. L’arma gli era quasi inutile; a differenza di altri amputati, non aveva mai imparato a combattere con la mano rimasta. Prima della disgrazia, era stato un abile spadaccino, e ora era maldestro e inetto. Poteva benissimo far male a se stesso, oltre che al nemico. Molte volte Ernst Magit aveva riso fragorosamente nel vederlo annaspare durante le esercitazioni.

    Be’, ora non aveva più tanto da ridere.

    Galdar avanzò, con la spada in mano. L’elsa era bagnata e scivolosa; sperava di non lasciarla cadere. Il giovane non poteva sapere che lui era un guerriero superato, finito. Il minotauro aveva un’aria intimidatoria, e rimase sorpreso nel vedere che lo sconosciuto non tremava davanti a lui, né sembrava poi tanto impressionato.

    «Sono disarmato», esordì questi, con una voce profonda che non si intonava con l’aspetto giovanile. La voce aveva uno strano timbro, dolce, musicale; ricordava stranamente a Galdar una di quelle del canto, ora ridotto a un mormorio sommesso, come in segno di rispetto. Non era una voce di uomo.

    Galdar guardò attentamente il giovane, il collo sottile simile al lungo stelo di un giglio, che sosteneva il cranio meravigliosamente formato, perfettamente liscio sotto la peluria rossa. Esaminò anche il corpo flessuoso. Le braccia erano muscolose, così come le gambe, nelle calze di lana. La camicia bagnata, troppo grande, penzolava dalle spalle esili. Galdar, che non vedeva niente sotto le sue pieghe, non poté accertare se lo sconosciuto fosse maschio o femmina.

    I cavalieri si raccolsero intorno al minotauro. Tutti fissavano il giovane, bagnato e luccicante come un neonato. Gli uomini erano accigliati, diffidenti, inquieti. E chi poteva biasimarli? Tutti si facevano la stessa domanda di Galdar. Nel nome del grande dio cornuto che era morto abbandonando il suo popolo, che cosa ci faceva quell’essere umano, in quella valle maledetta, in quella notte maledetta?

    «Come ti chiami?» chiese Galdar.

    «Il mio nome è Mina».

    Una ragazza. Una ragazzina. Non poteva avere più di diciassette anni... se li aveva. E tuttavia, malgrado il nome, un nome da donna popolare fra gli umani, malgrado le tracce del suo sesso nella liscia sagoma del collo e nella grazia dei movimenti, Galdar ancora dubitava. C’era qualcosa di molto poco femminile in lei.

    Mina sorrise leggermente, come se potesse sentire i suoi dubbi inespressi, e disse: «Sono una donna». Scrollò le spalle. «Anche se fa poca differenza».

    «Avvicinati», ordinò bruscamente Galdar.

    La ragazza obbedì, fece un passo avanti.

    Galdar la guardò negli occhi, e per poco il respiro non gli si fermò in gola. In vita sua, aveva visto esseri umani di tutte le forme e di tutte le misure, ma mai uno, mai una creatura vivente con occhi del genere.

    Innaturalmente ampi, infossati, erano color ambra, con le pupille nere, e le iridi circondate da un anello d’ombra. L’assenza di capelli li faceva sembrare ancora più grandi. Mina era tutt’occhi, e quegli occhi assorbivano Galdar e lo imprigionavano, come l’ambra dorata imprigiona le carcasse dei piccoli insetti.

    «Sei tu il comandante?» chiese lei.

    Galdar lanciò un’occhiata verso il corpo carbonizzato alla base del monolito. «Ora sì», rispose.

    Mina seguì il suo sguardo, osservò il cadavere con freddo distacco. Riportò gli occhi ambra su Galdar, che avrebbe potuto giurare di vedervi il corpo di Magit chiuso dentro.

    «Che cosa fai qui, ragazzina?» domandò aspramente il minotauro. «Hai smarrito la strada nella tempesta?».

    «No, l’ho trovata», replicò lei. Gli occhi ambra, luminosi, non battevano ciglio. «Ho trovato voi. Sono stata chiamata, e ho risposto. Siete i Cavalieri di Takhisis, non è vero?».

    «Lo eravamo», disse seccamente Galdar. «Abbiamo aspettato a lungo la sua venuta, ma ora i comandanti ammettono ciò che la maggior parte di noi sapeva da tempo. Lei non tornerà. Per questo, ora ci chiamiamo i Cavalieri di Neraka».

    Mina ascoltò, pensierosa. Sembrò approvare, perché annuì gravemente. «Capisco. Sono venuta per unirmi ai Cavalieri di Neraka».

    In qualunque altro momento, in qualunque altro posto, gli uomini avrebbero potuto ridacchiare, o fare commenti rozzi. Ma non erano in vena di frivolezze. Lo stesso valeva per Galdar. La tempesta era stata terrificante: non ne aveva mai visto l’uguale, ed era al mondo da quarant’anni. Il loro caposquadra era morto. Li aspettava una lunga marcia, a meno che, per qualche miracolo, non riuscissero a recuperare i cavalli. Non avevano cibo, i cavalli erano fuggiti con le provviste; e non avevano acqua, tranne quella che fossero riusciti a strizzare dalle coperte fradice.

    «Di’ alla marmocchia di tornare dalla mamma», esclamò impaziente un cavaliere. «Che cosa facciamo, vicecomandante?».

    «Io dico di andarcene», suggerì un altro. «Camminerò tutta la notte se necessario».

    Gli altri borbottarono il loro assenso.

    Galdar guardò all’insù. Il cielo era limpido. Il tuono rombava, ma in lontananza. Fulmini purpurei lampeggiavano sull’orizzonte occidentale. La luna dava abbastanza luce per viaggiare. Galdar era stanco, insolitamente stanco. Gli uomini erano scarni, con le guance scavate, tutti vicini allo sfinimento. Tuttavia, sapeva come si sentivano.

    «Partiremo», annunciò. «Ma prima dobbiamo sistemare quello». Indicò con il pollice il corpo ardente di Ernst Magit.

    «Lasciamolo lì», propose uno dei cavalieri.

    Galdar scosse la testa cornuta. Intanto, era conscio della ragazza che lo osservava attentamente con i suoi strani occhi.

    «Volete essere perseguitati dal suo spirito per il resto dei vostri giorni?» domandò il minotauro.

    Gli altri si guardarono a vicenda, guardarono il corpo. Il giorno prima, avrebbero riso sgangheratamente all’idea di essere perseguitati dallo spirito di Magit, ma ora non più.

    «Che cosa ne facciamo?» indagò uno, in tono lamentoso. «Non possiamo seppellire quel bastardo. Il terreno è troppo duro. E non abbiamo legna per accendere un fuoco».

    «Avvolgete il corpo in quella tenda», disse Mina. «Prendete quelle pietre e costruitegli sopra un tumulo. Non è il primo a morire nella valle di Neraka», aggiunse freddamente, «e non sarà l’ultimo».

    Galdar si lanciò un’occhiata alle spalle. La tenda appesa fra i monoliti era intatta, anche se piegata sotto l’accumulo di acqua.

    «L’idea della ragazza è buona», assentì. «Staccate la tenda e usatela come sudario. E fate presto. Prima finiamo, e prima ce ne andiamo. Toglietegli l’armatura», ordinò. «Dobbiamo riportarla al quartier generale come prova della sua morte».

    «E come?» chiese uno dei cavalieri, con una smorfia. «La carne è attaccata al metallo come una bistecca bruciata a una graticola».

    «Tagliatela via», rispose Galdar. «Ripulitela come meglio potete. Non gli ero tanto affezionato da volerne portare in giro dei pezzi».

    Gli uomini si misero al lavoro di buona lena, ansiosi di finire e di partire.

    Galdar si girò verso Mina, e trovò gli occhi ambra, grandi, fissi su di lui.

    «Faresti meglio a tornare dalla tua famiglia, ragazzina», disse bruscamente. «La marcia sarà rapida e dura. Non avremo tempo per coccolarti. Inoltre, sei una donna. Questi uomini non portano molto rispetto alle virtù femminili. Va’ a casa».

    «Sono già a casa», ribatté Mina, abbracciando la valle con lo sguardo. I monoliti neri riflettevano la fredda luce delle stelle, chiamandole a splendere pallide e gelide fra di loro. «E ho trovato la mia famiglia. Diventerò un cavaliere. Questa è la mia vocazione».

    Galdar era esasperato, incerto su cosa dire. L’ultima cosa che voleva era che questa bizzarra donna-bambina viaggiasse con loro. Ma era così controllata, così padrona di se stessa e della situazione, che non sapeva opporle nessun argomento razionale.

    Pensieroso, fece per rimettere la spada nel fodero. L’elsa era bagnata e scivolosa, e la sua presa maldestra. Annaspò, per poco non lasciò cadere la spada. Riuscendo a trattenerla con uno sforzo disperato, alzò uno sguardo fiero, ardente, sfidando la ragazza a sorridere di scherno o di pietà.

    Lei guardò i suoi sforzi senza aprire bocca. Il suo volto era impassibile.

    Galdar rinfoderò la spada. «Per quanto riguarda l’unirsi alla Cavalleria, la cosa migliore è andare al quartier generale locale e lasciare il tuo nome».

    Continuò esponendo le politiche di reclutamento, l’addestramento richiesto. Si lanciò in un discorso sugli anni di dedizione e di sacrificio, e intanto pensava a Ernst Magit, che si era fatto strada nella Cavalleria a forza di tangenti. D’un tratto, Galdar capì di aver perso l’attenzione della sua interlocutrice.

    La ragazza non lo stava ascoltando. Sembrava ascoltare un’altra voce, una voce che lui non poteva sentire. Il suo sguardo era assente, il viso liscio, inespressivo.

    Le parole si spensero.

    «Non trovi difficile combattere con una mano sola?» chiese Mina.

    La guardò con aria torva. «Sarò anche goffo», replicò, sarcastico, «ma maneggio la spada tanto bene da staccarti dal corpo quella testa rapata!».

    Lei sorrise. «Come ti chiami?».

    Il minotauro si girò dall’altra parte. La conversazione era finita. Vide che gli uomini erano riusciti a separare Magit dalla sua armatura e stavano facendo rotolare sulla tenda la massa ancora fumante.

    «Galdar, credo», proseguì Mina.

    Tornò a fissarla stupefatto, chiedendosi come conoscesse il suo nome.

    Certo, pensò, uno degli uomini doveva averlo pronunciato. Ma non ricordava che nessuno l’avesse fatto.

    «Dammi la mano, Galdar», l’invitò Mina.

    Lui la fulminò con lo sguardo. «Lascia questo posto finché puoi, ragazzina! Non siamo in vena di giochetti. Il mio comandante è morto. Questi uomini sono sotto la mia responsabilità, e non abbiamo né cavalli né cibo».

    «Dammi la mano, Galdar», ripeté Mina, sommessamente.

    Al suono della sua voce dolce, Galdar riudì il canto risuonare fra le rocce. Sentì rizzarglisi il pelo. Un brivido l’attraversò, un fremito gli scese per la spina dorsale. Voleva allontanarsi da lei, ma si vide alzare la mano sinistra.

    «No, Galdar», obiettò Mina. «La destra. Dammi la mano destra».

    «Non ho mano destra!» urlò lui, con angoscia e rabbia.

    Il grido uscì come un rantolo. A quel suono strozzato, gli uomini si girarono allarmati.

    Galdar spalancò gli occhi, incredulo. Il braccio era stato tagliato all’altezza della spalla. Ora, dal moncone si estendeva l’immagine evanescente di quello che era stato il suo braccio destro. L’immagine tremolava nel vento, come se fosse fatta di cenere e fumo, e tuttavia poteva vederla chiaramente, poteva vederla riflessa nel piano nero e liscio del monolito. Sentiva l’arto fantasma, ma questo gli era sempre successo, anche quando il braccio non c’era. Ora guardò il braccio, il braccio destro sollevarsi; guardò la mano, la mano destra tendere le dita tremanti.

    Mina allungò la mano, toccò quella fantasma del minotauro.

    «Il tuo braccio destro ti viene restituito».

    Galdar provava uno sbalordimento infinito.

    Il suo braccio. Il suo braccio destro era di nuovo...

    Il suo braccio destro.

    Non più un braccio fantasma. Non più un braccio di cenere e fumo, un braccio di sogni da perdere nella disperazione del risveglio. Galdar chiuse gli occhi, stretti stretti, poi li riaprì.

    Il braccio era ancora lì.

    I cavalieri erano muti, immobili. Con i volti candidi alla luce della luna, fissavano Galdar, il braccio, e Mina.

    Galdar ordinò alle dita di aprirsi e chiudersi, e queste obbedirono. Allungò la mano sinistra, tremante, e toccò il braccio.

    La pelle era calda, la pelliccia soffice. Il braccio era fatto di ossa, carne e sangue. Il braccio era reale.

    Galdar abbassò la mano, per sguainare la spada. Le dita si chiusero amorevolmente sull’elsa. D’un tratto, fu accecato dalle lacrime.

    Debole, scosso dai brividi, si buttò in ginocchio. «Signora», disse, con voce tremante di meraviglia e sgomento, «non so che cosa tu abbia fatto o come l’abbia fatto, ma sarò tuo debitore per il resto dei miei giorni. Qualunque cosa tu voglia da me, te la concederò».

    «Giurami per il tuo braccio destro che mi concederai ciò che chiedo», rispose Mina.

    «Lo giuro!» assentì Galdar, aspro.

    «Fammi tuo comandante», intimò Mina.

    Galdar sentì la mandibola cadere, la bocca aprirsi e chiudersi. Inghiottì. «Io... ti raccomanderò ai miei superiori.»...

    «Fammi tuo comandante», ripeté lei, con voce dura come il terreno, cupa come i monoliti. «Io non combatto per avidità. Non combatto per guadagno. Non combatto per il potere. Combatto per un’unica causa: la gloria. Non per me stessa, ma per il mio dio».

    «Chi è il tuo dio?» chiese Galdar, impressionato.

    Mina sorrise; un sorriso fiero, pallido e freddo. «Il suo nome non può essere pronunciato. Il mio dio è il Dio Unico. Colui che cavalca la tempesta, Colui che governa la notte. Il mio dio è il Dio Unico che ha reintegrato la tua carne. Giurami lealtà, Galdar. Seguimi verso la vittoria».

    Galdar pensò a tutti i comandanti sotto cui aveva servito. Comandanti come Ernst Magit, che alzavano gli occhi al cielo quando si parlava della Visione di Neraka. La Visione era falsa, quasi tutti nello scaglione superiore lo sapevano. Comandanti come il Principe del Giglio, il suo patrono, che sbadigliava apertamente durante la declamazione del Giuramento di Sangue, e che aveva portato il minotauro nella Cavalleria per puro scherzo. Comandanti come l’attuale Signore della Notte, Targonne, che, come tutti sapevano, toglieva fondi dalle casse dei cavalieri per arricchirsi.

    Galdar alzò la testa, guardò negli occhi ambra. «Tu sei il mio comandante, Mina», annuì. «Giuro fedeltà a te e a nessun altro».

    Mina gli toccò di nuovo la mano. Il tocco era doloroso, gli bruciava il sangue; ma la sensazione gli faceva piacere. Per troppo tempo aveva provato il dolore di un braccio che non c’era.

    «Sarai il mio comandante in seconda, Galdar». Mina volse lo sguardo ambra sui cavalieri. «Voialtri mi seguirete?».

    Alcuni uomini erano stati con Galdar quando questi aveva perso il braccio, avevano visto il sangue sgorgare dall’arto maciullato. Quattro l’avevano tenuto giù mentre il chirurgo lo amputava. L’avevano sentito implorare la morte, una morte che avevano rifiutato di concedergli e che lui non poteva, moralmente, concedere a se stesso. Questi uomini guardarono il braccio nuovo, videro Galdar stringere di nuovo una spada. Avevano visto la ragazza attraversare incolume quella tempesta innaturale e inesorabile.

    Alcuni di essi erano sulla trentina. Veterani di guerre brutali e di dure campagne. Era ovvio che Galdar giurasse fedeltà a questa strana donna-bambina; lei l’aveva reso integro. Ma per quanto li riguardava...

    Mina non ricorse a pressioni, lusinghe, discorsi. Sembrava dare per scontato il loro assenso. Raggiungendo il punto in cui il cadavere del caposquadra giaceva sotto il monolito, parzialmente avvolto nella tenda, raccolse la corazza di Magit. La guardò, la studiò, e poi, infilando le braccia nelle cinghie, la indossò sopra la camicia bagnata. La corazza era troppo grande per lei, e pesante. Galdar si aspettava che la ragazza si piegasse sotto il carico.

    Invece, restò a bocca aperta nel vedere il metallo rosseggiare, cambiare, modellarsi sul suo corpo snello, e abbracciarla come un amante.

    La corazza era stata nera, con sopra l’immagine di un teschio. Apparentemente, l’armatura era stata colpita dal fulmine, anche se il danno fatto da quest’ultimo era estremamente strano. Il teschio che adornava la corazza era diviso in due; una saetta d’acciaio lo fendeva.

    «Questa sarà la mia insegna», annunciò Mina, toccandolo.

    Indossò il resto dell’equipaggiamento di Magit, facendo scivolare i bracciali sulle braccia, allacciando i parastinchi sulle gambe. Non appena lo toccava, ogni pezzo dell’armatura rosseggiava, come appena uscito dalla fucina; e, una volta raffreddato, le calzava come se fosse stato modellato per lei.

    Sollevò l’elmo, ma non lo mise in testa. Lo porse a Galdar. «Tienilo tu per me, vicecomandante», disse.

    Il minotauro lo ricevette con orgoglio e reverenza, come se fosse un manufatto che cercava da tutta la vita.

    Mina si inginocchiò accanto al corpo di Ernst Magit. Prendendo la mano inerte e carbonizzata nella sua, chinò la testa e cominciò a pregare.

    Nessuno poteva sentire le sue parole, cosa diceva o a chi lo diceva. Il canto della morte risuonava lugubre fra le pietre. Le stelle svanirono, la luna scomparve. Furono avvolti dalle tenebre. Mina pregava, e i suoi sussurri recavano conforto.

    Alzandosi, Mina trovò tutti i cavalieri in ginocchio davanti a lei. Nel buio, non vedevano niente; non gli altri, e nemmeno se stessi. Vedevano solo lei.

    «Tu sei il mio comandante, Mina», cominciò uno, fissandola come l’affamato fissa il pane, e l’assetato fissa l’acqua fresca. «A te affido la mia vita».

    «Non a me», ribatté lei. «Al Dio Unico».

    «Al Dio Unico!». Le voci si levarono e furono assorbite nel canto che non era più spaventoso ma eccitante, esaltante, una chiamata alle armi. «A Mina e al Dio Unico!».

    Le stelle brillavano di nuovo nei monoliti. La luna luccicava nel fulmine frastagliato dell’armatura di Mina. Il rombo si rifece sentire, ma stavolta non veniva dal cielo.

    «I cavalli!» gridò uno dei cavalieri. «I cavalli sono tornati».

    A condurli era un destriero quale nessuno di loro aveva mai visto. Rosso come il vino, rosso come il sangue, distanziava di molto i compagni. Andò dritto da Mina e si strofinò contro di lei, appoggiandole il muso sulla spalla.

    «Ho mandato Foxfire a prendere i cavalli. Ne avremo bisogno», osservò lei, accarezzando la criniera nera della bestia color sangue. «Stanotte andremo a sud, e di buona lena. Dobbiamo essere a Sanction fra tre giorni».

    «Sanction!» Galdar spalancò la bocca. «Ma, ragazzina, cioè caposquadra, Sanction è controllata dai Solamnici! La città è sotto assedio. La nostra destinazione è Khur. Gli ordini...».

    «Andremo questa notte a Sanction», ripeté Mina. Il suo sguardo si volse verso sud, e lì rimase.

    «Ma perché, caposquadra?» domandò Galdar.

    «Perché siamo chiamati», rispose lei.

    2.

    Silvanoshei

    La tempesta strana e innaturale assediò tutta Ansalon. I fulmini percorsero la regione; guerrieri giganti che scuotevano la terra e lanciavano saette di fuoco. Alberi antichi – enormi querce che avevano resistito a entrambi i Cataclismi – s’incendiarono e furono ridotti in un attimo ad ardenti rovine. Vortici tonanti di vento infuriavano fra i guerrieri, sventrando case e gettando nell’aria assi, mattoni, malta e pietre con impeto micidiale. Nubifragi torrenziali fecero gonfiare e straripare i fiumi, spazzando via i giovani, verdi germogli di cereali che lottavano per emergere dall’oscurità e crogiolarsi al primo sole estivo.

    A Sanction, assedianti e assediati abbandonarono la lotta per cercare riparo dalla terribile tempesta. Le navi in alto mare cercarono di resisterle, con il risultato che molte s’inabissarono, senza lasciare più tracce né notizie. Altre sarebbero faticosamente rientrate con alberi di fortuna, nonché con racconti di marinai trascinati fuori bordo e di pompe che lavoravano notte e giorno.

    A Palanthas, innumerevoli crepe apparvero sul tetto della Grande Biblioteca. La pioggia si riversò all’interno, facendo agitare pazzamente Bertrem e gli altri monaci per tamponare il flusso, asciugare il pavimento e mettere in salvo i volumi preziosi. A Tarsis, la pioggia fu così pesante che il mare scomparso durante il Cataclisma ritornò, con enorme stupore degli abitanti. Sparì qualche giorno dopo, lasciando dietro di sé pesci boccheggianti e un odore fetido.

    La tempesta assestò all’isola di Schallsea un colpo particolarmente devastante. I venti spaccarono ogni singola finestra del Cuore Confortevole. Le navi all’ancora nel porto si schiantarono contro le scogliere, o contro le banchine. Un cavallone spazzò via molti edifici e molte case costruite lungo la costa. Morì moltissima gente, e moltissimi altri rimasero senza tetto. I fuggiaschi presero d’assalto la Cittadella della Luce, supplicando i mistici di aiutarli.

    La Cittadella era un faro di speranza nella notte oscura di Krynn. Cercando di riempire il vuoto lasciato dall’assenza degli dei, Goldmoon aveva scoperto il potere mistico del cuore, riportando nel mondo il dono della guarigione. Era la prova vivente del fatto che, benché Paladine e Mishakal se ne fossero andati, il loro influsso benefico viveva nel cuore di chi li aveva amati.

    E, tuttavia, Goldmoon stava invecchiando. I ricordi degli dei sbiadivano; e lo stesso sembrava accadere al potere del cuore. L’uno dopo l’altro, i mistici sentivano il loro potere scemare, come una marea che si ritraeva senza mai ritornare. Ma gli abitanti della Cittadella furono felici di aprire le porte e il cuore alle vittime della tempesta, di fornire rifugio e assistenza, e di cercare di guarire i feriti il meglio possibile.

    I Cavalieri Solamnici, che avevano costruito una fortezza a Schallsea, partirono per battagliare con la tempesta, uno dei nemici più terribili che questi valorosi cavalieri avessero mai affrontato. A rischio della vita, tirarono fuori la gente dall’acqua tumultuosa, la estrassero dagli edifici schiacciati, lavorando nel vento, nella pioggia e nelle tenebre squarciate dai fulmini, per salvare coloro che il Codice e la Misura li obbligavano a proteggere.

    La Cittadella della Luce resistette alla furia della tempesta, anche se i suoi edifici furono investiti dai venti furiosi e dalla pioggia battente. Come nel tentativo disperato di far sentire la sua rabbia, la tempesta gettò contro le pareti di cristallo della cittadella chicchi di grandine grossi come teste umane. Nei punti in cui colpirono, apparvero piccole fessure, e rivoli di pioggia vi s’infilarono, gocciolando come lacrime giù per i muri.

    Uno schianto particolarmente forte venne dalle vicinanze della stanza di Goldmoon, fondatrice e signora della Cittadella. I mistici sentirono il suono del vetro infranto e accorsero spaventati, per vedere se l’anziana donna fosse sana e salva. Con loro grande stupore, trovarono chiusa a chiave la porta d’ingresso. Vi picchiarono sopra, pregando di poter entrare.

    Goldmoon rispose con una voce sommessa e terribile a udirsi, una voce che era la sua amata voce e tuttavia non lo era, ordinando che la lasciassero in pace, che attendessero ai loro doveri. Altri avevano bisogno del loro aiuto, non lei. Perplessi, turbati, quasi tutti eseguirono il comando. Quelli che restarono indietro riferirono di aver udito dei singhiozzi, strazianti e disperati.

    «Anche lei ha perso i suoi poteri», dissero quelli fuori dalla sua porta. Pensando di aver capito, la lasciarono sola.

    Quando, finalmente, venne il mattino e il sole si alzò rosseggiante nel cielo, la gente guardò, sbalordita e inorridita, la distruzione operata durante quella notte terribile. I mistici andarono nella camera di Goldmoon per chiederle consiglio, ma non ebbero risposta. La sua porta rimaneva chiusa e sbarrata.

    La tempesta passò anche per Qualinesti, un regno elfico, ma separato dai suoi cugini di Silvanesti da una distanza misurabile, oltre che in centinaia di miglia, in odio e diffidenza di lunga data. Lì, turbini di vento sradicarono alberi giganti, facendoli volare come i bastoncini sottili usati nel Quin Thalasi, un popolare gioco degli elfi. La tempesta agitò dalle fondamenta la mitica Torre del Portavoce dei Soli, facendo piovere sul pavimento i bei vetri colorati delle finestre istoriate. L’acqua montante allagò le camere più basse dell’appena costruita fortezza dei Cavalieri Scuri di Newport, costringendoli a ciò cui non poteva arrivare nemmeno un esercito nemico: abbandonare le loro postazioni.

    La tempesta svegliò persino i grossi draghi, che dormivano, grassi e gonfi, in tane ricche di tributi. Scosse il Picco di Malys, rifugio di Malystryx, l’enorme dragonessa rossa che si credeva Regina di Ansalon, e presto anche dea, se i suoi piani fossero andati in porto. La pioggia formò fiumi impetuosi che invasero la sua casa vulcanica. L’acqua entrò nelle pozze di lava, creando enormi nubi di un vapore dal puzzo ripugnante che riempì camere e corridoi. Bagnata, mezza cieca, asfissiata dal fumo, Malys urlò la sua indignazione e volò di tana in tana, cercando di trovarne una abbastanza asciutta per poter ritornare a dormire.

    Infine, fu costretta a cercare i livelli inferiori della sua dimora montuosa. Malys era una dragonessa vecchia, con una sorta di saggezza malevola. Intuiva che la tempesta aveva qualcosa di innaturale, e la cosa la metteva a disagio. Borbottando e brontolando fra sé, entrò nella Camera del Totem. Qui, su una sporgenza di roccia nera, Malys aveva impilato i teschi di tutti i draghi minori che aveva distrutto in occasione della sua venuta nel mondo. Teschi argento e oro, rossi e azzurri stavano l’uno sopra l’altro, monumento alla sua grandezza. Malys provò conforto alla loro vista. Ognuno le recava il ricordo di una battaglia vinta, di un nemico sconfitto e divorato. La pioggia non poteva penetrare tanto in basso; lei non poteva sentire l’ululato del vento, né i lampi disturbare i suoi sonni.

    Malys guardò gli occhi vuoti dei teschi con piacere, e forse si assopì, perché d’un tratto le sembrò che essi fossero vivi, e la fissassero. Sbuffò, alzò la testa. Studiò attentamente i teschi, gli occhi. La pozza di lava nel cuore della montagna gettava un bagliore artificioso sui teschi, riempiva le orbite vuote di ombre tremolanti e intermittenti. Rimproverandosi per la sua immaginazione troppo vivida, Malys si avvolse comodamente intorno al totem e si addormentò.

    Un’altra grande dragonessa, una verde nota con il nome pomposo di Beryllinthranox non riusciva a dormire durante la tempesta. La sua tana era formata da alberi viventi – carpini e sequoie – e da viticci enormi, attorcigliati. I viticci e i rami degli alberi erano intrecciati così strettamente che non una goccia d’acqua era mai riuscita a insinuarsi. Ma la pioggia che cadeva dalle nubi nere e turbolente di questa tempesta sembrava farsi un punto d’onore di trovare il modo di penetrare attraverso le foglie. Una volta entrata una goccia, aprì la strada a migliaia di compagne. Beryl si svegliò sorpresa, all’insolita sensazione dell’acqua che le cadeva sul naso. Una delle grandi sequoie che formava un pilastro della sua tana fu colpita da un fulmine. L’albero andò in fiamme, fiamme che si diffusero rapidamente, nutrendosi della pioggia come se fosse olio da lampada.

    L’urlo di allarme di Beryl fece accorrere i suoi servi a spegnere le fiamme. Draghi, rossi e azzurri che si erano sottomessi a lei piuttosto che farsene distruggere, strapparono gli alberi brucianti e li gettarono in mare. Draconici tirarono giù viticci roventi, soffocarono le fiamme con fango e terriccio. Ostaggi e prigionieri furono messi a lottare contro i fuochi. Molti morirono nel frattempo, ma alla fine la tana di Beryl fu salva. Per giorni e giorni, tuttavia, la dragonessa rimase di pessimo umore, convinta che la tempesta fosse un attacco sferratole magicamente dalla cugina Malys. Beryl intendeva governare, un giorno, al posto di quest’ultima. Mentre ricostruiva la tana con i suoi poteri magici – che, ultimamente, andavano calando, altra cosa di cui attribuiva la colpa a Malys – la verde pensava ai torti subiti e covava vendetta.

    L’Azzurro Khellendros (aveva abbandonato il nome Skie in favore di questo titolo più grandioso, che significava Tempesta su Ansalon) era uno dei pochi draghi nativi di Krynn a essere emerso dall’Epurazione dei Draghi. Al momento, governava Solamnia e tutti i suoi dintorni. Era sovrintendente di Schallsea e della Cittadella della Luce, cui permetteva di rimanere perché – a detta sua – trovava divertente vedere i poveri umani lottare futilmente contro le tenebre crescenti. In realtà, la vera ragione per cui consentiva alla Cittadella di prosperare in tutta sicurezza era il guardiano di quest’ultima, un drago d’argento di nome Mirror. Mirror e Skie erano nemici da lungo tempo ma ora, nell’odio comune per i nuovi, grossi draghi provenienti da lontano che avevano ucciso tanti loro fratelli, erano diventati, se non amici, nemmeno totalmente avversari.

    Khellendros fu disturbato dalla tempesta molto più delle due grosse dragonesse, anche se – stranamente – la sua tana non subì molti danni. Misurò inquieto la sua enorme grotta in cima ai Monti Vingaard, guardò i guerrieri di fiamma colpire ferocemente i bastioni della Torre del Sommo Chierico, e gli parve di sentire un canto nel vento, un canto che parlava di morte. Khellendros non dormì, ma osservò la tempesta fino alla fine.

    Questa non perse un briciolo del suo potere, mentre attaccava ruggendo l’antico regno elfico di Silvanesti. Gli elfi avevano eretto sul loro territorio uno scudo magico, che fino ad allora lo aveva protetto dalle scorrerie e dalle conquiste dei draghi, e che inoltre teneva lontane tutte le altre razze. Erano riusciti nel loro obiettivo storico di isolarsi dai guai del resto del mondo. Ma lo scudo non li riparò dal tuono e dalla pioggia, dal vento e dai fulmini.

    Alberi bruciarono, case furono squarciate dai venti impetuosi. Il fiume Thon-Thalas straripò, facendo annaspare in cerca di terre più alte coloro che vivevano sulle sue sponde. L’acqua s’infiltrò nel giardino del palazzo, il Giardino di Astarin, dove cresceva l’albero magico che, molti lo credevano, manteneva lo scudo al suo posto. L’albero fu salvato dal suo potere: quando la tempesta finì, la terra intorno a esso fu trovata completamente asciutta. Tutto il resto, nel giardino, era stato sommerso o spazzato via dalle acque. I giardinieri e i Modellatori dei Boschi, che nutrivano per le loro piante e i loro fiori, i loro alberi ornamentali, le loro erbe e i loro roseti lo stesso amore che nutrivano per i propri figli, furono straziati, affranti alla vista della distruzione.

    Dopo la tempesta corsero ai ripari, portando piante da casa loro per riempire quello che era stato il meraviglioso Giardino di Astarin. Sin dall’innalzamento dello scudo, le piante non erano più state bene, e ora marcivano nel suolo fangoso che, sembrava, non riusciva mai ad assorbire tanta luce solare da poter asciugarsi.

    La tempesta strana e terribile, infine, si ritirò dal continente, smise la guerra, come un esercito vittorioso che abbandona il campo di battaglia, lasciando dietro di sé devastazione e rovina. Il mattino dopo, la gente di Ansalon avrebbe guardato i danni sbalordita, confortato chi aveva subito dei lutti, sepolto i morti, e pensato con meraviglia al presagio sinistro di quella notte spaventosa.

    Eppure, ci fu una persona che quella notte si divertì. Era un giovane elfo, di nome Silvanoshei, che gioì della tempesta. Il fragore dei guerrieri fiammeggianti, i fulmini che cadevano come scintille emesse da spade di tuono, gli ribollivano nel sangue come un rullo di tamburi. Silvanoshei non cercò rifugio dalla tempesta, ma vi andò in mezzo. In piedi in una radura della foresta, alzò il viso verso il tumulto, mentre la pioggia lo

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1