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La gemma dell'Halfling: La leggenda di Drizzt 6
La gemma dell'Halfling: La leggenda di Drizzt 6
La gemma dell'Halfling: La leggenda di Drizzt 6
E-book452 pagine6 ore

La gemma dell'Halfling: La leggenda di Drizzt 6

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Info su questo ebook

L’assassino Artemis Entreri conduce rapidamente Regis l’halfling, che ha rapito, a sud di Calimport, nelle mani vendicative di Pasha Pook.
Se Pook riuscirà a controllare
la pantera magica Guenhwyvar, Regis morirà come in un gioco tra gatto e topo.
Usando una maschera incantata, l’elfo scuro Drizzt Do’Urden nasconde il suo lignaggio e la sua razza e corre con il barbaro Wulfgar a salvare l’amico lesto di mano.
 Un alleato inaspettato arriva proprio quando Entreri fa scattare una trappola. Ma Regis è in grado di sopravvivere?
I compagni della Valle del Vento Gelido combattono i pirati sulla famosa  Costa della Spada, affrontano i deserti di Calimshan e lottano con mostri di altri piani per salvare i loro amici... e se stessi.
LinguaItaliano
EditoreArmenia
Data di uscita12 set 2018
ISBN9788834435656
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    Anteprima del libro

    La gemma dell'Halfling - R. A. Salvatore

    Preludio

    Il mago abbassò lo sguardo incerto verso la giovane che gli voltava le spalle. Riusciva a vedere solo la folta chioma di riccioli castano ramati che le scendeva morbida sulle spalle pur percependo la tristezza che albergava nei suoi occhi. Era così giovane, poco più di una ragazzina, e così innocentemente bella.

    Tuttavia, quella graziosa ragazza aveva conficcato una spada nel cuore della sua amata Sydney.

    Harkle Harpell allontanò gli spiacevoli ricordi della sua amata e cominciò a scendere lungo il pendio. «Bella giornata», disse con voce gioviale quando raggiunse la giovane.

    «Credi che abbiano già finito di costruire la torre?» chiese Catti-brie senza mai allontanare lo sguardo da meridione.

    Harkle scrollò le spalle. «Se non hanno terminato, mancherà poco», osservò Catti-brie e nel profondo del suo cuore non riuscì a scovare un briciolo di risentimento per quanto aveva fatto. Era vero che aveva ucciso Sydney, ma ad Harkle bastava guardarla per capire che la necessità, e non la malizia, le aveva guidato il braccio. E ora, non poteva che provare pietà per lei.

    «Come stai?» balbettò Harkle, meravigliato dal coraggio che aveva dimostrato ad affrontare il terribile destino che era toccato a lei e ai suoi amici.

    Catti-brie chinò il capo e si voltò verso il mago. Il suo sguardo azzurro intenso era agitato dal dolore, ma bruciava di una profonda determinazione che scacciava qualsiasi ombra di debolezza. Aveva perduto Bruenor, il nano che l’aveva adottata e l’aveva cresciuta come una figlia fin dalla più tenera fanciullezza. E in quel momento, gli altri suoi amici erano impegnati nel disperato inseguimento di un assassino attraverso le terre meridionali.

    «Come cambiano in fretta le cose», mormorò Harkle sottovoce provando una tenera compassione per la giovane donna. I ricordi ritornarono. Solo poche settimane prima, Bruenor Battlehammer e la sua sparuta compagnia erano arrivati a Sellalunga alla ricerca di Mithril Hall, la patria perduta del nano. Era stato un allegro incontro pieno di racconti e promesse di amicizia con il clan Harpell. Nessuno poteva sapere che un altro gruppo di persone capeggiato da un assassino malvagio e dalla stessa Sydney aveva preso Catti-brie in ostaggio e stava inseguendo quella gaia compagnia. Bruenor aveva trovato Mithril Hall e là era caduto.

    Sydney, la maga che Harkle aveva così teneramente amato, aveva avuto un ruolo ben preciso nella morte dell’amico nano.

    Harkle inspirò a fondo per sedare la tempesta dei ricordi che si agitava nel suo animo.

    «Bruenor verrà vendicato», disse con una smorfia.

    Catti-brie lo baciò sulla guancia e si incamminò lentamente verso la collina e il Palazzo dell’Edera. Capiva il dolore sincero che animava il mago e ammirava la sua decisione di aiutarla a compiere il voto di ritornare a Mithril Hall per restituirla al clan di Bruenor Battlehammer.

    Per Harkle, però, non v’era stata altra scelta. La Sydney che lui aveva amato non era altro che una facciata, una stucchevole glassa che ricopriva un mostro insensibile e assetato di potere. Lui stesso era responsabile in parte di quel disastro poiché inconsapevolmente aveva rivelato dove si trovavano gli uomini di Bruenor.

    Harkle rimase a osservare Catti-brie che si allontanava, il passo appesantito dal fardello delle preoccupazioni. Non poteva certo covare risentimento nei suoi confronti poiché Sydney era stata l’artefice della propria morte e Catti-brie il suo strumento. Il mago rivolse lo sguardo verso meridione in preda al dubbio e all’ansia per l’elfo scuro e l’imponente barbaro. Avevano fatto la loro comparsa a Sellalunga tre giorni prima, esausti e sfiancati, alla disperata ricerca di un po’ di riposo.

    Purtroppo non c’era stato tempo per il riposo, non in quel momento almeno, perché il malvagio assassino era fuggito con quanto rimaneva del gruppo. E Regis, l’halfling, era andato con loro.

    In poche settimane erano successe molte cose. L’intero mondo di Harkle era stato scosso da una strana orda di eroi provenienti da una terra lontana e sconosciuta chiamata Valle del Vento Gelido, e da una donna bellissima cui non poteva essere imputata nessuna colpa.

    Ma soprattutto da una menzogna che egli aveva considerato il suo grande amore. Harkle si adagiò sull’erba e rimase a osservare a lungo le soffici nubi che veleggiavano nel cielo terso.

    Oltre le nuvole, laddove le stelle brillano in eterno, Guenhwyvar, l’entità della pantera, camminava eccitato. Erano trascorsi molti giorni ormai da quando il suo padrone, l’elfo scuro di nome Drizzt Do’Urden, l’aveva evocata nel piano materiale. Guenhwyvar dipendeva dalla statuetta di onice che la teneva in contatto con il padrone e con l’altro mondo. La pantera ne percepiva le vibrazioni lontane anche quando il suo padrone si limitava a sfiorarla.

    Guenhwyvar aveva avvertito che da tempo quel legame con Drizzt si era spezzato, e ora il felino si sentiva nervoso, quasi che la sua intelligenza ultraterrena avesse intuito che l’elfo non possedeva più la statuetta. Guenhwyvar si ricordava il tempo in cui non c’era ancora Drizzt, quando un altro drow, un essere malvagio, l’aveva posseduta. Nonostante la sua essenza animale, la pantera possedeva la dignità, una qualità che quel drow le aveva tolto.

    Ricordava i tempi in cui era stata obbligata a compiere azioni crudeli e turpi verso nemici indifesi solo per soddisfare il puro piacere del padrone.

    Molto era cambiato da quando Drizzt Do’Urden era entrato in possesso della statuetta. Il drow aveva una coscienza integra e da allora fra lui e Guenhwyvar si era sviluppato un profondo legame di affettuosa onestà.

    Il felino si appoggiò a un albero contornato di stelle ed emise un lungo grugnito che gli osservatori di quello spettacolo astrale avrebbero potuto intendere come un sospiro di rassegnazione.

    Ma quel grugnito si sarebbe trasformato in ruggito se solo Guenhwyvar avesse saputo che Artemis Entreri, l’assassino, era entrato in possesso della statuetta.

    Parte 1

    IL CAMMINO

    Sto morendo.

    Ogni giorno, a ogni respiro, mi avvicino al termine della mia vita. Perché nasciamo con un numero contato di respiri, e ciascun respiro avvicina la luce della mia esistenza all’inevitabile crepuscolo.

    È una verità difficile da ricordare, in particolare quando siamo nel pieno delle forze della gioventù, tuttavia sono arrivato a capire che è importante tenerla a mente: non per lamentarsi o immalinconirsi, ma semplicemente perché è solo con la sincera consapevolezza del fatto che un giorno morirò che posso davvero iniziare a vivere. Di certo non mi soffermo di continuo sulla realtà della mia mortalità, ma ritengo che non sia possibile non soffermarsi, almeno a livello subconscio, su quello spettro opprimente finché non si giunge a comprendere, a comprendere e a rendersi davvero conto, che un giorno dovremo morire. Che un giorno non saremo più in questo luogo, in questa vita, in questa consapevolezza ed esistenza, ma nel posto che ci attende, quale esso sia. Perché soltanto quando si accetta in modo completo e sincero l’inevitabilità della morte ci si libera dalla paura che ne abbiamo.

    Si direbbe siano moltissime le persone che restano incollate alla medesima routine, seguendo i riti quotidiani con precisione quasi religiosa. Diventano creature dell’abitudine. In parte è per la tranquillità che offre ciò che è familiare, ma bisogna tenere presente anche un altro aspetto, una convinzione profondamente radicata che finché si mantiene tutto com’è, tutto resterà com’è. Quei riti sono un modo per controllare il mondo che le circonda anche se, in realtà, non è possibile farlo. Perché anche se seguiranno la medesima routine giorno dopo giorno, la morte le troverà comunque.

    Ho visto molti altri immobilizzare la propria esistenza intorno a quel mistero, che è il più grande di tutti, foggiando ogni loro azione, ogni loro parola nel disperato tentativo di trovare risposta a ciò che risposta non ha. Traggono in inganno se stessi, attraverso l’interpretazione di antichi testi o attraverso qualche oscuro segno letto in un evento naturale, convincendosi di avere trovato la verità assoluta e che perciò, se si comporteranno di conseguenza facendo riferimento a quella verità, di certo verranno premiati nell’aldilà. Questa dev’essere la più grande manifestazione della paura della morte, l’errata convinzione di poter in qualche modo dare forma e aspetto alla stessa eternità, di poter mettere tendine alle finestre e disporre gli arredi secondo i nostri disperati desideri. Lungo la strada che mi ha condotto alla Valle del Vento Gelido, mi sono imbattuto in un gruppo di seguaci di Ilmater, il dio della sofferenza, che erano così fanatici nel proprio credo da percuotersi a vicenda in modo insensato e cercare il tormento, persino la morte, nella folle idea che così facendo avrebbero offerto al loro dio il massimo onore.

    Io ritengo che si sbaglino, anche se in verità non so nulla di certo riguardo al mistero che si trova al di là di questa spira mortale. E dunque anch’io sono un essere di fede e di speranza. Spero che Zaknafein abbia trovato pace e gioia eterne, e prego con tutto il cuore che quando oltrepasserò la soglia che porta all’altra esistenza, potrò rivederlo.

    Forse il peggior male che vedo in questa esistenza si ha quando uomini in apparenza devoti sfruttano l’istintiva paura della morte delle persone comuni per truffarle. «Date alla chiesa!» gridano. «Solo così troverete la salvezza!». E ancora più subdole sono le religioni che non chiedono direttamente denaro, ma sostengono che le persone di buon cuore volte a dio, e quindi destinate a raggiungere il loro specifico tipo di paradiso, sono sempre disposte a donare spontaneamente quel denaro.

    E ovviamente Toril è pieno di catastrofisti, gente che afferma che la fine del mondo è vicina, e invoca pentimento e una dedizione quasi servile.

    Posso soltanto osservare tutto questo e sospirare, perché se la morte è il mistero più grande, è la più personale delle sorprese. Nessuno di noi può sapere come sarà, non fino a che il momento non sia giunto, e in tutta coscienza e verità non possiamo convincere gli altri delle nostre convinzioni.

    È una strada che imbocchiamo da soli, ma che non temo più, perché accettando l’inevitabile mi sono liberato dalla paura. Arrivando ad ammettere la mia mortalità, ho scoperto il segreto per godere appieno dei secoli, degli anni, mesi, giorni e persino minuti che mi restano. Questa è l’esistenza che posso controllare, e gettare al vento ore preziose a causa della paura dell’inevitabile è davvero una cosa insensata. E considerarci immortali a livello subconscio, con la conseguenza di non apprezzare quelle poche ore preziose che abbiamo, è altrettanto insensato.

    Non posso mutare la realtà della morte, a dispetto di quanto io me ne disperi. Posso solo fare in modo che gli attimi di vita che mi restano siano quanto più possibile intensi e fecondi.

    Drizzt Do’Urden

    1

    La Torre del Crepuscolo

    Abbiamo perso un giorno di marcia, o forse più», mugugnò il barbaro. Fermò il cavallo tirando le redini e si guardò alle spalle. L’ultima luce del sole stava scomparendo dietro l’orizzonte. «E l’assassino continua ad allontanarsi!».

    «Ci conviene seguire il consiglio di Harkle», ribatté Drizzt Do’Urden.

    «Non può averci indicato la strada sbagliata». La luce stava scemando. L’elfo scuro abbassò il cappuccio del mantello nero e scuotendo il capo si ravviò i riccioli candidi.

    Wulfgar puntò un dito verso alcuni pini altissimi. «Quello dev’essere il bosco di cui ci ha parlato Harkle Harpell», disse, «ma non vedo nessuna torre, né tracce di qualcosa che sia stato mai costruito in questo posto dimenticato da tutti».

    Drizzt spaziò l’orizzonte con gli occhi color lavanda più abituati alla notte incombente che alla luce del giorno, nel tentativo di trovare una prova per contraddire il suo giovane amico. Non v’era dubbio che quello fosse il luogo che Harkle aveva indicato loro poiché poco lontano si intravedeva un piccolo lago oltre al quale si estendeva il lussureggiante bosco di Neverwinter. «Rincuorati», lo esortò Drizzt. «Il mago ha affermato che la pazienza è il miglior mezzo per trovare la dimora di Malchor. E noi siamo qui da meno di un’ora».

    «La strada s’allunga», mugugnò il barbaro, ignaro che l’udito acuto dell’elfo era in grado di avvertire anche un sommesso bisbiglio. Drizzt sapeva che dietro le parole di Wulfgar si celava la verità, perché secondo il racconto di un contadino di Sellalunga che aveva visto un uomo misterioso avvolto in un mantello e un halfling in groppa a un solo destriero, l’assassino aveva un vantaggio di dieci giorni e i suoi spostamenti erano rapidi.

    Non era la prima volta che Drizzt affrontava Entreri e si rendeva conto della grandezza della sfida che lo attendeva. Desiderava avere quanto più aiuto poteva nel suo disperato tentativo di salvare Regis dalle malvagie sgrinfie di quell’uomo. A detta del contadino, Regis era ancora vivo e Drizzt era sicuro che Entreri non voleva fare alcun male all’halfling prima di raggiungere Calimport.

    E, soprattutto, Harkle Harpell non li avrebbe mandati in quel posto senza una buona ragione.

    «Abbiamo intenzione di passare qui la notte?» chiese Wulfgar. «Secondo me, potremmo ritornare sul sentiero e cavalcare verso sud. Il cavallo di Entreri porta due persone e deve essere sfiancato ormai. Potremmo recuperare terreno se continuassimo a viaggiare».

    «Avranno già oltrepassato la città di Waterdeep», spiegò Drizzt sorridendo all’amico.

    «E là Entreri avrà sicuramente comperato cavalli riposati». Lasciò cadere l’argomento serbando per sé il timore che l’assassino avesse preso la via del mare.

    «Allora aspettare sarebbe ancor più da folli!» si affrettò ad aggiungere Wulfgar. Mentre il barbaro parlava, il cavallo, un destriero allevato dal clan Harpell, nitrì e si avvicinò al laghetto. Alzò lo zoccolo sfiorando la superficie quasi alla ricerca di un guado. Un secondo più tardi, il sole si eclissò dietro l’orizzonte occidentale. La luce svanì e, nella magica penombra del crepuscolo, davanti ai loro occhi si delineò una torre incantata che si ergeva su un isolotto in mezzo al lago. Le svettanti guglie contorte scintillavano nel cielo serotino pieno di stelle. Le pareti erano di un verde smeraldo misteriosamente invitante, quasi che i goblin e le fate avessero contribuito alla sua costruzione.

    E proprio a fior d’acqua, sotto lo zoccolo del cavallo di Wulfgar, apparve all’improvviso uno splendente ponte di luce verde.

    Drizzt scese da cavallo. «La Torre del Crepuscolo», disse a Wulfgar con un tono di voce come se fin dall’inizio avesse dato per scontato quell’apparizione. Allungò un braccio verso la torre invitando l’amico a proseguire.

    La comparsa della torre aveva lasciato Wulfgar sgomento. Afferrò le redini con tale forza che fece impennare il cavallo.

    «Credevo che avessi vinto i timori verso la magia», commentò Drizzt con sarcasmo. Wulfgar, come tutti i barbari della Valle del Vento Gelido, era cresciuto fra gente che considerava i maghi smidollati imbroglioni di cui non ci si poteva fidare. Il suo popolo, gli orgogliosi guerrieri della tundra, misurava un vero uomo dalla sua forza e abilità nel combattere e non dalla bravura nelle arti magiche. Tuttavia, dopo le molte settimane di viaggio, Drizzt aveva visto Wulfgar superare i preconcetti notando anche che l’amico aveva sviluppato una certa tolleranza, se non addirittura una vaga curiosità, nei confronti delle pratiche magiche.

    Con un rapido gesto che mosse i suoi muscoli scattanti, Wulfgar riportò il cavallo sotto controllo. «Certo», ribatté a denti stretti scendendo dalla sella. «Sono gli Harpell che mi preoccupano!».

    Il sorriso compiaciuto di Drizzt si fece più ampio quando avvertì il senso della trepidazione dell’amico. Egli stesso, nonostante fosse cresciuto fra i più potenti e terrificanti stregoni di tutti i regni, aveva più volte scosso la testa incredulo quando erano stati ospiti di quell’eccentrica famiglia a Sellalunga. Gli Harpell avevano un modo unico, e spesso disastroso, di considerare il mondo, anche se nei loro cuori non albergava il male. Usavano la magia in conformità con le loro opinioni, e normalmente contro la presunta logica degli uomini razionali.

    «Malchor non è come loro», cercò di rassicurarlo il drow. «Non vive nel Palazzo dell’Edera ed è stato consigliere dei re dei regni settentrionali».

    «È pur sempre un Harpell», ribatté il barbaro con tale risolutezza che Drizzt non ebbe il coraggio di aprire bocca. Wulfgar scosse il capo emettendo un lungo sospiro, e afferrò la briglia prima di avviarsi verso il ponte. Drizzt lo seguì sorridendo.

    «Harpell», mormorò Wulfgar ancora una volta dopo avere raggiunto l’isolotto e girato attorno alla torre.

    La torre non aveva porte. «Pazienza», gli ricordò Drizzt.

    Non dovettero attendere a lungo perché dopo qualche secondo si udì il rumore di un chiavistello e lo scricchiolio di una porta che si apriva. Subito dopo un fanciullo, simile a uno spettro, uscì dalla parete di pietra verde e si avvicinò a loro.

    Wulfgar bofonchiò qualcosa abbassando dalla spalla Aegis-fang, il suo pesantissimo martello da guerra. Drizzt gli afferrò il braccio per fermarlo, temendo che la stanchezza frustrata dell’amico potesse spingerlo a colpire prima ancora di conoscere le intenzioni del ragazzo.

    Quando il fanciullo li raggiunse, videro senza ombra di dubbio che era di carne e ossa, e non uno spettro ultraterreno. I muscoli di Wulfgar si rilassarono. Il giovane li salutò con un profondo inchino e con un cenno della mano li invitò a seguirlo.

    «Malchor?» chiese Drizzt.

    Il fanciullo non rispose, limitandosi a ripetere il muto invito e a incamminarsi verso la torre.

    «Ti avrei creduto più vecchio, se tu sei Malchor», proseguì Drizzt seguendo il fanciullo.

    «Che ne facciamo dei cavalli?» chiese Wulfgar, ma il ragazzo continuava a camminare in silenzio.

    Drizzt guardò Wulfgar scrollando le spalle. «Portali dentro e lasciamoli in custodia a questo nostro amico muto!» rispose l’elfo scuro.

    Scoprirono che la parete aveva tratto in inganno i loro occhi poiché nascondeva una porta che si apriva su un’ampia sala circolare che si trovava al piano più basso. Avevano avuto ragione a portare con loro i cavalli perché poco lontano videro le scuderie. Si affrettarono a legare i destrieri e si precipitarono a raggiungere il fanciullo che ormai aveva varcato un altro portale.

    «Aspettaci», urlò Drizzt oltrepassando la soglia, ma davanti a sé non vide nessuno. Si ritrovò in un corridoio debolmente illuminato che si innalzava seguendo la struttura circolare della torre. «C’è solo una strada da seguire», disse a Wulfgar che l’aveva appena raggiunto.

    Drizzt pensò di avere compiuto un giro completo e di avere raggiunto il secondo piano quando all’improvviso si ritrovarono davanti al fanciullo che li stava aspettando accanto ad un oscuro passaggio laterale che immetteva nella parte centrale della torre. La giovane guida, però, ignorò il pertugio e proseguì verso l’alto, lungo il corridoio principale.

    Spazientito da quel gioco misterioso e preoccupato dalla fuga inarrestabile di Entreri con Regis, Wulfgar passò davanti a Drizzt e afferrò il fanciullo per la spalla facendolo girare in modo brusco. «Sei Malchor?» chiese con tono reciso.

    Il fanciullo impallidì ma non rispose.

    «Lascialo», disse Drizzt. «Non è Malchor, ne sono sicuro. Troveremo presto il padrone della torre». Lanciò un’occhiata al fanciullo impaurito. «Vero?».

    Il fanciullo annuì e riprese a camminare.

    «Presto», ripeté per tranquillizzare il borbottio di Wulfgar.

    Per prudenza Drizzt passò oltre il barbaro e si mise fra lui e la guida.

    «Harpell», grugnì Wulfgar alle sue spalle.

    La salita si fece più erta e il corridoio più tortuoso e da ciò i due amici dedussero che la sommità della torre era vicina. Infatti, poco dopo, il fanciullo si fermò davanti a una porta che aprì, invitandoli con un cenno a entrare.

    Drizzt si mosse veloce e passò per primo, temendo che il volto del barbaro sconvolto dalla rabbia facesse un’impressione poco piacevole sul loro ospite mago.

    Dall’altra parte della stanza, seduto sopra un tavolo e apparentemente in loro attesa, videro un uomo alto e massiccio con le braccia incrociate sul petto, il cui viso era incorniciato da una chioma brizzolata. Drizzt aprì bocca per proferire un cordiale saluto, ma Wulfgar si precipitò verso il tavolo con una foga inarrestabile, quasi travolgendolo.

    Il barbaro si fermò a pochi passi dall’uomo con lo sguardo fisso su di lui, una mano su un fianco mentre con l’altra brandiva Aegis-fang. «Sei tu il mago conosciuto con il nome di Malchor Harpell?» tuonò con voce che vibrava di una rabbia esplosiva. «E se non lo sei, dicci dove diamine possiamo trovarlo!».

    Nella stanza echeggiò una fragorosa risata. «Certo», rispose l’uomo scendendo dal tavolo con un agile balzo. «Mi piacciono gli ospiti che non mascherano i propri sentimenti dietro parole falsamente cortesi!» esclamò, dando a Wulfgar un’amichevole manata sulla spalla. L’uomo passò oltre il barbaro sbalordito e si diresse verso la porta e il fanciullo.

    «Hai parlato?» chiese con voce imperiosa al ragazzo.

    Il fanciullo sbiancò in volto e scosse ripetutamente la testa.

    «Nemmeno una parola?» urlò Malchor.

    Il fanciullo tremò alla veemenza di quella domanda e scosse la testa ancora una volta.

    «Non ha detto nemmeno una...» si affrettò a dire Drizzt, ma Malchor lo zittì con un gesto della mano.

    «Se scopro che ha proferito una sola sillaba, io...» lo minacciò. Malchor si voltò verso la stanza e fece qualche passo, ma proprio quando immaginò che il fanciullo si fosse rilassato, si voltò di scatto facendolo sussultare.

    «Perché sei ancora qui?» tuonò Malchor. «Vattene!».

    La porta sbatté prima ancora che il mago avesse finito di urlare il suo ordine. Malchor rise di nuovo avvicinandosi al tavolo con incedere rilassato. Drizzt si avvicinò a Wulfgar e i due si guardarono sbalorditi.

    «Andiamo via da questo posto», disse Wulfgar. Drizzt avvertì che l’amico stava disperatamente cercando di frenare il desiderio di balzare verso il tavolo e strangolare quel mago arrogante.

    Anche se non con l’intensità dell’amico, il drow condivideva quelle stesse sensazioni nonostante si rendesse conto che i misteri della torre e dei suoi abitanti sarebbero stati presto spiegati. «Salve, Malchor Harpell», disse puntando lo sguardo color lavanda sull’uomo. «Il tuo comportamento non si addice affatto alle descrizioni che tuo cugino Harkle ha fatto di te».

    «Vi assicuro che io sono esattamente come Harkle mi ha descritto», replicò Malchor con voce pacata. «Che tu sia il benvenuto, Drizzt Do’Urden, e anche tu, Wulfgar, figlio di Beornegar. È raro che io intrattenga ospiti così graditi nella mia umile dimora». Malchor completò il suo saluto affabile e diplomatico, anche se non del tutto accurato, con un profondo inchino.

    «Il ragazzo non ha fatto nulla di male», disse Wulfgar frenando a stento l’ira.

    «No, si è comportato in modo eccellente», concordò Malchor. «Temi forse per lui?» Il mago osservò il corpulento barbaro e i suoi muscoli ancora tesi dalla rabbia. «Ti assicuro che il fanciullo viene trattato bene».

    «Non mi pare», replicò Wulfgar asciutto.

    «Vuole diventare un mago», spiegò Malchor per nulla turbato dall’espressione cupa del barbaro. «Suo padre è un potente possidente e mi ha chiesto di fargli da tutore. Il ragazzo è dotato di una mente acuta e di un profondo amore per la magia. Ma devi capire, Wulfgar, che la magia non è molto diversa dall’arte del combattimento».

    La smorfia che si formò sul volto di Wulfgar lasciava intendere una differente opinione.

    «Disciplina», proseguì Malchor imperterrito. «Qualsiasi cosa facciamo, sono la disciplina e il controllo delle nostre azioni a determinare il successo. Il ragazzo nutre grandi aspirazioni e alberga il desiderio di conoscere un potere che non è ancora in grado di capire e controllare. E se non è in grado di non esternare i propri pensieri per un mese, io non ho intenzione di perdere anni del mio prezioso tempo con lui. Il tuo amico capisce queste cose».

    Wulfgar guardò Drizzt che si trovava al suo fianco.

    «Capisco», disse Drizzt a Wulfgar. «Malchor ha messo il fanciullo alla prova. Una prova che misura la sua capacità di eseguire gli ordini e che rivela la profondità dei suoi desideri».

    «Ho il vostro perdono, allora?» chiese il mago agli ospiti.

    «È una cosa irrilevante», bofonchiò Wulfgar. «Non siamo venuti qui per aiutare un ragazzino nelle sue battaglie».

    «È vero», replicò Malchor. «I vostri impegni incalzano. Harkle mi ha raccontato tutto. Ritornate alle scuderie e lavatevi. Il ragazzo vi sta preparando la cena e vi verrà a chiamare quando sarà il momento».

    «Non ha un nome?» chiese Wulfgar con malcelato sarcasmo.

    «Nessun nome che si sia ancora guadagnato degnamente», replicò Malchor laconico. Nonostante il trepidante desiderio di riprendere subito il cammino, Wulfgar non poté negare che la tavola di Malchor Harpell fosse superba. Assieme a Drizzt, si saziò a volontà, consapevole del fatto che quello, forse, sarebbe stato l’ultimo pasto decente per molti giorni.

    «Dovreste fermarvi qui per la notte», disse Malchor dopo che gli ospiti ebbero terminato di mangiare. «Un letto soffice vi farà bene», aggiunse subito per neutralizzare lo sguardo contrariato di Wulfgar. «Vi sveglierò presto, ve lo prometto».

    «Accettiamo e ti ringraziamo», rispose Drizzt. «Di certo questa torre sarà più comoda della dura terra».

    «Eccellente», disse il mago soddisfatto. «Seguitemi, allora. Ho alcuni oggetti che potrebbero aiutarvi nella vostra impresa». Quindi li condusse fuori dalla stanza e accompagnandoli lungo il corridoio verso i piani sottostanti, li intrattenne discorrendo sulle caratteristiche della torre. Si fermarono davanti a un passaggio laterale che a malapena si vedeva a causa del buio e oltrepassarono un pesante portale.

    Drizzt e Wulfgar dovettero fermarsi dopo pochi passi, sbalorditi alla vista delle meraviglie che si trovavano davanti ai loro occhi. Erano entrati nel museo dove Malchor conservava la collezione di oggetti rari, magici e non, che aveva raccolto nel corso dei suoi innumerevoli viaggi. La stanza era piena di spade e splendenti armature, uno scintillante scudo di mithril e la corona di un re morto da molti anni. Le pareti erano ricoperte da antichi e pregiati arazzi, mentre un contenitore di vetro ospitava gemme e gioielli di inestimabile valore che brillavano nel tremolante luccichio delle torce.

    Malchor si era avvicinato a un armadietto che si trovava dall’altra parte della stanza e quando gli sguardi di Wulfgar e Drizzt ritornarono su di lui, il mago vi si era seduto sopra giocherellando distrattamente con tre ferri di cavallo. Ne aggiunse un quarto mentre i due ospiti lo osservavano incuriositi, catturando i loro occhi con gli agili movimenti delle mani.

    «Ho fatto un incantesimo su questi ferri che faranno correre i vostri destrieri più veloci del vento», spiegò il mago. «Solo per poco, ma sarà sufficiente per raggiungere Waterdeep e farvi recuperare il tempo che avete trascorso nella mia casa».

    «Due ferri di cavallo?» chiese Wulfgar frastornato.

    «Certo che non bastano», disse Malchor avvicinandosi con fare tollerante al giovane barbaro. «A meno che tu non voglia che il tuo cavallo si impenni e cominci a correre come un uomo!». Il mago rise di gusto, ma l’espressione accigliata di Wulfgar non accennò a scomparire.

    «Non temere», proseguì Malchor schiarendosi la gola per far passare inosservata la battuta non colta. «Ne ho molti altri ancora», aggiunse osservando Drizzt. «Mi è stato riferito che pochi sono così agili come gli elfi scuri. E ho sentito dire pure, da chi lo ha visto in combattimento e in azione, che Drizzt Do’Urden è di gran lunga più vispo anche rispetto ai suoi simili». Senza smettere di giocherellare, il mago lanciò un ferro di cavallo a Drizzt che, senza mai distogliere lo sguardo da Malchor, lo prese e lo lanciò subito in aria. Arrivò il secondo ferro, e poi il terzo e senza battere ciglio, Drizzt li lanciò in aria con noncuranza.

    Il quarto ferro di cavallo arrivò radente al suolo e Drizzt dovette chinarsi per afferrarlo, ma si rialzò subito non perdendo nemmeno per un attimo la presa e il controllo dei propri movimenti.

    Wulfgar rimase a osservare la scena con sguardo incuriosito e si chiese quali fossero gli arcani motivi che spingevano il mago a mettere alla prova il suo amico.

    Malchor si chinò e prese altri quattro ferri di cavallo. «Il quinto...» avvertì, lanciandone uno a Drizzt. L’elfo lo afferrò imperterrito e lo lanciò in aria assieme agli altri senza il minimo sforzo.

    «Disciplina!» esclamò Malchor con veemenza diretto a Wulfgar. «Dimostrami la tua bravura, elfo!» aggiunse lanciando in rapida successione i rimanenti ferri.

    Drizzt li afferrò tutti abbozzando una leggera smorfia, più che mai deciso a essere all’altezza della sfida. Le sue mani si muovevano febbrili e dopo pochi attimi gli otto ferri di cavallo piroettavano nell’aria in un moto armonico e inarrestabile. Solo allora Drizzt capì le vere intenzioni del mago.

    Malchor si avvicinò a Wulfgar e gli appoggiò una mano sulla spalla. «Disciplina», ripeté l’uomo. «Osservalo, giovane guerriero, perché il tuo amico dalla pelle scura è veramente padrone dei propri movimenti e quindi è padrone delle sue capacità. Forse non riesci ancora a capire, ma noi non siamo molto diversi l’uno dall’altro». Il mago fissò lo sguardo sugli occhi sgranati di Wulfgar. «Noi tre non siamo diversi, anche se ammetto che abbiamo metodi differenti, purtuttavia miranti allo stesso fine!».

    Stanco di quegli strani giochi, Drizzt afferrò a uno a uno i ferri di cavallo e se li appoggiò all’avambraccio lanciando un’occhiata di approvazione al mago. Aveva notato che il suo giovane amico era sprofondato in misteriosi pensieri, ma l’elfo non era sicuro che il barbaro avesse recepito la lezione impartita dal mago con quei ferri di cavallo incantati.

    «Basta per ora», disse Malchor all’improvviso muovendosi di scatto verso una parete della stanza dove erano appoggiate decine di spade e altre armi.

    «Ho visto che uno dei tuoi foderi è vuoto», disse rivolto a Drizzt sfilando dal supporto una scimitarra meravigliosamente cesellata. «Forse questa lo riempirà».

    Drizzt avvertì i poteri dell’arma nel momento in cui la brandì, e apprezzò la minuziosità del cesello e l’equilibrio perfetto. Nel pomo era incastonato uno splendente zaffiro blu a forma di stella.

    «Il suo nome è Lampo», disse Malchor. «Forgiata dagli elfi di un’epoca ormai lontana».

    «Lampo», ripeté Drizzt con aria assorta e proprio in quell’attimo un bagliore azzurrognolo avvolse la lama. Drizzt percepì un leggero tremore e in quell’arma avvertì poteri immensi. La fece volteggiare a mezz’aria descrivendo azzurre curve sinuose. Era leggera da impugnare e con essa sarebbe stato facile affrontare il nemico! La infilò nel fodero con movimento compassato.

    «È stata forgiata grazie ai magici poteri che tutti gli elfi di superficie custodiscono gelosamente», proseguì Malchor. «Grazie ai poteri delle stelle e della luna, e dei misteri delle loro anime. Tu la meriti, Drizzt Do’Urden, e saprai trarne vantaggio».

    Drizzt non riuscì a rispondere a quel grande complimento, ma Wulfgar, commosso dall’enorme fiducia che Malchor aveva riposto nel suo amico con cui spesso si trovava in disaccordo, parlò per lui. «I nostri più vivi ringraziamenti, Malchor Harpell», disse cercando di mitigare la scontrosità che aveva contraddistinto il suo comportamento fino

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