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L'Eredità: La leggenda di Drizzt 7
L'Eredità: La leggenda di Drizzt 7
L'Eredità: La leggenda di Drizzt 7
E-book400 pagine6 ore

L'Eredità: La leggenda di Drizzt 7

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Info su questo ebook

I giorni non potrebbero scorrere più sereni e felici per Drizzt Do’ Urden. Il giovane principe drow, dopo tante peripezie, è finalmente riuscito a riunirsi ai suoi amici in un rifugio sicuro, la mitica Mithral Hall.
Eppure Drizzt non riesce a darsi pace: i suoi irriducibili avversari, sempre più potenti e arroganti, costituiscono ancora una minaccia.
Difatti Lloth, la temutissima Regina Ragno, dea degli elfi scuri nonché acerrima nemica di Drizzt, sta tramando un piano diabolico, volto a porre fine alla vita lieta e pacifica del valoroso elfo...
LinguaItaliano
EditoreArmenia
Data di uscita7 nov 2018
ISBN9788834435700
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    Anteprima del libro

    L'Eredità - R. A. Salvatore

    Preludio

    Il solitario Dinin avanzò con passo guardingo lungo le strade buie di Menzoberranzan, la città degli elfi scuri. Lui, rinnegato, senza famiglia da quasi vent’anni, guerriero temprato dalle battaglie, conosceva bene i pericoli di quella città e sapeva come evitarli.

    Oltrepassò l’insediamento abbandonato che si estendeva per due miglia lungo la parete occidentale della caverna e non poté fare a meno di fermarsi a osservare. Le stalagmiti sostenevano a coppie la palizzata divelta che un tempo recintava quel luogo. Un portale incrinato giaceva a terra, mentre un altro dondolava a una ventina di passi di altezza, oltre un terrazzo, appeso a cardini contorti e bruciacchiati. Quante volte Dinin aveva raggiunto quel terrazzo levitando per poi entrare nelle stanze private dei nobili della sua dimora, il Casato dei Do’Urden?

    Il Casato dei Do’Urden. Nella città degli elfi scuri era proibito persino nominare quel nome sottovoce. Un tempo la famiglia di Dinin occupava l’ottavo rango fra le sessanta famiglie di Menzoberranzan. Sua madre sedeva nel consiglio che governava la città, e lui, Dinin, era stato uno dei Gran Maestri di Melee-Magthere, la famosa Accademia di Guerra degli elfi scuri.

    Immobile davanti a quella scena di devastazione, a Dinin parve che l’oblio avesse sospinto lontano migliaia d’anni il periodo glorioso che quel luogo aveva conosciuto. La sua famiglia non esisteva più, della sua casa non era rimasto che un cumulo di macerie e lui si era veduto costretto a unirsi all’infame banda di mercenari di Bregan D’aerthe solo per sopravvivere. «Ricordi», sussurrò mentre si stringeva nelle esili spalle e si sistemava le falde dell’ampio mantello piwafwi ripensando a quanto vulnerabile poteva essere un elfo scuro senza casa come lui. Lanciò una veloce occhiata al centro della caverna, verso la stele conosciuta con il nome di Narbondel, e capì che era tardi. Ogni giorno l’Arcimago di Menzoberranzan si fermava davanti a Narbondel e le infondeva un calore magico che avrebbe scandito il trascorrere delle ore della giornata. Per gli occhi sensibili di un elfo, in grado di avvertire le più piccole variazioni della luce, il calore sprigionato dalla stele fungeva da enorme orologio di pietra.

    Ora Narbondel era quasi fredda. Un’altra giornata stava volgendo al termine.

    Dinin doveva ancora attraversare più della metà della città per raggiungere una grotta segreta che si trovava nella Faglia Uncinata, un profondo baratro che si apriva nella parete nordoccidentale di Menzoberranzan. Là Jarlaxle, il capo di Bregan D’aerthe, lo attendeva in uno dei suoi numerosi nascondigli.

    Il guerriero attraversò il centro della città, passò sotto l’ombra di Narbondel, davanti a un centinaio di stalagmiti cave che circondavano una decina di abitazioni diverse, soffermando lo sguardo per un attimo sulle loro favolose sculture e gargolle che riflettevano il bagliore multicolore dei fuochi magici. I soldati di guardia davanti alle mura di quelle case o lungo i ponti che collegavano la miriade di sottili stalattiti si fermarono e squadrarono a lungo quello straniero solitario tenendo le balestre e le lance avvelenate puntate finché Dinin li sorpassò.

    Quella era l’aria che spirava a Menzoberranzan... Sempre all’erta, sempre diffidenti.

    Dinin si guardò intorno con attenzione non appena raggiunse il bordo della Faglia Uncinata e dopo essersi lasciato cadere nel vuoto usò i suoi straordinari poteri di levitazione per discendere lentamente nel baratro. Aveva percorso un centinaio di passi verso il basso quando venne accolto da uno stuolo di balestre pesanti rivolte in alto e pronte a scoccare dardi avvelenati, ma quando lo riconobbero come uno di loro, le guardie del mercenario abbassarono le armi.

    Jarlaxle ti sta aspettando, gli disse una delle guardie muovendo le mani in un intricato arabesco, il codice silenzioso degli elfi scuri.

    Dinin non si diede pena di rispondere. Non doveva dare alcuna spiegazione ai soldati dei ranghi inferiori. Oltrepassò il drappello di guardia senza nemmeno un cenno di saluto per imboccare una piccola galleria che ben presto si diramò in un dedalo di corridoi e grotte. Molti bivi più tardi, l’elfo scuro si fermò davanti a un portale luccicante, quasi fosse un velo di luce opalescente. Appoggiò una mano su quella superficie, affinché il calore del proprio corpo venisse trasmesso dall’altra parte per annunciare il suo arrivo.

    «Finalmente», disse la voce di Jarlaxle un attimo più tardi.

    «Entra pure, Dinin, mio Khal’abbil. Ho atteso troppo a lungo il tuo arrivo».

    Dinin esitò, quasi per guadagnare tempo e interpretare il tono delle parole proferite dall’imprevedibile mercenario. Jarlaxle lo aveva chiamato Khal’abbil, amico fidato, ovvero il soprannome di Dinin dal giorno dell’incursione che aveva distrutto il Casato dei Do’Urden... Un’incursione in cui Jarlaxle aveva rivestito un ruolo a dir poco preminente. E in quella frase lui non riuscì ad avvertire ombra di sarcasmo. Non sembrava esserci motivo di preoccupazione, si disse. Ma allora perché Jarlaxle lo aveva richiamato dalla sua difficile missione esplorativa a Casa Vandree, Diciassettesima Famiglia di Menzoberranzan? Aveva impiegato quasi un anno per conquistarsi la fiducia della temibile Guardia di quel potente Casato, una posizione che indubbiamente correva il grosso rischio di venire compromessa da quella sua inspiegabile assenza.

    Il soldato decise che c’era un unico modo per scoprire la ragione di quella convocazione. Trattenne il fiato e oltrepassò la barriera opaca della porta, così simile a uno spesso muro d’acqua che non bagnava. Percorse a lunghi passi il territorio fluttuante che collegava i due piani esistenziali finché raggiunse una seconda porta magica oltre la quale si apriva la piccola stanza di Jarlaxle.

    Venne accolto da un invitante bagliore rossastro. Gli occhi di Dinin si abituarono quasi subito allo spettro della luce normale. Ammiccò mentre la trasformazione si completava, e ammiccò una seconda volta, come gli capitava sempre, quando il suo sguardo si poggiò su Jarlaxle.

    Il capo dei mercenari sedeva dietro a un tavolo di pietra, su una sedia la cui imbottitura era ricoperta da un prezioso tessuto damascato. Il sottile supporto poggiava su un meccanismo basculante che gli permetteva di dondolare descrivendo un ampio angolo. Comodamente accoccolato, com’era solito fare, Jarlaxle aveva reclinato la sedia portando le mani sottili dietro la testa ben rasata, una consuetudine davvero insolita per un elfo.

    Quasi per divertimento, il capo sollevò un piede, lo appoggiò sul tavolo sbattendo il tacco dello stivale nero con un tonfo sordo, e subito dopo sollevò anche l’altro, ma lo stivale colpì la dura superficie di pietra emettendo solo un debole fruscio.

    Quel giorno l’occhio destro del mercenario era coperto da una benda color rubino, osservò Dinin.

    Accanto al tavolo scorse una piccola creatura umanoide, tutta tremante. Era alta la metà di Dinin, comprese le due piccole corna bianche che sporgevano dalla fronte bassa.

    «Un coboldo della Casata degli Oblodra», spiegò Jarlaxle con aria distratta. «Pare che questo sciagurato sia riuscito a entrare, ma non sia in grado di trovare la strada per andarsene». Il ragionamento non faceva una piega, pensò Dinin. Casa Oblodra, Terza Famiglia di Menzoberranzan, occupava un complesso popoloso al limitare della Faglia Uncinata e correva voce che vi fossero tenuti prigionieri migliaia di coboldi che finivano sotto i ferri delle torture o infilzati negli spiedi in caso di guerra.

    «Vuoi andartene?» chiese Jarlaxle alla creatura con una voce gutturale.

    Il coboldo annuì ripetutamente con espressione stupida. Jarlaxle indicò la porta opaca e la creatura si precipitò a lunghi passi, ma non ebbe la forza di oltrepassare la barriera magica. Rimbalzò e cadde ai piedi di Dinin, lanciando uno sbuffo di rabbia verso il capo dei mercenari.

    La mano di Jarlaxle si mosse veloce, troppo perché Dinin fosse in grado di seguirla con lo sguardo. Il guerriero irrigidì i muscoli, ma non si mosse poiché sapeva che la mira di Jarlaxle era infallibile.

    Quando abbassò il capo verso il coboldo, vide cinque pugnali conficcati a forma di stella nell’esile torace squamoso della creatura.

    Jarlaxle scrollò le spalle, quasi volesse tranquillizzare lo sguardo confuso di Dinin. «Non potevo permettere che quella bestia ritornasse dagli Oblodra», disse. «Non quando aveva scoperto che il nostro insediamento è così vicino al loro».

    Dinin si unì alla risata del capo. Si chinò per estrarre i pugnali, ma Jarlaxle gli ricordò che non era necessario.

    «Torneranno al loro posto da soli», spiegò il mercenario sollevando un lembo dell’ampia manica per mostrargli i foderi magici annodati attorno al polso. «Siediti», aggiunse indicando un semplice sgabello a un lato del tavolo. «Abbiamo molte cose di cui discutere».

    «Perché mi hai richiamato?» gli chiese Dinin a bruciapelo non appena si accomodò. «Ero finalmente riuscito a infiltrarmi fra le guardie di Vandree».

    «Ah, mio Khal’abbil», ripeté Jarlaxle. «Non ti perdi mai in ciance, e questa è una qualità che ho sempre apprezzato molto in te».

    «Uln’hyrr», sbottò Dinin segretamente disgustato dalla capacità di mentire di quell’essere.

    Risero insieme, ma Jarlaxle si fece improvvisamente serio. Appoggiò i piedi sul pavimento e ondeggiò in avanti intrecciando le dita inanellate sotto al mento. Più volte Dinin si era chiesto quanti di quei gioielli scintillanti degni di un re fossero magici.

    «Verrà forse sferrato presto l’attacco a Vandree?» chiese Dinin pensando di aver scoperto il motivo dell’atteggiamento enigmatico del capo.

    «Scordati di Vandree», ribatté Jarlaxle. «Per il momento le loro questioni non ci interessano affatto».

    Dinin appoggiò il mento sottile sul palmo della mano e sistemò il gomito sul bordo del tavolo. Avrebbe voluto balzare in piedi e strozzarlo con le proprie mani. Come osava parlare in modo così sibillino e sprezzante dopo un intero anno dedicato a intrufolarsi fra le file della Guardia di Vandree!

    Lasciò che quei pensieri si dileguassero dalla sua mente, fissò a lungo il volto imperturbabile di Jarlaxle alla ricerca di indizi e alla fine capì.

    «Mia sorella», disse e Jarlaxle cominciò ad annuire lentamente prima ancora che avesse finito di parlare. «Cos’ha combinato?» Jarlaxle irrigidì la schiena e con lo sguardo rivolto verso un angolo della stanza emise un acuto fischio. Una lastra di pietra scivolò su un lato scoprendo un’alcova da dove entrò Vierna Do’Urden, l’unica sorella sopravvissuta di Dinin. Risplendeva di una sorprendente bellezza, di una radiosa serenità che Dinin non vedeva dal giorno della caduta della loro famiglia.

    Il guerriero sgranò gli occhi dallo stupore quando si accorse degli indumenti che indossava. Vierna era avvolta nelle proprie vesti... La tunica di Somma sacerdotessa di Lloth, impreziosita da ricami che raffiguravano un ragno e l’arma del Casato dei Do’Urden! Dinin non sapeva che Vierna l’avesse conservata poiché da oltre una decina d’anni non l’aveva più veduta in giro.

    «Tu rischi...» esordì, ma venne zittito dall’espressione serafica di Vierna, resa ancor più estrema dagli occhi rossi così simili a due minuscole lingue di fuoco che addolcivano la durezza degli zigomi alti dello stesso colore dell’ebano.

    «Ho ritrovato il favore di Lloth», annunciò Vierna.

    Dinin lanciò un’occhiata a Jarlaxle che si limitò a scrollare le spalle e far scivolare la benda sull’occhio sinistro.

    «La Regina Ragno mi ha rivelato la strada», proseguì la sorella, la voce melodiosa che veniva incrinata da una profonda emozione.

    Dinin temette che la sorella si trovasse a pochi passi dalla pazzia. Vierna si era sempre dimostrata calma e tollerante, anche dopo l’improvvisa fine del Casato dei Do’Urden. Ma negli ultimi anni le sue azioni si erano fatte stranamente bizzarre, e aveva cominciato a trascorrere periodi interminabili in completa solitudine, assorta in preghiere disperate rivolte alla loro dea spietata.

    «Vuoi farci l’onore di spiegare quale sarebbe la strada che Lloth ti ha rivelato?» le chiese Jarlaxle in tono assente dopo un lungo silenzio.

    «Drizzt». Il nome del loro fratello sacrilego uscì dalle labbra delicate di Vierna come un rigurgito di veleno.

    Dinin portò una mano davanti alla bocca per frenare un’esclamazione meravigliata. Dopotutto Vierna, nonostante la sua sconsideratezza, era una somma sacerdotessa e non doveva lasciarsi andare alla rabbia.

    «Drizzt?» ripeté Jarlaxle con calma imperturbabile. «Tuo fratello?».

    «Non è più mio fratello!» urlò lei precipitandosi verso il tavolo come se volesse colpirlo. Dinin scorse il movimento impercettibile del mercenario, quasi un gesto fluido grazie al quale puntò contro la sorella il braccio in cui erano nascosti i micidiali pugnali.

    «Traditore del Casato dei Do’Urden!» sbottò Vierna.

    «Traditore di tutti gli elfi scuri!» La smorfia che le aveva deturpato il viso si trasformò in un sorriso malevolo e intrigante. «Grazie al sacrificio di Drizzt ritroverò il favore di Lloth e potrò finalmente...». La frase le morì in gola, quasi volesse conservare i propri piani nel più assoluto segreto.

    «Parli come Matrona Malice», si azzardò a dire Dinin. «Anche lei cominciò a dare la caccia a nostro frat... a quel traditore».

    «Ti ricordi ancora di Matrona Malice?» mormorò Jarlaxle sottolineando con il tono della voce quel nome per cercare di sedare la frenesia che si agitava nell’animo di Vierna. Malice, madre di Vierna e Matrona di Casa Do’Urden era rimasta annientata dai propri infruttuosi tentativi di riacciuffare e uccidere Drizzt il traditore.

    All’udire quel nome Vierna si calmò e un’estenuante risata nervosa le scosse il petto.

    «Hai capito perché ti ho chiamato qui?» disse Jarlaxle rivolto a Dinin, incurante della sacerdotessa.

    «Tu vorresti che la uccidessi prima che diventi un problema?» replicò Dinin con altrettanta noncuranza.

    La risata di lei si interruppe all’improvviso. I suoi occhi selvaggi si posarono sul fratello impertinente. «Wishya!» urlò e un’ondata di energia magica investì il drow scaraventandolo dalla sedia. Dinin cadde rovinosamente sul pavimento di pietra.

    «Inginocchiati!» gli ordinò Vierna e quando riuscì a ricomporsi Dinin si lasciò cadere in ginocchio tenendo lo sguardo fisso su Jarlaxle.

    Anche il mercenario non fu in grado di nascondere la sorpresa. La voce imperiosa della sacerdotessa era un semplice incantesimo, non v’era dubbio, che difficilmente avrebbe avuto effetto su un guerriero esperto della levatura di Dinin.

    «Il favore di Lloth mi protegge», disse Vierna irrigidendo la schiena. «Se opporrete resistenza ai miei piani, decretate la vostra fine. Grazie alla potente benedizione di Lloth i miei incantesimi e le mie maledizioni ridurranno in polvere le vostre difese».

    «Le ultime notizie su Drizzt lo danno in superficie», puntualizzò Jarlaxle nel tentativo di mitigare la furia dell’elfa.

    «E a quanto si dice, si trova ancora lassù».

    Vierna annuì e un sorriso appena abbozzato lasciò intravedere denti il cui candore spiccava nel contrasto con la carnagione scura. «È vero», disse, «ma Lloth mi ha mostrato il modo per raggiungerlo... Il modo per raggiungere la gloria».

    Jarlaxle e Dinin si scambiarono un’occhiata perplessa. In cuor loro consideravano i vaneggiamenti di Vierna il frutto di una mente a pochi passi dal baratro della pazzia, ma Dinin, pur contro voglia, usò il suo apprezzato buon senso e continuò a rimanere inginocchiato.

    Parte 1

    Paura ispiratrice

    Sono trascorsi quasi trent’anni dal momento in cui ab­bandonai la mia terra. Una manciata di tempo per un elfo scuro, ma un periodo che mi è parso una vita intera. Ciò che desideravo, o credevo di desiderare, mentre percorrevo le caverne oscure per andarmene da Menzoberranzan, era una vera casa, un luogo di amicizia e pace dove avrei potuto appendere le mie scimitarre alla cappa di un tiepido camino e davanti a un fuoco crepitante raccontare e ascoltare storie avventurose assieme a compagni fidati.

    Ho trovato quanto cercavo ora, accanto a Bruenor, nelle sa le della sua giovinezza. Prosperiamo e viviamo in pace. Indosso le mie armi solo in occasione dei viaggi fra Mithral Hall e Silverymoon. Mi sbagliavo forse?

    Non dubito, né oso lamentarmi della mia decisione di abbandonare il mondo ripugnante di Menzoberranzan, ma ora, nell’interminabile quiete della mia vita, comincio a credere che i desideri sgorgati dal mio cuore in quei momenti critici fossero frutto dell’inevitabile frenesia dell’inesperienza. Allora non conoscevo quell’esistenza tranquilla che tanto bramavo.

    Non nego che la mia vita sia migliore, mille volte migliore di quanto avessi mai potuto immaginare nel Buio Profondo. Ma nonostante ciò, non sono in grado di ricordare l’ultima volta che ho avvertito l’ansia, quella paura ispiratrice per l’imminente battaglia, o quel pizzicore alla pelle che si percepisce solo quando il nemico è vicino o si va incontro a un duello.

    Oh, ricordo un momento ben preciso... Un anno fa, quando assieme a Wulfgar e Guenhwyvar lavoravo nelle gallerie inferiori per ripulire tutta Mithral Hall dal nemico. Ma quella sensazione, l’inquietante aspettativa nata dalla paura sta ormai scomparendo dalla mia memoria.

    Siamo dunque creature d’azione? Sosteniamo forse di desiderare la comodità agognata da tutti quando, nel profondo dei nostri cuori, sappiamo che sono la sfida e l’avventura a darci la vita? Devo ammettere, almeno con me stesso, che non lo so.

    Esiste tuttavia un punto irrefutabile, una verità che mi aiuterà a venire a capo di tutte le domande prive di risposta e mi porrà in una posizione fortunata. Poiché ora, accanto a Bruenor e alla sua gente, accanto a Wulfgar, a Catti-brie e alla cara Guenhwyvar, il mio destino è riposto nelle mie stesse mani.

    Mai in tutti i sessanta inverni della mia vita sono stato più sicuro. Il futuro non mi ha mai sorriso come adesso infondendomi pace e sicurezza imperiture. Eppure mi sento mortale. Per la prima volta rivolgo lo sguardo a quanto è stato e non a quanto verrà. Mi pare di morire lentamente e che quelle stesse storie che avrebbero dovuto riunire tutti i miei amici davanti al fuoco presto puzzeranno di stantio e nulla potrà rinnovarle. Ma, ripeto a me stesso, la decisione ultima spetta sempre a me.

    Drizzt Do’Urden

    1

    Alba di primavera

    Drizzt Do’Urden camminava lentamente lungo la pista che si snodava attraverso gli speroni frastagliati più meridionali della Spina Dorsale del Mondo quando il cielo cominciò a rischiararsi. Molto più a sud, oltre le pianure antistanti le Paludi Eterne, si scorgevano gli ultimi bagliori della lontana città di Nesme confondersi con il luccichio rosato dell’alba. Quando Drizzt oltrepassò un’altra curva del sentiero, il suo sguardo spaziò sul piccolo villaggio di Settlestone adagiato sul fondovalle. I barbari, il popolo di Wulfgar proveniente dalla lontana Valle del Vento Gelido, si stavano apprestando a iniziare la loro lunga giornata durante la quale avrebbero cercato di ricostruire le rovine di una città devastata.

    Drizzt osservò i minuscoli profili brulicare per le strade e ripensò al tempo in cui Wulfgar e la sua gente orgogliosa vagavano per la gelida tundra di una terra molto più a nordovest, dall’altro capo della grande catena montuosa a un migliaio di miglia di distanza.

    La primavera, la stagione del commercio, si stava avvicinando a grandi passi. Gli uomini e le donne di Settlestone avrebbero cominciato a mercanteggiare con i nani di Mithral Hall e la ricchezza e il benessere che si sarebbero annidati nelle loro tasche avrebbero fatto dimenticare la loro non lontana esistenza precaria. Erano arrivati al richiamo di Wulfgar, avevano combattuto valorosamente al fianco dei nani lungo quelle gallerie antiche e presto avrebbero raccolto la ricompensa di quel duro lavoro lasciandosi alle spalle una disperata vita di stenti e i freddi venti implacabili della Valle del Vento Gelido.

    «Quanta strada abbiamo percorso tutti», mormorò Drizzt rivolto alla fresca brezza mattutina. Si sorprese a sorridere divertito, dato che lui stesso stava ritornando da Silverymoon, una magnifica cittadina a oriente dove un tempo l’elfo ranger non avrebbe mai osato sperare di venire ammesso.

    Quando, infatti, poco più di un paio d’anni prima, aveva accompagnato Bruenor e gli altri alla ricerca di Mithral Hall, Drizzt era stato fermato davanti ai portali cesellati di Silverymoon.

    «Tu hai percorso un centinaio di miglia in questa settimana», disse una voce alle sue spalle.

    Drizzt appoggiò con un gesto fulmineo le mani sull’elsa delle scimitarre, ma la mente ebbe il sopravvento sui riflessi e lui si rilassò. Aveva riconosciuto quella voce melodica in cui si avvertiva appena l’accento dei nani. Un istante più tardi Catti-brie, la figlia adottiva di Bruenor Battlehammer, sgusciò da dietro uno spuntone roccioso. I folti capelli castano ramati ondeggiavano al vento e gli occhi blu risplendevano quasi fossero due gemme spruzzate di rugiada.

    Drizzt non poté frenare un sorriso quando il suo sguardo si posò sul passo flessuoso della ragazza, su quel corpo pieno di una vitalità che si era dimostrata sorprendente nelle più terribili battaglie che aveva dovuto affrontare negli ultimi anni. Né poté fingere di non sentire quell’ondata di tepore che si impossessava del suo corpo ogni volta che vedeva Catti-brie, la donna che conosceva il suo animo meglio di chiunque altro. Catti-brie lo aveva capito e lo aveva accettato per il suo cuore e non per il colore della sua pelle fin dalla prima volta che si erano incontrati in una vallata rocciosa sferzata dal vento oltre una decina di anni prima, quando lei era ancora una fanciulla.

    L’elfo scuro attese nella speranza di vedere Wulfgar, il futuro sposo di Catti-brie, sbucare da dietro il picco.

    «Ti sei avventurata lontano da casa senza scorta», osservò quando non vide il barbaro.

    Catti-brie incrociò le braccia al petto e dopo aver appoggiato il peso del corpo su una gamba cominciò a battere l’altro piede con impazienza. «E tu cominci a parlare più come mio padre che come mio amico», lo rimbeccò. «Comunque, nemmeno Drizzt Do’Urden si aggira per questi sentieri con una scorta».

    «Ben detto», ammise l’elfo con voce rispettosa. Il rabbuffo della ragazza gli aveva ricordato senza mezze misure che Catti-brie era in grado di badare a se stessa. Dalla sua cintura pendeva un pugnale corto uscito dalle migliori fucine dei nani.

    Sotto il mantello di pelliccia indossava una armatura preziosa quanto la cotta di maglia che Bruenor aveva regalato a Drizzt. Taulmaril lo Spezzacuori, l’infallibile arco magico di Anariel, era appoggiato sulla sua spalla. Drizzt non aveva mai veduto un’arma più potente. Ma nonostante lo portasse sempre appresso, Catti-brie era cresciuta fra la rude razza dei nani ed era stata allevata da Bruenor stesso affinché diventasse una creatura resistente come le rocce della montagna.

    «Vieni spesso a osservare l’alba?» gli chiese lei notando che il suo viso era rivolto a oriente.

    Drizzt si sedette su un macigno piatto e invitò Catti-brie ad accomodarsi al suo fianco. «Non ho mai smesso di ammirare l’alba dal giorno in cui sono salito in superficie», spiegò il drow appoggiando il cappuccio verde del mantello sulle spalle.

    «Anche se a quel tempo mi bruciavano gli occhi e ciò mi ricordava il luogo dal quale provenivo. Ora, con mio sommo sollievo, riesco a sopportare la luce».

    «Meglio così», ribatté la ragazza incrociando lo sguardo color lavanda dell’elfo. Drizzt rimase a osservare estasiato quello stesso sorriso innocente che aveva scorto molti anni prima in un pendio sferzato da un vento implacabile nella lontana Valle del Vento Gelido. Il sorriso della sua prima amica.

    «Ciò significa che appartieni al mondo della luce, Drizzt», aggiunse lei. «Come qualsiasi altro membro di ogni razza, secondo me».

    Drizzt rivolse lo sguardo all’orizzonte rosato e non rispose. Anche Catti-brie non disse nulla e insieme rimasero a osservare il risveglio del mondo nel più assoluto silenzio.

    «Sono venuta qui perché dovevo vederti», disse lei all’improvviso. «Girava voce che eri andato a Settlestone e ·che saresti ritornato a Mithral Hall fra qualche giorno. Da quando sono venuta a saperlo, passo di qui ogni mattina».

    «Desideri parlarmi in privato?» le chiese Drizzt con espressione imperturbabile.

    L’impercettibile gesto del capo mentre girava il volto verso l’orizzonte orientale fece capire al drow che qualcosa non andava.

    «Non potrei mai perdonarti la tua assenza al nostro matrimonio», disse Catti-brie con tono pacato mordicchiandosi le labbra e annusando l’aria. A Drizzt parve quasi che stesse camuffando l’emozione che provava con una finta infreddatura.

    Le cinse le spalle con un braccio. «E tu credi che io non verrei anche se davanti alla sala della cerimonia si fosse riunito un intero esercito di troll delle Paludi Eterne?».

    Catti-brie si voltò verso di lui e guardandolo negli occhi lo strinse in un affettuoso abbraccio mentre un ampio sorriso le illuminava il viso. All’improvviso si alzò in piedi trascinando con sé anche Drizzt.

    L’elfo si sforzò di dimostrare la propria contentezza. Catti­-brie non aveva dubitato di lui e aveva sempre saputo che Drizzt avrebbe presenziato alle sue nozze con Wulfgar poiché loro due erano i suoi migliori amici. E allora perché quelle lacrime, quel vago rossore al naso che non era certo provocato da un incipiente raffreddore, si chiese l’elfo. Perché la ragazza aveva sentito la necessità di spingersi in quelle zone per cercarlo a solo poche ore di distanza dall’entrata di Mithral Hall?

    Non ebbe la forza di chiederglielo, ma la cosa lo aveva turbato non poco. Ogni volta che lo scorgeva, quel triste lucore negli occhi blu di Catti-brie aveva il potere di far trepidare il suo cuore.

    Gli stivali scintillanti di Jarlaxle battevano contro il pavimento di pietra con un cupo tonfo mentre il mercenario solitario avanzava lungo le gallerie sinuose che lo conducevano lontano da Menzoberranzan. La maggior parte degli elfi scuri che si allontanava dalla grande città per addentrarsi nelle zone più selvagge del Buio Profondo sarebbe avanzata con maggiore cautela, ma il mercenario conosceva quanto si nascondeva in quelle gallerie e le creature che vi abitavano.

    Le informazioni non gli erano mai mancate. La fitta rete di esploratori di Bregan D’aerthe, la banda che egli stesso aveva fondato e portato alla gloria, era la più complessa in tutto il regno dei drow. Jarlaxle era al corrente di quanto accadeva o di quando sarebbe accaduto all’interno e all’esterno della città. E proprio grazie a quelle informazioni egli era sopravvissuto per centinaia di anni nonostante fosse un furfante impenitente senza casa né famiglia. Da quando era entrato a far parte dei loschi intrighi di Menzoberranzan, nessuno, a eccezione forse della Prima Matrona Madre Baenre, era mai riuscito a scoprire le vere origini dell’astuto mercenario.

    Indossava il suo cappuccio luccicante, i cui colori magici avvolgevano la sua figura aggraziata, e la sua testa rasata era adornata da un copricapo dalla falda larga su cui poggiavano le morbide piume di un diatryma, un enorme uccello incapace di volare che abitava nel Buio Profondo. Su un fianco una spada sottile dondolava al ritmo del suo incedere, mentre sull’altro era legata alla cintura una lunga daga. Quelle erano le sue uniche armi visibili, ma chiunque lo conoscesse sapeva che nelle falde del mantello ne erano nascoste molte altre, sempre pronte a colpire nel momento del bisogno.

    Sospinto dalla curiosità, Jarlaxle affrettò il passo, ma non appena si rese conto che il fiato cominciava a spezzarsi rallentò, ricordandosi che si era prefissato di arrivare con un buon margine di ritardo all’incontro inopportuno predisposto da quella pazza di Vierna.

    Quella pazza di Vierna, ripeté in cuor suo.

    Jarlaxle rimase a

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