Il tenace concetto: Leonardo Sciascia: la letteratura, la conoscenza, l'impegno civile
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Anteprima del libro
Il tenace concetto - Alfonso Amendola
VITALE
Un tenace progetto
Nota dell’editore
Antefatto: l’incontro
La casa editrice era nata da poco (credo non più di un anno e mezzo). Era una scommessa, o forse nemmeno quello: facevo il libraio di quartiere, in un quartiere semiperiferico di Roma, e da lì mi venne l’idea di provare a pubblicare libri. Narrativa, prevalentemente, e narrativa «giovane», ma stavamo appena allargandoci alla saggistica.
Ricordo ancora che ricevemmo un commento a un post sulla nostra pagina Facebook: ritraeva Leonardo Sciascia che teneva per mano un bambino. Quel bambino – e ovviamente l’autore del commento, nel frattempo adulto – era Fabrizio Catalano.
Fabrizio aveva scovato (non so come, viste le dimensioni allora microscopiche della casa editrice) la Rogas, che col nome omaggia il protagonista de Il contesto, e quindi il suo autore, oltre – ma questo è un aspetto personale, di tutti certamente il meno importante – la mia passione da un lato per i personaggi eretici, non allineati, non incasellabili per loro volontà, e dall’altro per la storia contemporanea italiana e per gli anni Settanta.
Cose che crescono insieme
Con Fabrizio è nato negli anni un rapporto di amicizia. Rapporto agevolato, oltre che dalle qualità umane, da una serie di passioni e di sensibilità comuni. Passioni e sensibilità, invero, assai variegate: da quelle politiche (condividiamo non solo posizioni e opinioni, ma anche, senza saperlo – da ben prima di conoscerci –, un percorso di riflessione accidentato e sofferto) a quelle culturali. Sotto questo aspetto, ho sempre visto Fabrizio come la parte colta, enciclopedica delle mie passioni soprattutto cinematografiche (quanto io amo il dimenticato e sommerso cinema popolare italiano, quello dei filoni, del poliziottesco, dello spaghetti-western, tanto lui me ne sa spiegare le evoluzioni storiche, linguistiche, tecniche, produttive). Oltre a questo, ho potuto scoprire, in lunghi pomeriggi trascorsi in quella che era la mia libreria, la capacità narrativa di Fabrizio nel raccontare aneddoti, episodi, squarci di vita (suoi, ma soprattutto di suo nonno) dal potente valore evocativo, e di cui i lettori potranno trovare ampie manifestazioni nell’intervista contenuta in questo volume.
In parallelo, correva il percorso della casa editrice. Da pur onorevolissimi scopritori di giovani narratori, andava prendendo forma la nostra attenzione verso le scienze umane, sociali e politiche. In particolare, stavamo riportando in libreria due testi di due autori considerati ormai classici delle scienze sociali italiane: Alberto Abruzzese e Massimo Canevacci. Fu allora che ricevetti un messaggio da Alfonso Amendola, che avrei scoperto, oltre che come studioso, anche infaticabile organizzatore, ideatore, animatore di iniziative culturali. Mi propose, e io non impiegai oltre dieci minuti ad accettare quella che sarebbe stata una proposta legata alle discipline in cui mi sono formato, una collana di sociologia dei processi culturali, con un’impostazione a mio avviso piuttosto originale, che avrebbe contraddistinto non solo quella specifica collana («La sensibilità vitale», che ospita questo volume), ma che avremmo poi trasportato – grazie all’intelligenza dei direttori delle altre collane – in molta della produzione della Rogas: non libri esclusivamente universitari, non libri esclusivamente di mercato, un taglio molto specifico all’interno di una disciplina, che si espande a discipline confinanti – nel caso specifico, la sociologia dell’immaginario, che non può non sconfinare nell’antropologia o nella filosofia della comunicazione.
È così che la Rogas divenne adulta.
Il tenace progetto
Il legame non solo d’amicizia, ma anche intellettuale, con Fabrizio Catalano ebbe un suggestivo sbocco editoriale. Non ricordo, sinceramente, se fui io a chiederglielo o lui a propormelo, ma di certo ci trovammo concordi nell’idea che Fabrizio dovesse mettere su carta molte sue idee. Ne nacque un libro assai vivace, che si muove con agilità fra, appunto, il B-Movie, le avanguardie artistiche, la figura dell’intellettuale e dell’artista: il libro si intitola L’immaginario rubato. L’immaginario, dunque, che torna.
Fu una prova generale? Non lo so, ma tendo a credere di no: come ho detto, è un libro assai suggestivo, e di certo autosufficiente. Ricordo però – bene, in questo caso – che ci incontrammo in un luogo decisamente poco usuale, poco elegante e di certo poco frequentato dagli ambienti dell’editoria – un impersonale bar della stazione Tiburtina, a Roma – per discutere di alcune iniziative promozionali legate a L’immaginario rubato. Fu prima di salutarci, che Fabrizio mi lanciò la proposta: «non ho mai parlato di mio nonno in un libro: vorrei farlo per il centenario dalla nascita. Ma sul piano emotivo sarebbe per me un lavoro estremamente impegnativo: avrei bisogno di qualcuno che sappia tirare fuori quello che ho da dire, e che lo faccia bene». Rogas, una casa editrice che omaggia uno dei maggiori autori italiani del Novecento, si trovava davanti a un’opera che avrebbe parlato proprio di lui.
Dovevamo coinvolgere, quindi, persone, studiosi che riunissero tante qualità: fiducia dell’editore e dell’autore, spessore umano per comprendere tutte le pieghe e le sfaccettature del lavoro, da quello letterario e intellettuale a quello, appunto, emotivo, e che insieme dessero un taglio che fosse originale (di lavori critici su Leonardo Sciascia ne esistono a centinaia, e non sono pochi quelli di estremo valore), intelligente, rispettoso non solo di Sciascia ma anche del background e del pensiero di Fabrizio.
Chiamai Alfonso Amendola. Mi rispose in maniera sorprendente, per chi conosce i lunghi tempi dell’editoria: «Dammi un paio di giorni». Non mi ricontattò dopo due giorni: mi ricontattò dopo due ore. «Giap Parini è uno studioso straordinario: è un esperto di sociologia della letteratura, e uno studioso di criminalità organizzata. Lo faremo insieme».
Ci incontrammo una volta a Roma, e una volta a Napoli. Avremmo voluto proseguire gli appuntamenti dal vivo, soprattutto a Palermo e in Sicilia, ma non abbiamo potuto: l’evento più sconvolgente dalla Seconda Guerra Mondiale ha attraversato il mondo, e così abbiamo ricalibrato il nostro lavoro in quella dimensione online e a distanza che è penetrata con forza nella vita quotidiana, lavorativa e sociale di miliardi di persone. Una dimensione che se da un lato ci ha resi orfani di tante possibilità che avevamo progettato, dall’altro ci ha aperto, involontariamente, ulteriori suggestioni e domande sulla figura dello scrittore siciliano.
Leonardo Sciascia, infine
Sarebbe un racconto incompleto, il mio, se non provassi a sfiorare, nei miei limiti intellettuali, culturali e di ruolo, la figura di Leonardo Sciascia.
La dimensione della pandemia e dei suoi riflessi ci ha aperto, come dicevo, ulteriori suggestioni. Ricordo perfettamente la domanda che ha dato il via al lungo colloquio tra Fabrizio, Alfonso e Giap: «cosa avrebbe detto tuo nonno di fronte a tutto questo?». Una questione che può apparire banale, ovvia, ma che contiene in sé, con maggiore potenza, l’aspetto che in Sciascia, almeno personalmente, ha sempre affascinato e inquietato di più: quello dell’intellettuale. Quello dell’intellettuale di cui oggi si avverte tremendamente il vuoto. Quello della figura che, magari sgradevolmente, magari con una severità che intimorisce, magari con delle risposte che, dalle nostre zone di comfort, nessuno vorrebbe ascoltare: le risposte sulla deriva della società e della politica.
Emerge nell’intervista, soprattutto nella prima parte, ciò che di Sciascia oggi ci manca: la capacità di interrogare con rigore, integrità e indipendenza la nostra coscienza civile. Una funzione che attualmente nessuno (nessuno scrittore