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Ladri di spade: The Riyria Revelations
Ladri di spade: The Riyria Revelations
Ladri di spade: The Riyria Revelations
E-book744 pagine10 ore

Ladri di spade: The Riyria Revelations

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Info su questo ebook

A volte si deve rubare la gloria.
Uccisero un re e ne attribuirono la colpa a due avventurieri... Brutta scelta!

Royce Melborn, ladro matricolato, e il suo degno compare, il mercenario Hadrian Blackwater, si guadagnano comodamente da vivere portando a termine imprese rischiose per conto di nobili di dubbia moralità, finché non vengono ingaggiati per sgraffignare una spada leggendaria. Questa volta, però, si troveranno coinvolti nell’assassinio di un re e intrappolati in una trama oscura che va ben oltre l’assassinio di un sovrano.

Riusciranno  i nostri eroi – l’ambizioso  furfante e lo spadaccino idealista – a dipanare un antico mistero che ha rovesciato re e distrutto potenti imperi?

Inizia così la nostra storia, densa di avventure, tradimenti, duelli, magia e leggende.
LinguaItaliano
EditoreArmenia
Data di uscita11 lug 2017
ISBN9788834435489
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    Anteprima del libro

    Ladri di spade - Michael J. Sullivan

    UNO

    LA COSPIRAZIONE DELLA CORONA

    Capitolo uno

    Lettere rubate

    Hadrian riusciva a vedere ben poco nell’oscurità ma li sentiva – lo schiocco dei ramoscelli, lo scricchiolio delle foglie e il fruscio dell’erba. Ce n’era più di uno, più di tre, e si avvicinavano.

    «Non muovetevi», ordinò una voce perentoria dall’ombra. «Avete delle frecce puntate alla schiena e se solo provate a fuggire, vi ritroverete col sedere a terra in men che non si dica». Lo sconosciuto era ancora nell’ombra oscura della foresta, solo un movimento vago tra i rami nudi. «Vogliamo solo alleggerirvi del vostro carico. Obbedite e nessuno si farà male. Fate di testa vostra e direte addio alla vita».

    Hadrian si sentì chiudere lo stomaco. Sapeva che era colpa sua. Lanciò un’occhiata a Royce, seduto accanto a lui sulla giumenta grigia, il cappuccio sollevato, il volto nascosto. La testa dell’amico era abbassata e si spostò con un movimento oscillatorio. Hadrian non aveva bisogno di vedere la sua espressione per sapere cosa esprimesse.

    «Scusa», mormorò.

    Royce non replicò ma continuò a scuotere la testa.

    Davanti a loro si innalzava un muro di rami appena tagliati per bloccare il passaggio. Dietro di esso si estendeva il lungo corridoio della strada illuminato dalla luna. Una nebbiolina saliva da avvallamenti e canali, e da qualche parte un ruscello gocciolava sulle rocce. Erano nel folto della foresta sulla vecchia strada meridionale, inghiottiti in una lunga galleria di querce e frassini, i cui rami snelli si allungavano sulla strada, fremendo e schioccando sospinti dal freddo vento autunnale. A circa una giornata di cavallo da qualsiasi città, non vedevano una fattoria da ore. Erano soli, in un posto sperduto in mezzo al nulla; il genere di luogo dove nessuno andava a cercare un corpo.

    Lo scricchiolio delle foglie si fece più forte finché i ladri emersero nella stretta striscia di luce. Hadrian contò quattro uomini con i volti coperti da folte barbe e le spade sguainate. Erano vestiti in modo rozzo, pelle e lana, abiti consunti, macchiati, sudici. Con loro c’era anche una ragazza che impugnava un arco, la freccia incoccata e puntata. Era vestita come gli altri in pantaloni e stivali, i capelli una massa intricata. Erano tutti ricoperti di fango, di sporcizia, come se dormissero in un cunicolo sudicio.

    «Mi sa che questi di denaro ne hanno ben poco», disse un tipo dal naso piatto. Qualche centimetro più alto di Hadrian, era il più massiccio del gruppo, un animale tarchiato dal collo taurino e le mani grandi. Il labbro inferiore sembrava essere stato tagliato quando il naso era stato rotto.

    «Ma hanno sacche con attrezzi», osservò la ragazza. La sua voce lo sorprese. Era giovane e graziosa, nonostante la sporcizia, quasi infantile, sebbene il tono fosse aggressivo, se non addirittura violento. «Guardate quanta roba si portano dietro. Che cosa se ne fanno di tutta quella corda?».

    Hadrian si sentì chiamato in causa, ma non aveva nessuna intenzione di rispondere. Tuttavia prese in considerazione l’idea di una battuta di spirito, ma quella non sembrava il tipo che si lasciava conquistare da un complimento e un sorriso. Inoltre, il suo arco era puntato contro di lui e sembrava che il braccio cominciasse a perdere energia.

    «Io voglio lo spadone che quello ha sulla schiena», proclamò naso-piatto. «Sembra fatto apposta per me».

    «Io prenderò le altre due spade». Questa volta a parlare fu un tale dal volto sfigurato da una cicatrice che si allungava da un orecchio all’altro.

    La ragazza puntò la freccia verso Royce. «Io voglio il mantello del piccoletto. Dovrei stare bene con un bel cappuccio nero come quello».

    Gli occhi infossati e la pelle bruciata dal sole, l’uomo più vicino a Hadrian sembrava il più anziano. Avanzò di un passo e afferrò il cavallo di Hadrian per il morso. «Adesso aprite bene le orecchie. Ne abbiamo già uccisi a dozzine lungo questa strada. Idioti che non ascoltavano. Voi non volete fare gli idioti, vero?».

    Hadrian scosse la testa.

    «Bene. Adesso gettate a terra le armi», ordinò il ladro. «E poi scendete da cavallo».

    «Che cosa ne dici, Royce?», domandò Hadrian. «Diamo loro qualche moneta così nessuno si farà male».

    Royce si guardò intorno. Due occhi dallo sguardo feroce fecero capolino dal cappuccio.

    «Sto solo dicendo che non vogliamo guai, giusto?».

    «Tu non vuoi la mia opinione», replicò Royce.

    «Ho capito. Vuoi fare come sempre di testa tua».

    Silenzio.

    Hadrian scosse la testa e sospirò. «Perché devi sempre rendere tutto così difficile? Probabilmente non sono cattivi, sono solo dei poveretti. Ma sì, dai, arraffano quello che possono per comprare un tozzo di pane per i loro figli. Come puoi avertene a male? L’inverno è alle porte e viviamo in tempi duri». Guardò i ladri. «Giusto?».

    «Io non ho famiglia», replicò naso-piatto. «Spendo tutto in bevute all’osteria».

    «Non mi sei d’aiuto», ribatté Hadrian.

    «E nemmeno voglio esserlo. O voi due fate quello che vi diciamo, o non vi resterà che dire una preghiera». Sottolineò le parole sguainando un lungo pugnale e facendolo strisciare contro la lama della spada.

    Un vento freddo ululò tra gli alberi, agitando i rami e strappando via altre foglie. Un mare rosso e giallo si levò in aria, volteggiò, si abbassò e si risollevò lungo la stretta strada. Da qualche parte nell’oscurità, un gufo bubolò.

    «Sentite, cosa ne dite se vi diamo la metà dei nostri soldi? La mia metà. Così per voi non sarà una perdita secca».

    «Non ne vogliamo la metà», obiettò l’uomo che stringeva il morso del suo cavallo. «Noi vogliamo tutto quello che avete, compresi i cavalli».

    «No, aspettate un attimo. I cavalli? Appropriarsi di qualche moneta va bene, ma il furto di cavalli? Se verrete presi, vi impiccheranno. E sapete che noi andremo a denunciarvi nella prima città che incontreremo».

    «Siete del nord, vero?».

    «Sì, siamo partiti ieri da Medford».

    L’uomo che teneva il suo cavallo annuì e Hadrian notò un piccolo tatuaggio rosso sul collo. «È questo il vostro problema». Il volto si ammorbidì in un’espressione compassionevole che apparve ancora più minacciosa nella sua mellifluità. «Scommetto che state andando a Colnora. Bella città. Negozi. Gente ricca e stravagante. Il commercio è fiorente e lungo questa strada passano dozzine di mercanti carichi di mercanzie da vendere a quella gente stravagante. Ma immagino che voi non siate mai stati nel sud, vero? Su nel Melengar, re Amrath si è preso la briga di mettere dei soldati a pattugliare le strade. Ma qui, nel Warric, le cose vanno in modo diverso».

    Naso-piatto si avvicinò, leccandosi il labbro spezzato mentre studiava lo spadone agganciato alla schiena di Hadrian.

    «Stai dicendo che il furto è legale?».

    «Ma no, ma re Ethelred vive ad Aquesta, che è incredibilmente lontana da qui».

    «E il conte di Chadwick? Non è lui che amministra queste terre in nome del re?».

    «Archie Ballentyne?». Nell’udire quel nome, gli altri membri della combriccola sghignazzarono divertiti. «Ad Archie non gliene frega niente di quello che succede al popolo. È troppo impegnato a decidere che cosa mettersi addosso». L’uomo scoprì i denti gialli in un sorriso sbilenco. «Perciò adesso basta chiacchiere e buttate giù le armi. Dopo, se vorrete, potrete fare una bella passeggiata fino al Castello di Ballentyne, bussare alla porta del vecchio Archie e vedere che cosa fa». Altre risate. «Allora, a meno che non pensiate che questo sia il luogo perfetto per morire, fate ciò che vi ho detto».

    «Avevi ragione, Royce», disse Hadrian in tono rassegnato. Slacciò il mantello e lo posò sulla parte posteriore della sella. «Avremmo dovuto lasciare la strada, ma onestamente… siamo nel mezzo del nulla. Quante probabilità c’erano?».

    «A giudicare dal fatto che stiamo per essere rapinati… be’, direi parecchie».

    «L’ironia della sorte, non trovi? I Riyria rapinati. È persino divertente».

    «Non è affatto divertente».

    «Hai detto Riyria?», domandò l’uomo che teneva il cavallo di Hadrian.

    Quest’ultimo annuì e si sfilò i guanti, per poi infilarli sotto la cintura.

    Il bandito lasciò andare il cavallo e indietreggiò.

    «Che ti prende, Will?», domandò la ragazza. «Chi sono i Riyria?».

    «Nel Melengar vivono due tizi che si fanno chiamare così». Guardò i compagni e abbassò la voce. «Ho dei contatti laggiù, vi ricordate? Mi hanno fatto sapere che due tizi che si fanno chiamare Riyria hanno lasciato Medford e che se mi fosse capitato di incontrarli avrei fatto bene a stare alla larga da loro».

    «E allora, che cosa proponi, Will?», domandò lo sfregiato.

    «Propongo di liberare la strada e di lasciarli andare».

    «Che cosa? E perché? Siamo cinque contro due», sottolineò naso-piatto.

    «Ma loro sono i Riyria».

    «E allora?».

    «E allora, i miei amici del nord non sono stupidi, e hanno sparso la voce di non toccare questi due. E i miei amici non sono certo dei cacasotto. Se dicono di evitarli, ci deve essere un buon motivo».

    Naso-piatto tornò a guardare i due sconosciuti con espressione dubbiosa. «Va bene, ma come fai a sapere che questi due sono loro? Ti accontenti della loro parola?».

    Will indicò Hadrian. «Guarda le sue spade. Un uomo che porta una spada, forse la sa usare, o forse no. Un uomo che ne porta due, probabilmente non sa niente di spade ma vuole che tu pensi il contrario. Ma un uomo che ne porta tre… be’, è un peso immane. Nessuno andrebbe in giro con un carico simile a meno che non si guadagni da vivere usando quelle armi».

    Hadrian estrasse due spade in un unico movimento fluido. Ne rovesciò una, facendola ruotare sul palmo. «Questa ha bisogno di una nuova impugnatura. È di nuovo consumata». Guardò Will. «Allora, vogliamo darci una mossa? Se non sbaglio stavate per rapinarci».

    I ladri si lanciarono occhiate esitanti.

    «Will?», mormorò la ragazza. Teneva ancora l’arco teso ma sembrava decisamente meno sicura.

    «Liberiamo la strada e lasciamoli passare», ordinò Will.

    «Sicuri?», domandò Hadrian. «Questo gentil signore dal naso schiacciato sembra tenerci molto a una delle mie spade».

    «Non importa», replicò naso-piatto, fissando le lame dal cui acciaio s’irradiarono bagliori di luce.

    «Va be’, contenti voi…».

    Annuirono tutti e cinque e Hadrian rinfoderò le armi.

    Will conficcò la spada nel fango e indicò agli altri di seguirlo mentre si affrettava a eliminare la barriera di rami che bloccava la strada.

    «State sbagliando tutto, lo sapete?», disse Royce.

    I ladri si fermarono e lo guardarono, preoccupati e confusi.

    Royce scosse la testa. «Non mi riferisco alla strada, ma alla rapina. Il punto che avete scelto è perfetto. Bisogna riconoscerlo. Ma avreste dovuto attaccarci ai fianchi».

    «E, William… è così che ti chiami, vero?», chiese Hadrian.

    L’uomo trasalì e annuì.

    «Sì, William, la maggior parte delle persone sono destrorse, perciò avreste dovuto avvicinarvi da sinistra. In questo modo ci saremmo trovati svantaggiati, dovendo contorcerci verso di voi. Quelli con l’arco, invece, avrebbero dovuto posizionarsi alla nostra destra».

    «E poi perché solo un arco?», domandò Royce. «Lei avrebbe potuto colpire solo uno di noi».

    «No, non ci sarebbe nemmeno riuscita», sbottò Hadrian. «Avete notato da quanto tempo tiene l’arco teso e incoccato? O è incredibilmente forte, cosa di cui dubito, o quello è un arco casalingo fatto con legno tenero, privo della forza per scagliare una freccia oltre un passo. Lei fa solo scena. Scommetto che non ha mai lanciato una freccia».

    «Ti sbagli», intervenne la ragazza. «Ho un’ottima mira».

    Hadrian scosse la testa, sorridendole. «Avevi l’indice in cima all’asta, tesoro. Se avessi tirato, le piume sulla freccia ti avrebbero sfiorato il dito e il colpo sarebbe andato ovunque tranne dove volevi tu».

    Royce annuì. «Investite in balestre. La prossima volta restate nascosti e limitatevi a scagliare un paio di dardi nel petto delle vostre vittime. Chiacchierate troppo».

    «Royce!», lo rimproverò Hadrian.

    «Cosa c’è? Dici sempre che dovrei essere più gentile. Sto cercando di dare una mano».

    «Non dategli retta. Se volete un buon consiglio, imparate a costruire una barricata degna di questo nome».

    «Già, la prossima volta abbattete un albero sulla strada», disse Royce. E indicando i rami, aggiunse: «Quella roba è ridicola. E copritevi il volto, per l’amor di Maribor. Warric è un regno piccolo e qualcuno potrebbe ricordarsi di voi. Certo, Ballantyne non si prenderebbe la briga di darvi la caccia per qualche stupida rapina, ma un giorno potreste entrare in una taverna e ritrovarvi con un pugnale nella schiena». Si rivolse a William. «Tu eri nella Mano Rossa, vero?».

    William sgranò gli occhi, attonito. «Nessuno ne ha parlato». Abbandonò il ramo che stava trascinando via.

    «Non ce n’è bisogno. La Mano obbliga tutti i membri della corporazione a farsi quello stupido tatuaggio sul collo». Royce si rivolse a Hadrian. «Dovrebbe farli sembrare duri e forti, ma in realtà serve solo a identificarli più facilmente come ladri per tutta la vita. Se ci pensi, disegnare una mano rossa è piuttosto stupido, non trovi?».

    «Quel tatuaggio dovrebbe essere una mano?», chiese Hadrian. «Pensavo fosse un pollo. Ma ora che l’hai detto, una mano ha più senso».

    Royce tornò a guardare Will e inclinò la testa di lato. «Assomiglia a un pollo».

    Will si portò una mano al collo.

    Quando anche l’ultimo ramo venne spostato, William chiese: «Chi siete veramente? Che cos’è esattamente Riyria? La Mano non me l’ha mai detto. Dicevano solo di starvi alla larga».

    «Siamo come tanti altri», rispose Hadrian. «Due viaggiatori che si godono una cavalcata in una fresca notte d’autunno».

    «Ma prima non stavo scherzando», intervenne Royce. «Se volete continuare a fare i ladri, dovrete seguire i nostri consigli. Dopotutto, noi seguiremo il vostro consiglio».

    «Quale consiglio?».

    Royce affondò lievemente i talloni nei fianchi del cavallo e riprese ad avanzare lungo la strada. «Andremo a trovare il Conte di Chadwick; ma tranquilli, non faremo i vostri nomi».

    Archibald Ballentyne teneva il mondo nelle sue mani, opportunamente racchiuso in quindici lettere rubate. Ogni pergamena era stata scritta con cura meticolosa in una grafia elegante e regolare. Era chiaro che lo scrivano riteneva quelle parole profonde e che il loro significato comunicava una meravigliosa verità. Archibald, al contrario, riteneva fossero tutte idiozie, tuttavia conveniva con l’autore sul fatto che il loro valore fosse inestimabile. Assaporò un sorso di brandy, chiuse gli occhi, e sorrise.

    «Milord?».

    Archibald aprì gli occhi controvoglia e guardò seccato il maestro d’armi. «Cosa c’è, Bruce?».

    «È arrivato il marchese, signore».

    Sul volto di Archibald tornò il sorriso. Si affrettò a ripiegare le lettere, legandole con un nastro blu e riponendole al sicuro nella cassaforte. Chiuse il pesante sportello di ferro, fece scattare la serratura e controllò la tenuta dando due forti strattoni al catenaccio. Poi si diresse al piano inferiore ad accogliere il suo ospite.

    Quando giunse al termine della scala, si fermò a osservare Victor Lanaklin, che camminava avanti e indietro nell’atrio, come un animale in gabbia. Guardarlo donò ad Archibald un senso di soddisfazione. Sebbene il marchese vantasse un titolo superiore al suo, Lanaklin non lo aveva mai messo in soggezione. Forse un tempo era stato superbo, temibile, o addirittura valoroso, ma quella gloria l’aveva persa ormai da molto tempo, sepolta sotto uno strato di capelli grigi e una schiena dalla gobba prominente.

    «Vossignoria gradisce bere qualcosa?», domandò un timido maggiordomo producendosi in un inchino.

    «No, ma vedi di fare arrivare in fretta il tuo conte», ordinò Lanaklin. «O devo andare a cercarlo io?».

    Il maggiordomo rabbrividì. «Sono certo che il padrone arriverà presto, signore». Tornò a inchinarsi e in tutta fretta scomparve al di là di una porta dal lato opposto della stanza.

    «Marchese!», esclamò Archibald in tono garbato palesandosi agli occhi dell’ospite. «Sono così felice che siate venuto… e così in fretta».

    «Sembrate sorpreso», replicò Victor con voce tagliente. Agitando una pergamena stropicciata stretta in pugno, continuò: «Mandate una lettera simile e vi aspettate che ritardi? Archie, esigo di sapere che cosa sta succedendo».

    Archibald nascose l’irritazione nel sentirsi chiamare con il nomignolo dell’infanzia. Archie. Era il soprannome datogli dalla defunta madre e uno dei tanti motivi per cui non l’avrebbe mai perdonata. Quando era ragazzo, tutti quanti, dai cavalieri ai servitori, lo avevano usato e Archibald si era sempre sentito sminuito da tanta familiarità. Una volta divenuto conte, aveva emesso una legge per la quale chiunque avesse osato riferirsi a lui usando tale nome sarebbe stato frustato. Purtroppo, non aveva il potere di estendere tale editto al marchese, ed era certo che quest’ultimo avesse usato quel nomignolo intenzionalmente.

    «Vi prego, Victor, calmatevi».

    «Non sta a voi dirmi ciò che devo fare!». La voce del marchese echeggiò sulle pareti di pietra. Si avvicinò, il volto a pochi palmi da quello dell’uomo più giovane, e lo guardò con occhi di fuoco. «Avete scritto che il futuro di mia figlia Alenda era a rischio e avete parlato di prove. Adesso devo saperlo: è o non è in pericolo?».

    «Non ci sono dubbi sul fatto che lo sia», rispose il conte in tono pacato, «ma non si tratta di nulla di imminente, ve lo assicuro. Non ci sono complotti per rapirla e nessuno progetta di ucciderla, se è questo che temete».

    «Allora perché mi avete inviato un simile messaggio? Se mi avete obbligato a spingere i cavalli allo stremo delle loro forze e mi avete fatto quasi morire di paura per niente, ve ne pentirete e…».

    Una mano sollevata, Archibald interruppe quel fiume di parole. «Vi assicuro, Victor, che non è per niente. Tuttavia, prima di proseguire, vi propongo di raggiungere il mio studio, dove staremo più comodi e potrò mostrarvi le prove di cui parlavo».

    Victor lo fulminò con lo sguardo ma annuì.

    I due uomini attraversarono l’atrio, percorsero l’enorme sala per i ricevimenti e si diressero verso una porta che conduceva agli appartamenti del castello. Superati svariati corridoi e scale, l’atmosfera cambiò completamente. All’ingresso principale e nelle sale attigue, preziosi arazzi e quadri adornavano le pareti, e i pavimenti erano di marmo finemente lavorato. Ma nelle successive stanze, ogni ostentazione di grandezza svaniva per lasciare il posto a nude pareti di pietra e poco altro.

    Da un punto di vista architettonico, e non solo, il Castello di Ballentyne era anonimo e mediocre. Nessun grande re o eroe aveva mai vissuto tra le sue mura. E non era sede di leggende, storie di fantasmi o battaglie. Era insomma un esempio perfetto di normalità e banalità.

    Percorsero numerosi corridoi e solo dopo parecchi minuti, Archibald si fermò davanti a un’imponente porta di ferro. Impressionanti catenacci fuori misura assicuravano la porta ai cardini, ma non si vedevano né chiavistelli né maniglie. Ai lati della porta, due sentinelle, armate di alabarde, montavano di guardia. All’avvicinarsi di Archibald, una delle due bussò tre volte. Si aprì un piccolo spioncino e un istante dopo, nel corridoio echeggiò il rumore di un catenaccio che scorreva. Quando la porta venne aperta, i cardini metallici emisero un cigolio assordante.

    Victor si coprì le orecchie con le mani. «Per Mar! Fate sistemare questo orrore!».

    «Non ci penso proprio», replicò Victor. «da qui si entra nella Torre Grigia, il mio studio privato. Questo è il mio rifugio e voglio sentirne aprire la porta ovunque mi trovi nel castello».

    Al di là della porta, Bruce salutò i due nobili con un profondo inchino. Una lanterna in una mano, li guidò su per un’ampia scala a chiocciola. A metà scala, Victor rallentò e il suo respiro divenne ansante.

    Educatamente, Archibald si fermò. «Chiedo scusa per la lunga salita. Io ormai nemmeno me ne accorgo più. Devo essere salito per queste scale almeno un migliaio di volte. Quando mio padre era il conte, questo era l’unico posto dove potevo starmene da solo. Nessuno si prendeva la briga di salire fin quassù. Sebbene non raggiunga l’altezza maestosa della Torre della Corona di Ervanon, è la torre più alta del mio castello».

    «Non viene nessuno solo per ammirare il panorama?», s’informò Victor.

    Il conte ridacchiò. «La torre non ha finestre ed è proprio questo particolare che la rende perfetta come mio studio privato. Ho aggiunto le porte per proteggere ciò che mi è più caro».

    Raggiunta la cima delle scale, si trovarono davanti a un’altra porta. Archibald estrasse una chiave massiccia dalla tasca, la infilò nella serratura, aprì e invitò il marchese a entrare. Bruce raggiunse la sua abituale postazione fuori dallo studio e chiuse la porta.

    La stanza era circolare con un alto soffitto. L’arredamento era ridotto al minimo: una grande scrivania disordinata, due poltroncine accanto a un caminetto e tra di esse, un tavolino piuttosto malandato. Il fuoco ardeva dietro a un semplice parafiamma in ottone, illuminando buona parte dello studio. Le candele alle pareti fornivano la luce necessaria per le altre zone e riempivano la stanza di un piacevole e inebriante profumo di miele e salifan.

    Archibald sorrise quando notò Victor fissare la scrivania ricoperta da rotoli e pergamene. «Tranquillo, ho nascosto tutti i piani compromettenti riguardanti la dominazione del mondo prima del vostro arrivo. Ma vi prego, accomodatevi». E indicò le poltroncine vicine al fuoco.

    «Siete al corrente, vero, del fatto che ho manifestato un certo interesse in vostra figlia Alenda, vero?», domandò Archibald avvicinandosi alla scrivania per versare tre dita di brandy in due bicchieri.

    «Sì, Alenda me ne ha accennato».

    «E vi ha anche spiegato perché rifiuta le mie avance?».

    «Voi non le piacete».

    «Mi conosce appena», obiettò Archibald sollevando un dito.

    «Archie, è per questo che mi avete fatto venire?».

    «Marchese, vi sarei grato se vi rivolgeste a me usando il mio nome completo. È inappropriato usare quello, considerato che mio padre è defunto e il titolo è passato a me. Comunque, veniamo alla vostra domanda. Come voi sapete, sono il dodicesimo Conte di Chadwick. Certo, il patrimonio non è immenso e la famiglia Ballantyne non è la più autorevole, tuttavia io non sono privo di potere. Controllo cinque villaggi e dodici borghi, oltre agli Altopiani Senon, di cui non dovete dimenticare la posizione strategica. Attualmente ho ai miei ordini sessanta uomini in armi, e venti cavalieri mi hanno giurato fedeltà, tra cui Sir Enden e Sir Breckton, forse i più grandi cavalieri viventi. L’esportazione della lana e del pellame di Chadwick suscitano l’invidia di tutto il Warric. Si dice persino che i Giochi dell’Estate verranno tenuti qui, sull’erba che voi stesso avete calpestato per entrare nel castello».

    «Sì, Archie – voglio dire, Archibald – ho ben presente la posizione di Chadwick nel mondo. Non ho bisogno che mi teniate una lezione di economia».

    «Sapete anche che il nipote di Re Ethelred è stato mio ospite più di una volta? O che il Duca e la Duchessa di Rochelle hanno chiesto di cenare con me alla Festa dell’Inverno di quest’anno?».

    «Archibald, siete noioso. Volete venire al punto?».

    Arcibald s’irritò per la palese mancanza di ammirazione e stupore da parte del marchese. Presi i bicchieri di brandy, ne porse uno a Victor e si accomodò sull’altra poltroncina. Sorseggiò il liquore.

    «Ecco il mio punto. Considerata la mia posizione, la mia levatura e il promettente futuro che si spiega innanzi a me, non ha senso che Alenda mi respinga. Sicuramente non è a causa del mio aspetto. Sono giovane, attraente e indosso solo abiti confezionati con le sete più preziose. Tutti i suoi altri pretendenti sono vecchi, grassi o calvi, spesso tutte e tre le cose».

    «Forse aspetto e ricchezza non le interessano», ribatté Victor. «Le donne non pensano sempre a politica e potere. Alenda è quel genere di fanciulla che segue il cuore».

    «Ma seguirà anche i desideri del padre. O sbaglio?».

    «Non capisco dove vogliate arrivare».

    «Se le suggeriste di sposarmi, lo farebbe. Potreste ordinarglielo».

    «Allora è per questo che mi avete fatto correre qui? Mi spiace, Archibald, ma avete fatto perdere tempo a me e a voi stesso. Non intendo obbligarla a sposare nessuno, men che meno voi. Mi odierebbe per il resto della vita. Mi sta più a cuore l’affetto di mia figlia delle implicazioni politiche del suo matrimonio. Si dà il caso che ami profondamente Alenda. Tra tutti i miei figli, lei è la mia gioia più grande».

    Archibald bevve un altro sorso di brandy e rifletté sulle osservazioni di Victor. Infine, decise di affrontare l’argomento da un altro punto di vista. «E se fosse per il suo bene? Per salvarla da una sciagura?».

    «Mi avete parlato di pericolo per indurmi a venire qui. Siete finalmente pronto a spiegarvi o preferite scoprire se questo vecchio è ancora capace di brandire una spada?».

    Archibald ignorò quella che sapeva essere una futile minaccia. «Dopo che Alenda ha ripetutamente rifiutato le mie avance, mi sono detto che qualcosa non quadrava. Non c’era logica nei suoi rifiuti. Ho parecchi contatti e la mia stella è in ascesa. E così ho scoperto il vero motivo per cui vostra figlia mi respinge; è già impegnata con un altro. Alenda ha una tresca, una relazione segreta».

    «Trovo difficile crederlo», ribatté Victor. «Non mi ha parlato di nessuno. Se qualcuno avesse attirato la sua attenzione me lo avrebbe confidato».

    «Non c’è da stupirsi che vi abbia tenuto nascosta la sua identità. Si vergogna. Sa che la sua relazione porterà la vostra famiglia alla rovina. L’uomo con il quale si vede è un semplice plebeo, senza una goccia di sangue nobile nelle vene».

    «È una menzogna!».

    «Credetemi, non lo è. Ma il vero problema è un altro. Quell’uomo è Degan Gaunt. Avete sentito parlare di lui, non è vero? È piuttosto famoso. È il capo del movimento nazionalista a Delgos. Sapete che giù, nel sud, ha fomentato il sentimento di ribellione nei suoi simili. E ora sono tutti inebriati dall’idea di massacrare la nobiltà e conquistare l’autonomia. Lui e vostra figlia si sono incontrati a Windermere, nei pressi del monastero. Si vedono quando voi siete lontano, occupato a gestire questioni di stato».

    «Tutto questo è ridicolo. Mia figlia non farebbe mai…».

    «Non avete un figlio al monastero?», chiese Archibald. «È un monaco, no?».

    Victor annuì. «Myron, il mio terzo figlio».

    «Forse li sta aiutando. Ho chiesto in giro e pare che vostro figlio sia un uomo molto intelligente. Chissà, magari fa da intermediario per l’amata sorella e latore delle loro missive. Ma ora voi vi trovate in un guaio serio, Victor. Voi, marchese leale a un re imperialista, avete una figlia innamorata di un rivoluzionario, con il quale si incontra nel regno di Melengar mentre vostro figlio organizza la loro tresca. In molti potrebbero desumere che si tratta di un complotto di famiglia. Che cosa direbbe Re Ethelred se dovesse venirne a conoscenza? Entrambi sappiamo che voi siete un suddito fedele, ma altri potrebbero nutrire seri dubbi. Sebbene io mi renda conto che questo pasticcio non sia niente più che l’innamoramento mal indirizzato di un’innocente fanciulla, le bravate di quest’ultima potrebbero distruggere l’onore della vostra famiglia».

    «Voi siete pazzo», sbottò Victor. «Myron è andato in convento quando non aveva ancora quattro anni. Alenda non gli hai mai nemmeno parlato. Vi state inventando tutto per cercare di indurmi a cedere e a concedervi la mano di mia figlia. Ma io so cosa si nasconde sotto le vostre macchinazioni. A voi non importa nulla di Alenda. Voi volete la sua dote, la Valle Rilan. Quelle terre confinano con le vostre e sono il vostro reale obiettivo. Be’, le terre e la possibilità di elevare il vostro status entrando a fare parte di una famiglia superiore alla vostra sia socialmente sia politicamente. Siete patetico».

    «Patetico, dite?». Archibald posò il bicchiere ed estrasse dalla camicia una chiave appesa a una catena d’argento. Si alzò e attraversò la stanza fino a un arazzo che riproduceva un principe Calian a cavallo che rapiva una bionda nobildonna. Lo rimosse dalla parete, scoprendo una cassaforte nascosta. Inserita la chiave, aprì lo sportello metallico.

    «Sono in possesso di numerose lettere scritte di pugno dalla vostra preziosa figlia a riprova di ciò che affermo. In esse dichiara il suo amore eterno per quel disgustoso bifolco rivoluzionario».

    «Come ne siete entrato in possesso?».

    «Le ho rubate. Per cercare di scoprire chi fosse il mio rivale, ho fatto sorvegliare Alenda. Inviava lettere dirette al monastero; ho fatto in modo che venissero intercettate». Archibald estrasse dalla cassaforte una pila di pergamene che gettò in grembo a Victor. «Eccole!», dichiarò trionfante. «Leggete ciò che sta combinando vostra figlia e poi decidete voi stesso se non sarebbe meglio che mi sposasse».

    Archibald tornò a sedersi e sollevò trionfalmente il bicchiere di acquavite. Aveva vinto. Per evitare la rovina politica, Victor Lanaklin, il grande Marchese di Glouston, avrebbe ordinato alla figlia di sposarlo. Non aveva altra scelta. Se al re fosse giunta una sola parola della tresca, Victor avrebbe corso il rischio di essere accusato persino di tradimento. I re imperialisti esigevano che il comportamento dei nobili rispecchiasse alla lettera le loro convinzioni politiche e che dessero prova della massima devozione. Sebbene Archibald dubitasse che Victor fosse un simpatizzante monarchico o un nazionalista, qualsiasi parvenza di scorrettezza sarebbe stata motivo sufficiente per il re per esprimere il suo scontento. Come minimo, Victor si sarebbe trovato in una situazione di imbarazzo insostenibile dalla quale la Casa di Lanaklin non si sarebbe mai più ripresa. L’unica via d’uscita per il marchese era accondiscendere al matrimonio.

    E così, alla fine Archibald avrebbe avuto le terre di confine e forse, col tempo, avrebbe controllato tutti i possedimenti del marchese. Con Chadwick nella mano destra e Glouston in quella sinistra, il suo potere a corte avrebbe rivaleggiato con quello del Duca di Rochelle.

    Osservando l’anziano in elegante tenuta da viaggio, Archibald provò quasi compassione per lui. Un tempo, ormai lontano, il marchese aveva goduto della reputazione di uomo sagace e coraggioso, doti che andavano a braccetto con il suo titolo. Il marchese non era solo un nobile, tantomeno un semplice guardiano della terra, come un conte. Victor era stato responsabile della protezione dei confini dei domini del re. Si era trattato di un impegno gravoso, che richiedeva un capo capace, un uomo sempre all’erta e abile in battaglia. Ma i tempi erano cambiati, e vicini pacifici ora vivevano ai confini con il Warric, e il grande guardiano si era rilassato al punto che la sua forza era appassita non essendo più utilizzata.

    Mentre Victor apriva la lettera, il conte di Chadwick pensò al proprio futuro. Il marchese aveva ragione. Archibald voleva la terra che sarebbe giunta in dote con Alenda. Tuttavia, la giovane era affascinante e il pensiero di trascinarla nel suo letto era tutt’altro che spiacevole.

    «Archibald, ma che scherzo è mai questo?», chiese Victor.

    Archibald, strappato dai suoi pensieri, posò il bicchiere. «Come, prego?».

    «Queste pergamene sono bianche».

    «Cosa? Siete forse cieco? Sono…». Archibald tacque quando vide i fogli nelle mani del marchese. Afferrò una manciata di lettere e le aprì, solo per trovare altre pagine bianche. «È impossibile!».

    «Che fossero scritte con l’inchiostro simpatico?», azzardò Victor in tono ironico.

    «No… non capisco… Queste non sono nemmeno le stesse pergamene!». Il conte tornò a controllare nella cassaforte, ma era vuota. La confusione si trasformò in panico e Archibald corse a spalancare la porta per chiamare Bruce. Quest’ultimo si precipitò dentro, la spada sguainata. «Che cosa ne è stato delle lettere che avevo in cassaforte?», gridò Archibald.

    «Io… non lo so, milord», rispose Bruce. Inguainò la spada e restò sull’attenti innanzi al conte.

    «Come sarebbe a dire che non lo sai? Hai mai lasciato la tua postazione oggi?».

    «Certo che no, signore».

    «Durante la mia assenza qualcuno è entrato nel mio studio?».

    «No, milord, è impossibile. Voi ne possedete l’unica chiave».

    «In nome di Maribor, allora dove sono le lettere? Io stesso le ho messe là dentro. Le stavo leggendo quando è arrivato il marchese. Mi sono allontanato solo per pochi minuti. Come possono essere scomparse?».

    Con la mente, Archibald ripensò ai propri movimenti. Le aveva tenute in mano solo pochi attimi prima. Le aveva chiuse nella cassaforte. Ne era sicuro.

    Dove sono finite?

    Victor vuotò il bicchiere e si alzò. «Se non vi spiace, Archie, ora me ne andrei. Questa visita è stata una totale perdita di tempo».

    «Victor, aspettate. Non andatevene. Le lettere esistono. Vi assicuro che le avevo!».

    «Naturalmente, Archie. Tuttavia, la prossima volta che progetterete di ricattarmi, vi consiglio di inventarvi un bluff migliore». Attraversò la stanza, superò la porta e scomparve lungo le scale.

    «Farete meglio a riflettere su ciò che vi ho detto, Victor», gli gridò dietro Archibald. «Troverò quelle lettere. Statene pur certo! E le porterò ad Aquesta! A corte!».

    «Che cosa volete che faccia, milord?», domandò Bruce.

    «Aspetta, idiota. Devo pensare». Archibald si passò una mano tremante nei capelli, mentre cominciava a camminare nervosamente avanti e indietro. Esaminò le lettere da vicino. La pergamena era decisamente diversa da quella che aveva avuto tra le mani prima dell’arrivo del marchese.

    Nonostante fosse convinto di avere riposto le lettere nella cassaforte, cominciò a svuotare i cassetti e a rovistare tra i documenti sulla scrivania. Si versò dell’altro brandy e attraversò la stanza. Allontanato il parascintille dal fuoco, smosse le ceneri con un attizzatoio alla ricerca di resti di pergamena. In un gesto di stizza, gettò le pagine bianche nel camino. Svuotò il bicchiere in un solo sorso e si lasciò cadere su una poltroncina.

    «Erano qui», mormorò, confuso. Lentamente, nella mente prese forma una soluzione. «Bruce, le lettere devono essere state rubate. Il ladro non può essere andato lontano. Devi cercare in tutto il castello. Sigilla ogni uscita. Non lasciare uscire nessuno. Né servi, né guardie. Nessuno. Perquisisci tutti!».

    «Subito, milord», rispose Bruce. «E il marchese, signore? Devo bloccare anche lui?».

    «Certo che no, idiota. Lui non ha le lettere».

    Archibald restò a fissare il fuoco, mentre il rumore dei passi di Bruce si perdeva in lontananza a mano a mano che il maestro d’armi scendeva le scale. Rimasto in compagnia del crepitio delle fiamme e di un centinaio di domande prive di risposte, si spremette le meningi ma non riuscì a capire come il ladro fosse riuscito nella sua impresa.

    «Vossignoria?». La voce timorosa del maggiordomo lo distolse dai suoi pensieri. Archibald sollevò uno sguardo di fuoco sull’uomo che aveva infilato la testa oltre la porta, provocandogli un sussulto di paura. «Milord, chiedo venia, ma pare sia insorto un problema che richiede la vostra attenzione».

    «Che genere di problema?», ringhiò Archibald.

    «Be’, non conosco i dettagli, milord, ma pare abbia a che fare con il marchese. Sono stato inviato a chiamarvi, milord».

    Archibald percorse le scale, chiedendosi se per caso il nobile anziano fosse morto stecchito sulla porta del castello, evento peraltro non così terribile. Quando raggiunse la corte, trovò il marchese vivo, ma fuori di sé dalla rabbia.

    «Eccovi, Ballentyne! Che cosa ne avete fatto della mia carrozza?».

    «Della vostra che cosa?».

    Bruce si avvicinò ad Archibald e lo trasse in disparte. «Vossignoria», sussurrò all’orecchio del conte. «Pare che la carrozza e i cavalli del marchese siano spariti».

    Archibald sollevò un dito in direzione del marchese. Alzando la voce, gli rispose: «Sarò da voi tra un attimo, Victor». Poi riportò la propria attenzione su Bruce e mormorò: «Hai detto spariti? Com’è possibile?».

    «Non so dirlo con esattezza, signore, ma vedete, la sentinella all’ingresso sostiene che il marchese e il suo cocchiere, o meglio due uomini che pensava fossero loro, abbiano già oltrepassato l’ingresso principale».

    In preda alla confusione, Archibald si girò per affrontare l’ira del marchese.

    Capitolo due

    Incontri

    Il buio era ormai sceso da tempo quando Alenda Lanaklin giunse in carrozza nel degradato Quartiere Inferiore di Medford. La Taverna Rosaspina era nascosta tra stamberghe dal tetto sbilenco in una strada senza nome, che ad Alenda parve poco più che un vicolo. Il temporale aveva lasciato l’acciottolato bagnato, e pozzanghere erano disseminate lungo la via. Le carrozze gettavano schizzi d’acqua lurida contro l’ingresso del locale, lasciando strisce di sporcizia sulla pietra consunta e il legno sbiadito.

    Da una porta vicina emerse un uomo pelato, sudato e senza camicia, con in mano una pignatta di rame. Senza tante cerimonie, gettò nella via il suo contenuto di avanzi di carni stufate. Una mezza dozzina di cani si precipitarono subito sugli scarti. Figure miserabili, vagamente illuminate dalla luce tremolante proveniente dalle finestre della taverna, gridarono inferocite agli animali in una lingua che Alenda non riconobbe. Una selva di pietre si abbatté sui cani scheletriti, che sfrecciarono via mugolando. Gli sconosciuti si gettarono su ciò che i cani avevano lasciato e si ficcarono i resti in bocca e nelle tasche.

    «Siete sicura che sia il posto giusto, milady?», domandò Emily, guardandosi intorno. «Non credo che il visconte Winslow volesse che venissimo in un luogo simile».

    Alenda tornò a osservare il ramo spinoso e arricciato, con un solo bocciolo, dipinto sull’insegna deformata sopra la porta. La rosa rossa si era scolorita fino ad assumere un colore grigiastro e lo stelo segnato dalle intemperie sembrava un serpente arrotolato. «Il posto deve essere questo. Dubito che a Medford ci sia più di una Taverna Rosaspina».

    «Ma non posso credere che ci abbia mandate in un luogo simile!».

    «Non piace nemmeno a me, ma così è stato deciso. A quanto pare non abbiamo scelta», affermò Alenda, sorpresa lei stessa dal proprio coraggio.

    «So che siete stanca di sentirvelo dire, ma continuo a pensare che tutto questo sia un errore. Non dovremmo trattare con dei ladri. Non ci si può fidare di loro, milady. Ricordatevi le mie parole: quelli che avete assoldato vi deruberanno come derubano chiunque altro».

    «Comunque sia, adesso siamo qua, per cui diamoci una mossa». Alenda aprì lo sportello della carrozza e scese in strada. Con la coda dell’occhio vide che molti sfaccendati che si aggiravano nei dintorni la osservavano con attenzione. L’ansia si impadronì di lei.

    «Fa un tenente d’argento», le disse il cocchiere, un uomo burbero e attempato, che non si radeva da giorni. Gli occhi a feritoia erano orlati da una ragnatela di rughe così fitte da indurre Alenda a chiedersi come riuscisse a condurre la carrozza.

    «Oh, capisco. Ma pensavo di pagarvi alla fine del viaggio», spiegò Alenda. «Ci fermeremo qui solo per una breve sosta».

    «Se volete che vi aspetti, vi costerà di più. E voglio subito quello che mi dovete, nel caso decideste di non tornare».

    «Non siate assurdo. Vi assicuro che torneremo».

    L’espressione del volto dell’uomo restò impassibile. E a commento delle parole di Alenda, si sporse oltre la carrozza e sputò ai piedi della donna.

    «Ehi! Questa poi!». Alenda estrasse una moneta dalla borsa e la porse al cocchiere. «Ecco, tenete, ma non allontanatevi. Non so con precisione quanto ci fermeremo, ma come vi ho detto, torneremo».

    Emily scese dalla carrozza e si affrettò a sistemare il cappuccio di Alenda e ad assicurarsi che il mantello della sua signora fosse ben chiuso. Quindi lisciò le pieghe del lungo indumento e ripeté ogni gesto su se stessa.

    «Quanto mi piacerebbe poter rivelare il mio nome a quello stupido cocchiere», sussurrò Alenda. «E poi dirgli due paroline».

    Le due donne indossavano mantelli di lana, che una volta sollevato il cappuccio le nascondevano completamente. Alenda fulminò Emily con lo sguardo e allontanò le mani nervose di quest’ultima.

    «Smettila di fare la chioccia, Emmy. Non sarà la prima volta che delle donne entrano in questo posto».

    «Delle donne no, ma delle signore sì».

    Appena ebbero superato la stretta porta di legno, vennero investite da un odore pungente di fumo e alcol, e da un puzzo che Alenda aveva sentito solo un’altra volta in una latrina. Il frastuono di una ventina di conversazioni che lottavano per la supremazia riempiva la sala, mentre un violinista strimpellava un allegro motivetto. Davanti a un bancone, una folla esigua ballava, pestando con vigore i tacchi sul pavimento di legno imbarcato e battendo il ritmo per la giga. Bicchieri tintinnavano, pugni sbattevano sui tavoli, e gli avventori ridevano e cantavano a squarciagola.

    «E adesso che cosa facciamo?». La voce di Emily la raggiunse dalle profondità del cappuccio di lana.

    «Cerchiamo il visconte, no? Stammi vicina».

    Alenda afferrò la mano di Emily e la guidò in una gimcana tra tavoli, danzatori e un cane impegnato a leccare la birra caduta a terra. Alenda non era mai stata in un luogo simile. Ovunque girasse lo sguardo vedeva uomini disgustosi. La maggior parte era vestita di stracci, e non pochi erano scalzi. Individuò solo quattro donne in tutto il locale; erano tutte cameriere, vestite in modo succinto con sottane lacere e scollature vertiginose. Alenda pensò che un simile abbigliamento fosse un invito al palpeggiamento da parte degli uomini. Un bestione sdentato e peloso afferrò una cameriera per la vita e se la trascinò in grembo, dove cominciò a toccarla ovunque. Alenda restò sconvolta nel vedere la ragazza ridacchiare invece che gridare.

    Infine Alenda lo vide. Il visconte Albert Winslow non indossava gli abituali farsetto e brache, ma portava una semplice camicia di tessuto spesso, pantaloni di lana e un panciotto in camoscio. Tuttavia, il suo abbigliamento non era completamente privo di dettagli cari alla nobiltà; ostentava infatti, un delizioso, seppur vistoso, cappello ornato di piume. Era seduto a un tavolino in compagnia di un uomo dalla folta barba nera e abiti dimessi.

    Nel vederle avvicinarsi, Winslow si alzò e tirò indietro le sedie per loro. «Benvenute, signore», salutò sorridendo. «Sono felice che abbiate potuto raggiungermi. Vi prego, sedetevi. Posso ordinarvi qualcosa da bere?».

    «No, grazie», rispose Alenda. «Non vorrei fermarmi molto. Il mio cocchiere è un uomo tutt’altro che riguardoso, pertanto vorrei chiudere la questione al più presto prima che lui decida di abbandonarci qua».

    «Capisco e approvo, Vostra Eccellenza. Ma purtroppo devo comunicarvi che la vostra consegna non è ancora giunta».

    «No?». Alenda sentì Emily stringerle la mano in segno di sostegno. «Qualcosa non va?».

    «Non lo so, purtroppo. Vedete, non conosco i meccanismi interni di questa operazione. Non è mia abitudine preoccuparmi di simili sciocchezze. Desidero tuttavia che sappiate, che non era un lavoro facile. Potevano insorgere mille difficoltà capaci di creare ritardi. Davvero non posso ordinare nulla per voi?».

    «Vi ringrazio, ma no», replicò Alenda.

    «Almeno sedetevi, vi prego».

    Alenda lanciò uno sguardo a Emily, i cui occhi erano colmi di apprensione. Si sedettero e nel farlo, Alenda le sussurrò: «Lo so, lo so. Non dovrei trattare con i ladri».

    «Tranquilla, Vostra Eccellenza», disse il visconte rassicurandola. «Non vi avrei fatto sprecare tempo e denaro, e nemmeno avrei messo a rischio la vostra posizione sociale se non fossi più che sicuro del risultato finale».

    L’uomo barbuto seduto al tavolo ridacchiò sommessamente. Portava abiti scuri e trasandati e aveva la pelle colore del cuoio. Le mani enormi erano sporche e callose. Alenda lo guardò portarsi il boccale alla bocca. Quando allontanò il bicchiere, gocce di birra scivolarono lungo i folti baffi per poi colare sul tavolo. Quell’uomo non le piaceva.

    «Lui è Mastro Grumon», spiegò Winslow. «Chiedo scusa per non avervelo presentato subito. Grumon è un fabbro e lavora propria qui, nel Quartiere Inferiore di Medford. È… un amico».

    «Quei tizi che avete ingaggiato sono molto bravi», affermò Grumon. La sua voce ricordò ad Alenda il rumore prodotto dalle ruote della carrozza sulla pietra frantumata.

    «Davvero?», domandò Emily. «Saprebbero rubare l’antico tesoro di Glenmorgan dalla Torre della Corona di Ervanon?».

    «Cosa?», chiese Winslow.

    «Una volta ho sentito parlare di ladri che avevano rubato il tesoro dalla Torre della Corona di Ervanon per poi rimetterlo al suo posto la notte successiva», spiegò Emily.

    «Perché mai uno dovrebbe fare una cosa simile?», intervenne Alenda.

    Il visconte ridacchiò divertito. «Scommetto che è solo una leggenda. Nessun ladro con un po’ di sale in zucca si comporterebbe in quel modo. La maggior parte della gente non capisce la mentalità dei ladri. La verità è che rubano per riempirsi le tasche. Si introducono nelle case o assaltano i viaggiatori in cammino. Quelli più arditi si spingono a rapire i nobili e a tenerli in ostaggio per ottenere un riscatto. A volte, arrivano a tagliare un dito della vittima e a mandarlo ai suoi cari a riprova di quanto siano pericolosi e di quanto facciano sul serio. In generale, sono loschi individui ai quali importa solo arricchirsi con il minor sforzo possibile».

    Alenda sentì una seconda stretta alla mano. Questa volta così forte da farla sussultare.

    «Ma i ladri migliori, quelli più abili e dotati, si sono riuniti in corporazioni, un po’ come i muratori o i falegnami sebbene, ovviamente, si muovano con più segretezza e discrezione. Sono molto organizzati e il furto è per loro una professione a tutti gli effetti dalla quale traggono profitto. Controllano dei territori nei quali mantengono il monopolio sui furti. Spesso sono in combutta con la milizia locale o addirittura i signori del luogo, che permettono loro di lavorare abbastanza liberamente su pagamento di una tariffa fissa e a patto che evitino determinati obiettivi e si attengano a norme comunemente accettate».

    «Ma che norme possono mai esistere tra funzionari di una provincia e dei ladri?», domandò Alenda in tono scettico.

    «Oh, rimarreste sorpresa se sapeste a quanti compromessi si scende per mantenere un regno tranquillo e funzionante. Tuttavia, esiste un altro tipo di malfattore: il professionista indipendente o, in poche parole, il ladro su commissione. Si tratta di malviventi assoldati per un incarico particolare, come sottrarre un oggetto in mano a un nobile. Codici d’onore, o la paura dell’imbarazzo», disse ammiccando, «spingono alcuni nobili e ricchi mercanti a cercare l’aiuto di simili professionisti».

    «Quindi rubano qualsiasi cosa per chiunque?», domandò Alenda. «Mi riferisco a quelli che avete ingaggiato per me».

    «No, non per chiunque; solo per quelli disposti a sborsare somme elevate».

    «Allora a loro non importa se il cliente è un fuorilegge o un re», s’intromise Emily.

    Grumon sbuffò. «Fuorilegge o re, che differenza fa?». E si esibì in un sorriso che scoprì una bocca sdentata.

    Disgustata, Alenda riportò l’attenzione su Winslow. Quest’ultimo guardava verso la porta, cercando di vedere oltre gli avventori della taverna. «Vi chiedo scusa, signore», disse, alzandosi bruscamente. «Ho bisogno di bere, e sembrano tutti impegnati. Occupati delle signore, Grumon, d’accordo?».

    «Non sono una dannatissima balia, vecchio barbagianni idiota!», gridò Grumon in direzione del visconte, mentre quest’ultimo si allontanava dal tavolo e s’infilava tra la folla.

    «Io…io non vi permetto di riferirvi in modo simile a Sua Eccellenza», dichiarò Emily in tono baldanzoso rivolgendosi al fabbro. «Non è una poppante. È una nobildonna e voi, farete meglio a stare al vostro posto».

    Il volto di Grumon si oscurò. «Questo è il mio posto. Abito a cinque dannatissime porte di distanza. Mio padre ha contribuito a costruire questo maledetto posto. Mio fratello lavora qui dentro come sguattero. Anche mia madre ha lavorato qua fino a quando non è stata investita da una delle vostre fottutissime carrozze. Questo è il mio posto. Siete voi quelle che devono ricordarsi dove sono». Grumon batté il pugno sul tavolo con tale violenza da fare sussultare le due donne.

    Alenda avvicinò Emily a sé. In che guaio mi sono cacciata? Cominciava a pensare che Emily avesse ragione. Non avrebbe mai dovuto fidarsi di quel Winslow. Non sapeva davvero niente di lui, se non che aveva partecipato al Gala d’Autunno di Aquesta come ospite di Lord Daref. Tra tutte le persone, proprio lei avrebbe dovuto avere imparato che non tutti i nobili erano nobili anche di fatto.

    Restarono in silenzio fino al ritorno di Winslow.

    «Signore, volete seguirmi?», invitò il visconte.

    «Che cosa c’è?», domandò Alenda, preoccupata.

    «Vi prego, seguitemi. Da questa parte».

    Alenda ed Emily lasciarono il tavolo e seguirono Winslow attraverso nubi di fumo di pipa e ballerini, cani e ubriachi fino alla porta sul retro. Ciò che apparve dietro alla taverna rese piacevole e meraviglioso quel che avevano sopportato fino ad allora. Sbucarono in un vicolo al di là dell’immaginabile. Rifiuti e immondizia ricoprivano il terreno e gli escrementi, gettati dalle finestre soprastanti, si mischiavano al fango in un canale a cielo aperto. Assi di legno, utilizzati come ponticelli, si allungavano sopra il puzzolente fiume di melma, obbligando le due donne e sollevare le gonne oltre le caviglie mentre avanzavano.

    Un ratto enorme sfrecciò da una catasta di legno e raggiunse due suoi simili nel liquame. «Che cosa ci facciamo in questo vicolo?», sussurrò Emily ad Alenda con voce tremante.

    «Non lo so», rispose Alenda, sforzandosi di controllare la paura. «Temo avessi ragione, Emily. Non avrei mai dovuto trattare con questa gente. Al diavolo quello che dice il visconte. La verità è che quelli come noi non dovrebbero fare affari con quelli come loro».

    Il visconte le condusse oltre una staccionata di legno e al di là di un paio di baracche fino a una misera stalla. Il rifugio era poco più che una capanna con quattro box, forniti di paglia e secchio d’acqua.

    «È un piacere rivedervi, Vostra Signoria». Un uomo all’entrata si rivolse a lei.

    Alenda riconobbe quello alto dei due, ma non riuscì a ricordarne il nome. Li aveva visti solo per pochi istanti nel corso di un incontro organizzato dal visconte che aveva avuto luogo su una strada solitaria in una notte ancora più buia di quella. Ora, con la luna quasi piena e il cappuccio gettato indietro, riuscì a distinguerne i lineamenti del viso. Era alto, rozzo nell’aspetto e nell’abbigliamento ma non sgarbato o minaccioso nei modi. Rughe, forse provocate dalle troppe risate, si allargavano dagli angoli degli occhi. Aveva un modo di porsi cordiale, persino amichevole. Alenda non poté fare a meno di pensare che era attraente, e che mai si sarebbe aspettata di trovare una persona simile in quel luogo. L’uomo indossava cuoio e lana macchiati di fango ed era armato fino ai denti. Sul fianco sinistro portava una spada corta dall’elsa disadorna. Su quello destro, sfoggiava una spada ugualmente semplice seppur più lunga e larga. Infine, dalla schiena pendeva una lama imponente, alta quasi quanto lui.

    «Mi chiamo Hadrian, qualora lo abbiate dimenticato», disse e accompagnò le parole con un breve inchino. «E chi è questa deliziosa creatura insieme a voi?».

    «Lei è Emily, la mia ancella».

    «Un’ancella?». Hadrian simulò sorpresa. «La vostra bellezza è tale che avrei detto foste una duchessa».

    Emily reclinò il capo, e per la prima volta nel corso di quella giornata, Alenda la vide sorridere.

    «Spero che l’attesa non sia stata troppo estenuante. Il visconte mi ha detto che lui e Grumon vi hanno tenuto compagnia».

    «Sì, esatto».

    «Il signor Grumon vi ha raccontato la storia della sua povera madre investita da una carrozza reale?».

    «Proprio così. E devo dire…».

    Hadrian sollevò le mani in finta difesa. «La madre di Grumon è viva e vegeta. Vive nella Strada degli Artigiani in una casa decisamente più graziosa della stamberga in cui abita Grumon. Non ha mai fatto la cuoca alla taverna Rosaspina. Lui racconta quella storia a tutti i gentiluomini e le dame che incontra per metterli sulla difensiva e farli sentire in colpa. Vi porgo le mie scuse».

    «Vi ringrazio. È stato piuttosto sgarbato e ho trovato le sue parole alquanto inquietanti, ma ora…», Alenda si fermò. «Avete… voglio dire… Siete riuscito a prenderle?».

    Hadrian le sorrise; poi, girandosi, gridò in direzione della stalla.

    «Royce?».

    «Se tu sapessi fare un nodo come si deve, non ci metterei tutto questo tempo», rispose una voce dall’interno. Dopo qualche istante, l’altra metà del duo emerse e li raggiunse. Era più basso di Hadrian e aveva lineamenti eleganti, e capelli e occhi scuri. Era vestito di nero con una giubba che arrivava al ginocchio e un lungo mantello fluttuante che lo seguiva come un’ombra. Non una sola spada era visibile. Nonostante la corporatura più minuta e l’apparente mancanza di armi, Alenda temeva quell’uomo. Gli occhi gelidi, il volto impassibile, e i modi bruschi avevano il calore di un predatore.

    Dalla giubba, Royce estrasse un fascio di lettere legato con un nastro blu. Porgendolo ad Alenda disse: «Mettere le mani su queste lettere prima che Ballentyne le consegnasse a vostro padre non è stato facile. Siamo andati a un soffio dalla sconfitta, ma poi siamo usciti vittoriosi. Forse vi converrà bruciarle prima che cadano nuovamente nelle mani sbagliate».

    Alenda restò a fissare il pacco di lettere, finché un sorriso di sollievo le illuminò il viso. «Io… non riesco a crederci! Non so come ci siate riusciti, e come ringraziarvi!».

    «Pagarci sarebbe sufficiente», replicò Royce.

    «Oh sì, certo». Alenda porse le lettere a Emily, slacciò la piccola borsa che portava in vita e la porse al ladro. Quest’ultimo controllò brevemente il contenuto, richiuse la borsa e la lanciò a Hadrian, che la infilò in saccoccia mentre si dirigeva verso la stalla.

    «Dovrete stare molto attenta. Voi e Gaunt state giocando un gioco molto pericoloso», affermò Royce.

    «Avete letto le lettere?», domandò Alenda, timorosa.

    «No. Non ci avete pagato così tanto».

    «E allora come fate a…».

    «Abbiamo sentito vostro padre e Archibald Ballentyne. Il marchese sembrava non credere alle accuse del conte, ma probabilmente è proprio il contrario. Lettere o non lettere, vostro padre ora vi terrà sotto stretto controllo. Tuttavia, il marchese è un brav’uomo. Farà la cosa giusta. Scommetto che è così sollevato dal fatto che Ballentyne non possieda le prove da portare a corte, che la vostra relazione non lo preoccuperà più di tanto. Comunque sia, come ho già detto, in futuro farete meglio a stare più attenta».

    «Come può uno come voi permettersi di parlare di mio padre?».

    «Oh, scusate. Ho detto vostro padre? Mi riferivo all’altro marchese, quello con la figlia riconoscente».

    Per Alenda fu come uno schiaffo in pieno viso.

    «Stai facendoti ancora nuovi amici, Royce?», domandò Hadrian conducendo due cavalli fuori dalle stalle. «Perdonate il mio amico. È stato cresciuto dai lupi».

    «Quelli sono cavalli di mio padre!».

    Hadrian annuì. «Abbiamo abbandonato la carrozza dietro a una macchia di rovi vicino al ponte sul fiume. Tra le altre cose, temo di avere allargato uno dei farsetti di vostro padre. L’ho lasciato nella carrozza insieme alle altre cose sue».

    «Avete indossato gli abiti di mio padre?».

    «Ve l’ho detto», affermò Royce, «siamo andati a un soffio dalla sconfitta».

    La chiamavano la Stanza Oscura a causa degli affari che venivano condotti tra le sue mura, ma in realtà la stanzetta sul retro della taverna Rosaspina era tutt’altro che oscura. Numerose candele disposte in candelieri da parete e sul tavolo, insieme a un bel fuoco scoppiettante, emanavano una luce calda e accogliente. Una fila di pignatte di rame, in ricordo dei giorni in cui la Stanza Oscura era adibita a dispensa, erano appese a una trave di legno. Lo spazio bastava appena per un tavolo e una manciata di sedie, ma era più che sufficiente per i loro obiettivi.

    La porta si aprì e un gruppetto di persone entrò nella stanza. Royce si versò un bicchiere di vino, si sedette vicino al camino, si tolse gli stivali, e agitò le dita davanti al fuoco. Hadrian, il visconte Albert Winslow, Mastro Grumon e una donna giovane e graziosa optarono per le sedie intorno al tavolo. Gwen, la proprietaria della taverna, preparava sempre un delizioso banchetto quando tornavano da una missione, e quella sera non faceva eccezione. L’offerta del giorno includeva una brocca di birra, un pezzo enorme di carne arrosto, una forma di pane dolce appena sfornato, patate bollite, un tagliere di formaggio, carote, cipolle e i saporiti sottaceti conservati in un barile solitamente posto dietro al bancone del locale. Per Royce e Hadrian, Gwen non badava a spese e la prova ne era la bottiglia di Montemorcey, un vino che importava da Vandon e di cui era sempre provvista, poiché era il preferito di Royce. Nonostante

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