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Italiani Imperfetti
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E-book288 pagine3 ore

Italiani Imperfetti

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Info su questo ebook

Luciana Pacifici aveva appena otto mesi quando, il 30 gennaio 1944, da Milano fu deportata ad Auschwitz. Assieme a lei c'erano anche il cugino Paolo Procaccia di quattro mesi più grande, i genitori, gli zii e i nonni. In tutto nove persone. Nove ebrei provenienti da Napoli, la città dalla quale erano fuggiti nell'agosto 1943 a causa dei devastanti bombardamenti. La loro tragica e beffarda storia non è solo quella di tre generazioni spezzate dalle politiche di sterminio del popolo ebraico, di cui la RSI di Mussolini fu attiva protagonista, ma anche quella della piccola Comunità partenopea che solo per una fortuita serie di coincidenze non ebbe a conoscere il lugubre significato della locuzione tedesca Endlösung der Judenfrage. Da sfondo ad una storia di ordinaria quotidianità, che nel giro di appena cinque anni si trasformerà in tragedia per tre famiglie (Procaccia, Pacifici e Molco), c'è la Napoli del ventennio nero, della guerra e dei bombardamenti a tappeto. Ma anche quell'Italia che si è sempre rifiutata di fare i conti con il proprio passato, lasciandoci in eredità una narrazione falsa e fuorviante, che – salvo rare eccezioni – ha ben poco in comune con la realtà dei fatti.
LinguaItaliano
Data di uscita28 dic 2022
ISBN9791221443196
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    Italiani Imperfetti - Nico Pirozzi

    1. Accadde un lunedì d’inverno

    L’indirizzo a cui portava quella lettera era lì, in quella corte battuta da folate di vento gelido che implacabile calava dai monti Pisani.

    Non si scorgevano, ma erano sicuramente rintanati in quelle due stanze al piano terra, che, alcuni mesi prima, una coppia di sfollati livornesi aveva chiesto in affitto alla signora Vittoria¹ per conto di un gruppo di loro parenti che presto sarebbero giunti da Napoli.

    Cerasomma, piccolo borgo medievale ai piedi del monte Maggiore, a confine tra la provincia di Lucca e quella di Pisa. Il calendario dice che il 6 dicembre del penultimo anno di guerra capitava di lunedì. Un inizio di settimana freddo come non mai. Reso ancora più pungente e insopportabile dal clima che da alcune settimane si cominciava a respirare in Toscana dopo i primi rastrellamenti di ebrei a Firenze, Siena e Montecatini.

    Chi si trovò ad essere inconsapevole testimone di quanto accadde quella giornata riferisce che era già buio. Il rombo di un motore, forse di un camion, l’aveva fatto sobbalzare. Scrutando nell’oscurità, notò un gruppo di uomini in borghese, due forse tre persone, sicuramente discesi da quell’automezzo che era fuori dalla sua vista. Scorse anche che, con passo sicuro, si diressero verso l’uscio di una casa che si trovava all’interno di una piccola corte. Una casa uguale a tante altre.

    «Aprite!» L’ordine perentorio che si udì, era più assordante di un tuono. E a sentirlo fu anche chi si trovava in quella casa.

    «Chi sono?... Cosa vogliono?...» bisbigliò Elda² rivolta alla mamma Jole³, quasi implorando una risposta in grado di rassicurare lei e la creaturina che stringeva tra le braccia.

    Cosa stessero cercando quegli sconosciuti lo sapeva bene l’uomo che reggeva tra le mani un foglio che il vento voleva strappargli di mano. Era quella stessa pagina di quaderno che, qualche giorno prima, Loris⁴ aveva utilizzato per scrivere al fratello Arnoldo⁵. La lettera in cui «chiedeva un sostegno economico».

    Sì, Loris aveva bisogno di soldi, «ma era stato uno stupido a farlo in quel modo. Una lettera poteva finire nelle mani di chiunque. Anche in quelle sbagliate. Quel sostegno economico di cui aveva bisogno avrebbe dovuto chiederlo di persona, essendo Viareggio non lontana da Cerasomma. E lui, Arnoldo, non avrebbe avuto alcuna difficoltà a concederlo»⁶.

    Ciò che non doveva accadere era purtroppo successo. Ed ora era lì, impotente e muto, ad ascoltare i commenti sarcastici di quegli uomini che parlavano la sua stessa lingua. Il suo stesso dialetto.

    Amedeo⁷, il più anziano del gruppo, che di Mussolini e del fascismo era stato un convinto sostenitore e ammiratore, fu il primo a uscire.

    Chi lo vide lo ricorda molto più vecchio dei suoi 62 anni. Inutilmente ossequioso nei confronti di quegli sconosciuti.

    No, non vi furono convenevoli, ma solo ordini. Comandi bruschi.

    «Lo sappiamo! Siete degli ebrei! Siete tutti in arresto!»

    «Forza, uscite tutti fuori! Non fateci perdere dell’altro tempo!»

    «Ci sono anche dei bambini molto piccoli… Lasciateci perdere… Siamo persone perbene... Non abbiamo mai fatto del male a…», ad Amedeo non fu concesso nemmeno di concludere la frase.

    «Ora basta! Tutti fuori! Sì, anche i bambini.»

    Quando tutti, con le mani bene in vista, furono all’esterno dal cortile, colui che sembrava essere il capo del gruppetto di miliziani, entrò nella stanza per controllare se all’interno si nascondesse qualcun altro. Quel che invece trovò fu solo un vecchio e malandato cassettone e uno sbilenco mobile che fungeva da dispensa.

    «Forza, prendete le vostre cose e seguiteci senza fare troppe storie!»

    Che la guerra stesse andando male per i tedeschi e i loro alleati fascisti non c’era certo bisogno del notiziario di Radio Londra per capirlo. Per le identiche ragioni non vi era la necessità di un manifesto per ricordare a Loris, Aldo e Amedeo che le cose per gli ebrei stavano procedendo di male in peggio. Ma quello che stava loro accadendo in quella stanza era inimmaginabile. Imprevedibile anche per il più nefasto degli scenari.

    Certamente erano al corrente della liberazione di Mussolini ad opera dei tedeschi e anche della nascita della Repubblica Sociale Italiana. Qualcuno di loro aveva probabilmente letto o saputo di quell’ordinanza⁸ emessa, meno di una settimana prima, che inaspriva ancor di più la legislazione antiebraica. Ma che si giungesse a mandare in un campo di concentramento anche dei neonati questo era davvero impensabile. Anche in un paese che – come asseriva il ministro dell’Interno Guido Buffarini Guidi – considerava gli appartenenti alla razza ebraica «stranieri e, in questa guerra, nemici»⁹.

    Amedeo, suo figlio Aldo¹⁰ e il genero Loris capirono che insistere non sarebbe servito a niente. Chi invece non si rassegnò furono le tre donne, che disperate e in lacrime entravano e uscivano da quella che per cento giorni era stata la loro casa.

    Al gruppo di ebrei venne concessa non più di mezz’ora per raccogliere le cose che ebbero il permesso di portar via¹¹: un paio di valigie e qualche capiente zaino, dove racchiudere anche tutta la rabbia e la disperazione, che solo chi si vede minacciato il diritto stesso di esistere, può provare.

    Decidere dove andare, dopo quella rumorosa e inaspettata visita, non toccò né ad Amedeo, né al figlio Aldo. E nemmeno a Loris, che il mondo se lo era visto crollare addosso nel momento stesso in cui aveva sentito quei passi avvicinarsi all’uscio di casa. Un luogo che, con troppa ingenuità, aveva ritenuto sicuro, solo perché lontano dalle bombe che avevano ridotto in cenere Napoli.

    Strada da fare non ve ne fu molta: solo poche decine di metri, fino al vecchio furgone coperto, parcheggiato al centro della piazzetta antistante l’antica chiesetta di san Pietro apostolo.

    Un brevissimo tratto di strada che, con lo sguardo, seguì anche l’involontario testimone. Aldo fu il primo a salire. Tese la mano al padre, Amedeo, che dapprima gli porse la grossa valigia che si trascinava dietro sin dal giorno che era partito da Napoli. Poi fu la volta di Jole, che – si racconta – appariva più preoccupata per ciò che era stata costretta ad abbandonare in quelle due stanze, che non per la prospettiva di finire in un campo di internamento. Elda e Milla¹² non ebbero, invece, che occhi per Paolo¹³ e Luciana¹⁴: i loro bambini. Li sollevarono con cura dal loro giaciglio, preoccupandosi di non svegliarli. Quindi, prima una e poi l’altra, li passarono ad Aldo, che li affidò ad Amedeo e Loris, prima che ritornassero nelle braccia delle rispettive madri. L’ultimo a prendere posto fu Loris, con un pesante zaino sulle spalle e una grossa valigia scura che reggeva a fatica. Ingombra, per metà, di tutto ciò che può occorrere a un neonato.

    Mentre lo sguardo di un gruppo di ebrei impauriti e infreddoliti scivolava sulle ultime case di un borgo che per tre mesi aveva dato loro un fallace senso di sicurezza, qualche centinaio di metri più in alto, dove solo chi conosce i luoghi è in grado di muoversi e orientarsi, Gioela, un’adolescente della zona, si apprestava a trascorrere l’ennesima notte tra i boschi, dopo una giornata passata a cercare cibo e notizie. Sessantasei anni dopo, Gioela era ancora lì, in quella piazzetta davanti alla chiesa, a guardare quella montagna e quei boschi. Non aveva dimenticato niente: la paura, la fame, il freddo… E, probabilmente, anche una nuvola di fumo nero che, quella notte di inizio inverno, sprigionava un vecchio camion, lungo la strada che da Cerasomma corre verso i monti della Garfagnana.

    ___________________

    ¹ Vittoria Casini in Matteucci.

    ² Elda Procaccia (erroneamente registrata Procacci) in Pacifici (Napoli, 7 maggio 1919 - morta in luogo e data sconosciuti, dopo la deportazione ad Auschwitz).

    ³ Jole Benedetti in Procaccia (Firenze, 28 maggio 1884 - Auschwitz, 6 febbraio 1944).

    ⁴ Loris Pacifici (Livorno, 3 giugno 1910 - Auschwitz, 6 febbraio 1944).

    ⁵ Arnoldo Pacifici (Livorno, 4 maggio 1906 - Soresina 11 marzo 1986).

    ⁶ A spiegare le ragioni che, presumibilmente, portarono all’arresto di Loris Pacifici, della figlia, della moglie e di altri cinque membri della famiglia Procaccia è stato Irio Milla (nipote, da parte della mamma Leda, di Arnoldo Pacifici) nel corso della cerimonia che, il 17 novembre 2015, fu organizzata in occasione della titolazione della strada che, a Napoli, porta il nome di Luciana Pacifici.

    ⁷ Amedeo Sabatino Procaccia (Firenze, 20 giugno 1881 - Auschwitz, 6 febbraio 1944).

    ⁸ Ordinanza di Polizia n. 5 del 30 novembre 1943.

    ⁹ La notizia era apparsa anche sull’edizione del 2 dicembre 1943 del quotidiano La Nazione, all’epoca diretto da Mirko Giobbe.

    ¹⁰ Aldo Procaccia (Firenze, 5 novembre 1905. Morto in luogo e data sconosciuti, dopo la deportazione ad Auschwitz).

    ¹¹ Le istruzioni del ministro Buffarini Guidi, contenute nell’ordinanza del 30 novembre, erano chiare: tutti i beni mobili e immobili degli ebrei «debbono essere sottoposti a immediato sequestro in attesa di essere confiscati nell’interesse della Repubblica Sociale Italiana».

    ¹² Milena Modigliani in Procaccia (Livorno, 8 settembre 1915 - Auschwitz, data ignota).

    ¹³ Paolo Procaccia (Napoli, 3 gennaio 1943 - Auschwitz, 6 febbraio 1944).

    ¹⁴ Luciana Elisa Jole Pacifici (Napoli, 28 maggio 1943 - Auschwitz, 6 febbraio 1944).

    2. Frammenti di una storia ritrovata

    Montuolo, Cerasomma, Villa Rossi, Fagnano, Meati… nomi, quelli dei piccoli borghi di campagna della lucchesia occidentale, che, probabilmente, Amedeo Procaccia non aveva mai udito, quando a fine primavera del 1943, il figlio Aldo gli prospettò la possibilità di trasferirsi in una di quelle località, lontana dalle bombe, dove i suoceri, Emma Benedetti e Gino Modigliani, erano sfollati subito dopo la disastrosa incursione aerea che, il 28 maggio, aveva ridotto in cenere Livorno, la città in cui vivevano.

    Chi invece quei nomi li conosceva bene erano Loris e Sergio¹, i mariti delle due figlie di Amedeo e Jole, che non lontano da lì, avevano trascorso gran parte della loro vita. Di quelle contrade che appaiono e scompaiono lungo la via Pisana, dove i genitori di Loris si recavano per acquistare l’olio e altre prelibatezze, conoscevano quasi tutto. L’idea di trasferirsi provvisoriamente in quelle contrade, distanti dalla città quel tanto che basta per non finire nel mirino dei bombardieri, non dovette perciò apparire per nulla strampalata.

    Un’ora e mezza di bicicletta è, infatti, più che sufficiente per raggiungere Viareggio. La stessa città nella quale Loris aveva comunicato di andare, quando, ad agosto, decise di non tornare più a Tora e Piccilli, la località dell’alto Casertano dove i fascisti l’avevano spedito a spostare sassi, rivoltare le zolle e ripulire dalle erbacce le campagne del podestà Ciro Maffuccini, allo scopo di togliere «dalla circolazione individui che rappresentano un peso morto nella vita italiana e che offendono con la loro oziosa esistenza»².

    Nelle loro periodiche trasferte a Viareggio ai due amici capitava – non spesso a dire il vero – di passare per via Machiavelli, dove, fino a qualche decennio prima, troneggiava l’insegna della Croce Verde, l’associazione laica e di volontariato (notoriamente antifascista) di cui Ruggero Pacifici, il papà di Loris, era stato uno dei più munifici e intraprendenti animatori. E loro – il figlio e l’amico Sergio – avevano avuto il tempo di iscriversi al gruppo giovanile prima che una legge del Regno³ sopprimesse (o trasformasse in sottocomitati della Croce Rossa) tutte le Pubbliche Assistenze che avevano forma giuridica, confiscandone il patrimonio.

    Se per Loris la permanenza in Campania era quantomeno giustificata dal provvedimento di precettazione per il lavoro obbligatorio del settembre 1942, non altrettanto si può dire per i suoceri, i cognati e le cognate dell’uomo.

    A rimandare la partenza non era solo Amedeo, fiducioso che tutto si sarebbe concluso in tempi brevi, ma anche Aldo e Sergio.

    A rimettere tutto in discussione fu il disastroso bombardamento che il penultimo sabato di febbraio aveva ridotto in macerie via Duomo, Forcella e l’intera zona che si affaccia sul decumano maggiore, danneggiando anche la casa di piazza della Borsa. Fu allora che Amedeo maturò la decisione di lasciare la città. Come migliaia di altri napoletani, e non senza difficoltà, sfollò in periferia.⁴ Perché la scelta ricadde su Bellavista, nella parte alta della città di Portici, non ci sono testimoni che oggi potrebbero essere in grado di spiegarlo. Probabilmente lì, all’ombra del Vesuvio, a due passi dalla residenza estiva dei Borbone e dai ruderi dell’antica Hercolanum, si sentiva più al sicuro che altrove, nonostante le bombe che – comunque – continuavano a seminare morte e distruzione anche nella cittadina vesuviana. C’è anche da dire che la località dove si trasferì era, sotto molti aspetti, ideale per una persona che aveva la necessità di raggiungere quotidianamente la città. A collegare Bellavista a Napoli c’erano, infatti, la Circumvesuviana o la 57. Il trenino o la tramvia che Amedeo (ma anche la figlia Elda, che in quel periodo aveva iniziato a lavorare dopo aver conseguito il diploma di computista commerciale)⁵ poteva prendere per raggiungere in breve tempo piazza Garibaldi e da lì, in una decina di minuti a piedi, arrivare a piazza della Borsa, in quella che, nell’ultimo quarto di secolo, era stata la sua casa e la cassaforte dei suoi ricordi.

    Nato nello stesso anno in cui a Napoli apriva gli occhi al mondo Gaetano Azzariti, il figlio di Angiolo Procaccia e Fortunata Disegni ebbe un’infanzia e un’adolescenza assai meno agiata del suo più famoso coetaneo partenopeo, che cinquantotto anni più tardi sarà chiamato a presiedere il Tribunale della razza.

    Dell’adolescenza di Amedeo non conosciamo praticamente nulla. Qualcosa in più sappiamo, invece, della sua vita da adulto. Informazioni, ricavate da uno stato di famiglia, da un certificato di buona e morale condotta rilasciati dal Comune di Firenze nel gennaio e nell’agosto 1917, da un certificato penale redatto dal tribunale del capoluogo toscano nel luglio dello stesso anno e dalle notizie contenute nell’autocandidatura a shammash della sinagoga di Napoli.

    Apprendiamo che la sua professione era quella di falegname. O meglio di stipettaio: un artigiano specializzato nella fabbricazione e nella riparazione di sportelli e cassettoni in legno. Intorno ai vent’anni potrebbe aver ricevuto il consenso a frequentare Jole, la maggiore dei sette figli di David Benedetti ed Enrichetta Lopes Pegna, probabilmente sua parente,⁸ con la quale convolò a nozze il 4 dicembre 1904.

    Un cognome – Benedetti – ben conosciuto tra le anguste viuzze di quello che per oltre tre secoli è stato il Ghetto di Firenze: «un groviglio di vicoli stretti, tortuosi, bui che sfociavano in due piazze, congiunte tra loro da un arco», sulla cui «porta principale erano scolpite le armi di Cosimo I e quelle di suo figlio Francesco e una scritta che sottolineava quanto grande fosse stata la loro benemerenza nell’accogliere gli ebrei in quel luogo, invece di cacciarli dallo Stato, come avrebbero meritato»⁹.

    Il nonno del nonno paterno di Jole – Davide (Baruch) – morto nel marzo del 1856, a sessant’anni, di professione stampatore, e la moglie Eva Caivano, governante di parto, sua coetanea, occupavano una casa del Ghetto, quella contrassegnata dal numero 14. Un’abitazione che – come riporta il censimento del 1841 – condividevano con la figlia Allegra e due nipoti: Jacob ed Eva Elvira di 17 e 12 anni.¹⁰

    Dove fossero andati a vivere Amedeo e Jole, una volta sposati, non è semplice da dirsi. Probabilmente non si allontanarono mai dai luoghi ove l’uomo esercitava il mestiere di artigiano. È invece documentato che, dodici anni dopo, nel gennaio del 1917, i coniugi avevano stabilito la loro residenza al secondo piano del civico 19 di via dei Mannelli. È probabilmente qui, in questa casa che sorgeva nella periferia sud-orientale del capoluogo toscano, a ridosso della linea ferroviaria che collega Roma a Firenze, che nel novembre 1905 è nato Aldo.

    Nonostante le ristrettezze economiche con le quali era quotidianamente costretta a confrontarsi la coppia,¹¹ è verosimile che al loro primogenito Jole e Amedeo non vollero far mancare il piccolo ciondolo d’argento¹² che aveva la funzione di proteggerne l’esistenza. E nemmeno la festa che, otto giorni dopo la nascita, ogni famiglia di osservanti riservava al figlio maschio da circoncidere¹³. Un rito vecchio di secoli, che coinvolse non solo i parenti e gli amici più intimi, ma tutta la comunità di credenti. Una cerimonia carica di suggestioni e significati, il Brit milà, che Paolo Sebastiano Medici, un ebreo convertito al cattolicesimo, vissuto nella seconda metà del Seicento, così descrive:

    Giunta la mattina, in cui si dee fare la Circoncisione del Fanciullo, viene il Circoncisore, chiamato da essi Mael, con un piatto, sopra il quale sono gli istrumenti necessarj per quella operazione: polvere refrettiva, olio rosato, pezzette, e una scodella con un poco di rena, per porvi dentro il Prepuzio quando è reciso […]. Il Circoncisore sfascia il bambino, e con una molletta d’argento, che tiene nella mano sinistra, stringe la parte al quanto sopra dove vuol fare il taglio, in modo, che rimanga il Prepuzio fuori dalla molletta e preso colla destra lo strumento da circoncidere che è un coltello tagliente assai, fatto a guisa di un piccolo rasojo, prima d’incominciare l’operazione grida ad alta voce in lingua Ebrea, e cosi dice: Benedetto sii tu Dio, Dio nostro Re del Mondo, che ci hai santificati ne’ tuoi Precetti, e ci hai comandata la Circoncisione. Ciò detto, taglia la parte più grossa del Prepuzio e con le unghie del pollice destro, e sinistro […] squarcia l’altra pelle più sottile, che gli stà sotto […]. [Poi] pone dentro la scodella su idetta colla rena il Prepuzio reciso. Succhia con la propria bocca due o tre volte il sangue della ferita, che in gran copia abbonda, lo sputa poscia in una tazza di vino che ha questo effetto tien preparata […]. Quando il Circoncisore ha terminato la sua funzione, prende una tazza di vino e dice ad alta voce: Sii benedetto tu, Dio, Dio nostro Re del mondo, che hai creato il frutto della Vite, e immediatamente soggiunge, Dio nostro, e Dio de’ Padri nostri, corrobora questo bambino al Padre, e alla Madre, e sia chiamato il nome tuo in Israel N. N. e allora gli pone il nome. Tutto il popolo risponde ad alta voce: Besiman tob, cioè: Un buon augurio.¹⁴

    Intanto, a fine luglio del 1910, nasceva anche Ivonne¹⁵, la secondogenita della coppia. Con le magre entrate che potevano derivare dal lavoro di stipettaio, Amedeo dovette ingegnarsi un bel po’ per garantire il minimo necessario a tutta la famiglia. A dargli una mano nel trovare qualche lavoretto occasionale fu, probabilmente, il fratello Umberto¹⁶, di due anni più grande, cassiere all’Ospizio Israelitico Settimio Saadun di viale Duca di Genova¹⁷. Fu lui – secondo quanto riferisce lo stesso Amedeo in una delle lettere inviate al presidente della Comunità di Napoli¹⁸ – ad avviarlo all’attività di shammash. Mansione che tornerà a svolgere «nei mesi di luglio ed agosto», quando era stato chiamato a sostituire «Adolfo Orvieto Shamasc della Confraternita Mattir Assurim […], quando si recava a portare i fanciulli a Viareggio per conto dell’Ospizio Marino»¹⁹.

    Il clima di fiducia generato dal lungo periodo di pace e di sviluppo che l’Europa stava vivendo dalla fine della guerra franco-prussiana, combattuta tra il luglio

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