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Hate me
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E-book469 pagine5 ore

Hate me

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Info su questo ebook

Tre adolescenti fragili e complicati alle prese con loro stessi, che cercano di trovare il giusto posto nel mondo, circondati da persone che non sempre riescono a comprenderli. Colonna sonora delle loro vite è il rock, dai latrati di Kurt Cobain alla voce vellutata di Nick Drake, dall’emozione vibrante di Jeff Buckley alle urla orgasmiche di Ian Gillan. Un romanzo fatto di tormento e dolcezza, di rabbia e alienazione, ma soprattutto di fame d’amore. Una fiera celebrazione dell’Antifigo e un omaggio sincero e devoto alla Musica.
LinguaItaliano
Data di uscita17 gen 2023
ISBN9788831457866
Hate me

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    Anteprima del libro

    Hate me - Chiara Stoppa

    1

    Spogliatoi maschili deserti.

    C’era un che di affascinante nel trovarsi da soli là dentro.

    Gli armadietti di metallo allineati contro le pareti. I lavandini gocciolanti. Le docce. Le panche di legno pasticciate dagli allievi degli anni precedenti. Gli angoli del soffitto anneriti dall’umidità.

    Però l’odore faceva schifo. Candeggina mista a deodorante.

    L’ora di educazione fisica era cominciata da un pezzo, ma Alex Grisoni non era in palestra.

    Aveva chiesto il permesso di andare in bagno. Lo faceva sempre.

    Non gliene fregava un cazzo di impiegarci tanto. Poteva sempre inventarsi di essere rimasto bloccato nella toilette. Di essersi dovuto arrampicare con un piede sul porta-rotolo e con l’altro sulla maniglia, per scavalcare la porta e buttarsi dall’altra parte. Di certo una gincana del genere richiede il suo tempo.

    Con la scusa pronta, Alex si guardò intorno.

    No, non c’era proprio più nessuno.

    Le piastrelle bianco panna conferivano allo spogliatoio l’aria di un ospedale psichiatrico. Alex aveva letto da qualche parte che il bianco era il colore della follia.

    Sapeva perfettamente che il segreto per la buona riuscita di un crimine è la disinvoltura, ma lui, infreddolito, in calzoncini e maglietta, era sempre nervoso quando si trattava di compiere gesti simili.

    Guardò gli indumenti dei compagni sparpagliati ovunque. Le scarpe infangate di pioggia, tutte di modello identico, giacevano sul pavimento, abbandonate nella fretta di correre in palestra.

    «Forza!» aveva tuonato il prof Giordani dal corridoio, «Quanto diavolo ci mettete a cambiarvi?»

    Il prof non era esattamente un uomo amichevole. Era una specie di carro armato coi baffi da tricheco e la tuta da ginnastica troppo attillata. Li massacrava facendoli correre fino allo sfinimento e non faceva altro che sbraitare con la sua voce cavernosa che faceva vibrare i vetri dei finestroni. Alex era certo che il prof da giovane avesse fatto parte di un coro come baritono.

    S’avvicinò all’appendiabiti, con cautela.

    Poi si fece coraggio e cominciò.

    Mentre frugava nelle tasche dei jeans, degli zaini e delle felpe dei suoi compagni, sperò con tutte le sue forze che nessuno entrasse in quel momento cogliendolo in flagrante.

    Ogni due minuti si girava di scatto, controllando ossessivamente la porta, nel terrore di trovarsi qualcuno alle spalle.

    Dal primo giubbotto estrasse uno schifo di fazzoletto usato e una carta di merendina appiccicosa.

    …Ma i soldi?

    Da un po’ di tempo non ne trovava mai in casa. Neanche nel cassetto del comodino di sua mamma, nemmeno nel vasetto delle monete. Sparivano subito. Forse li grattava via quel bastardo che da un anno aveva messo le tende in casa sua.

    Alex non chiedeva mai soldi a sua madre. Non le parlava proprio. Era anche vero che non si vedevano spesso e, quando accadeva, lui la evitava accuratamente.

    Con l’ispezione della seconda giacca fu più fortunato: si ritrovò tra le mani un biglietto dell’autobus e qualche spicciolo. Roba decisamente più utile.

    Subito dopo prese in esame un paio di pantaloni, rovistando nelle tasche posteriori. Si illuminò, scorgendo un pacchetto di sigarette ancora mezzo pieno. Soddisfattissimo, sistemò in fretta e furia il suo piccolo tesoro in fondo allo zaino, sotto ai libri, e i soldi si sparsero tra un quaderno e l’altro. Fortuna che la sua cartella di tela non aveva neanche un buco.

    Richiuse furtivamente la cerniera e si trascinò anche lui in palestra.

    Cazzo.

    Quel bagnetto era talmente angusto. Giusto lo spazio di un cesso, senza coperchio né asse.

    Pur essendo magro come un chiodo, Alex trovò pressoché impossibile girarsi. Ma di cambiarsi davanti agli altri non se ne parlava proprio.

    Era stravolto e sudato. Dopo il riscaldamento, Giordani li aveva fatti saltare fino alla pazzia e poi avevano dovuto fare la staffetta, quindi ancora corsa a gogo.

    «DEVO PISCIARE!» urlò qualcuno fuori, pestando i pugni contro la porta del bagnetto, «MUOVITI, CHIUNQUE TU SIA!»

    Alex sussultò, sentendosi ribollire dall’imbarazzo.

    Udì gente che parlottava. Finse di non sentire.

    «È Grisoni. Quello nuovo»

    «Chi? Il tizio che non parla mai?»

    «Sì. Non l’avevate ancora notato? Lo fa tutte le volte»

    «Cosa?»

    «Si chiude in bagno. Si vergogna a cambiarsi davanti a noi».

    Mentre si infilava faticosamente i jeans, Alex sentì di nuovo delle risate che lo irritarono da morire. Quelli non lo conoscevano. Non potevano sapere che stavano giocando col fuoco.

    «Quanto ci mette a cambiarsi?»

    «Si starà tirando una sega!»

    Avvampò dalla punta dei piedi fino alla cima dei capelli. Che grandissima stronzata. Lui le seghe non se le faceva di certo in un bagno della scuola.

    «Se la sta spassando da solo, te lo dico io!»

    Questo era Matteo. Finalmente lo riconobbe. Solo lui aveva quella voce nasale del cazzo. E la fissa della virilità.

    «Ma perché non vuole farsi vedere?»

    «Che sfigato».

    Odiava quella parola. Sfigato.

    In quel buco faceva troppo caldo ed era difficile muoversi. Finalmente riuscì a mettersi anche la maglietta.

    «Ha paura di farci vedere quanto ce l’ha piccolo!»

    Le risate di tutti quei bastardi fecero incazzare Alex a tal punto che non ci vide più.

    Diede un calcio alla porta, spalancandola con inconsueta violenza.

    Gli altri ragazzi sobbalzarono, ammutolendo all’istante.

    Alex sogghignò, puntando Matteo. Nessuno rideva più, ora.

    Poi accadde tutto troppo velocemente.

    Il pugno. Il colpo della testa di Matteo contro l’armadietto. Tutto quel sangue che gli usciva dal naso a fiotti, sporcando la sua bella maglietta blu.

    Le grida inorridite, il terrore sui volti, Matteo che non si muoveva.

    Le braccia poderose di Giordani che abbrancavano Alex da dietro.

    Sirene spente, luci blu intermittenti, Matteo, lettiga, ambulanza.

    Sì, uno psicodramma.

    Ma da quel giorno glorioso nessuno in classe sua osò più prenderlo per il culo.

    2

    Una delle cose di cui era più felice era aver scoperto Jeff Buckley.

    Aveva sentito l’intro cupa e subacquea di Nightmares by the sea e nella sua testa l’aveva fusa con quella di Come As You Are dei Nirvana.

    Se n’era innamorato.

    Gli piaceva suonarla con la chitarra, amplificatore effetto chorus, fino allo stordimento.

    Aveva letto la biografia di Jeff Buckley. Una goccia pura in un oceano di rumore, come lo aveva definito Bono degli U2.

    La biografia lo aveva tenuto incollato fino all’ultima pagina. Mai leggendo la storia di qualcuno aveva provato un dolore così intenso, così reale.

    Un dolore che si poteva toccare.

    Con grande stupore, aveva scoperto di avere molte cose in comune con Jeff.

    Tipo: anche il padre di Jeff lo aveva mollato prima che nascesse. E lui non era uno qualunque, era un cantante famoso che girava per gli Stati Uniti. Suo padre era Tim Buckley, cazzo.

    Jeff praticamente non lo conosceva, dato che Tim aveva scelto di non prendersi cura di lui e lo aveva abbandonato.

    Alex aveva letto che i due si erano incontrati solo pochissime volte.

    Tim era morto a soli ventotto anni.

    Una delle cose che aveva devastato Jeff era non essere stato nemmeno invitato al suo funerale.

    Come se fosse stato un estraneo.

    Alex ascoltava spesso Jeff Buckley.

    Secondo lui era in assoluto la voce più meravigliosa che fosse mai esistita.

    3

    Gioia odiava un sacco di cose.

    Avrebbe potuto scrivere un’enciclopedia, sulle cose che odiava.

    Avrebbe anche potuto dividerla in sezioni in ordine alfabetico, a seconda dell’argomento, per facilitarne la consultazione.

    Lei era sempre stata molto ordinata.

    Per esempio, scorrendo sotto la lettera A, si sarebbe giunti alla voce Autobus, che a sua volta avrebbe dato inizio a ulteriori sottosezioni.

    Sezione A. Punto 1. I ragazzi idioti che in bus si sedevano nei posti a quattro, quelli in fondo, appoggiando le loro scarpacce luride sui sedili di fronte, ruminando chewing-gum con aria di sfida.

    Sezione A. Punto 2. Quelli che piazzavano il loro zaino sul sedile di fianco e non lo spostavano neanche quando c’era gente in piedi che moriva dalla voglia di sedersi ma non osava chiederlo; gente anziana e zoppa e con le borse della spesa e incinta. No, un momento. O anziana o incinta.

    Sezione A. Punto 3. Come la guardava la gente quando era lei a decidere di alzarsi per cedere il posto a qualcuno.

    Lei preferiva occupare il primo posto, subito dietro all’autista.

    Era il sedile migliore, quello.

    Innanzitutto era singolo, e lei poteva starsene per conto suo, senza nessuno che la fissasse per tutto il tragitto fino a scuola. Di fronte, solo un vetro oscurato che le permetteva:

    Di osservare l’autista di schiena, che rimbalzava sul suo sedile a molle a ogni buca della strada;

    Di leggere il cartello adesivo che elencava le norme di viaggio per i passeggeri. L’ultima era sempre Non disturbare il conducente.

    Sezione A. Punto 4. Gli autisti stupidi che parlavano al cellulare mentre guidavano. Quelli marpioni che si facevano ammaliare dalla gattamorta di turno che si piazzava in piedi vicino a loro e non smetteva di civettare per tutto la durata del viaggio. Quelli distratti che si dimenticavano di aprire le porticine d’uscita alla sua fermata, costringendola a dover gridare davanti a tutti: Scusi, mi apre?

    Lei si vergognava di farlo e più di una volta aveva dovuto scendere alla fermata dopo e scarpinare fino al suo quartiere.

    Un altro esempio di vocabolo consultabile nella sua enciclopedia mentale? Lettera S, voce Scuola.

    Sezione B. Punto 1. L’insegnante che la chiamava per leggere davanti a tutti. Un classico. Proprio lei che detestava l’idea di parlare in pubblico. Diventava insicura e impacciata e si sentiva ridicola.

    Ma quella mattina era diverso. Il terrore era incontrollato.

    Da quel penoso giorno di maggio aveva sperimentato la malinconia e la solitudine più di qualsiasi altra sensazione.

    Non reggeva più le emozioni, non riusciva più a controllarle come prima. Ora le sfuggivano pericolosamente di mano. E ciò che si portava dentro rischiava costantemente di essere profanato.

    Adesso, per esempio, aveva una paura folle.

    Non avrebbe mai immaginato che una vecchia porta di legno scrostato con la maniglia scolorita potesse farle quell’effetto. Che potesse farle rimbalzare il cuore nel petto come una pallina da ping-pong, mandarla in iperventilazione e farle tremare le gambe. Che potesse addirittura comunicare telepaticamente con lei. E dirle:

    Devi entrare.

    Non hai alcun potere a questo mondo.

    Non lo sai? Non puoi decidere niente.

    Nessuno è mai morto perché ha cambiato scuola, comunque.

    La bidella ti sta guardando male. Forse per via dei capelli? Sì, quella col camice verde acqua che finge di lavare per terra. Si sta avvicinando. Ha tutta l’aria di una che vuole chiederti cosa c’è che non va.

    Non ha idea di cosa ti sta succedendo dentro. Di come le viscere si strizzano, i peletti delle braccia si rizzano anche se non fa per niente freddo.

    Muoviti, su. Un bel respiro, afferra la maniglia e aprimi.

    …Sbam!

    Alla fine Gioia l’aprì, quella dannata porta. Dato che era molto educata, prima bussò, ma non ricevette risposta. Così decise di spalancarla.

    Aria viziata.

    Un vago odore di minestra di cipolle.

    Una tavola periodica degli elementi.

    Una carta geografica dai colori un po’ sbiaditi e con l’asticella storta.

    Un’enorme lavagna a muro con scritto (a + b) 2 = a 2 + 2ab + b 2

    Non avrebbe mai dimenticato quella scena.

    Lei in piedi sulla soglia della porta, che aveva appena interrotto una lezione senza presentarsi né dire nulla. E venti paia di occhi ostili che la fissavano in silenzio.

    Quanto tempo era rimasta così? I secondi più lunghi della sua vita.

    Poi successe qualcosa. Qualcuno, dietro le quinte, doveva aver premuto il tasto Play, perché finalmente uno di quegli individui ebbe una reazione. Qualcosa di incoraggiante, una specie di sorriso. Sì, quella sembrava proprio una prof.

    «Tu devi essere Vendemini, giusto?»

    L’insegnante si alzò dalla cattedra e la trascinò dentro con fare cerimonioso.

    «Gioia Vendemini?»

    Gioia annuì come un automa.

    La guardò negli occhi, cercando di trasmetterle un messaggio segreto. Se era riuscita a comunicare con una porta, ora farlo con una persona in carne e ossa non sarebbe dovuto essere complicato.

    Mi aiuti, la prego. Mi tiri fuori di qui. Dica che nell’elenco sul registro non c’è nessuna Gioia Vendemini e che tutti si sono sbagliati e che io devo tornare a casa.

    Ma la donna sembrò non recepire il messaggio telepatico.

    Aveva una strana ruga a forma di punto esclamativo in mezzo alla fronte. E odorava di naftalina.

    «Benvenuta. Io sono la professoressa Rossi. Insegno matematica a tutti questi caproni».

    I ragazzi scoppiarono a ridere.

    «Prof, posso andare in bagno?» chiese un tizio coi rasta biondi lunghissimi, che sembrava Tarzan. Indossava una maglietta con scritto a caratteri cubitali: DREAMER, sognatore.

    «Taci, Levi».

    Gioia deglutì, imbarazzata. Lanciò una rapida occhiata a quelli che sarebbero diventati i suoi nuovi compagni.

    Merda, non le fecero una grande impressione.

    Gioia lottò con tutte le sue forze per tener giù la colazione.

    Era così ingiusto dover cominciare la scuola un mese dopo rispetto agli altri, entrare a far parte di una classe ormai già formata. Non sarebbe mai riuscita a integrarsi. Non che in fondo le importasse granché.

    «Siediti pure laggiù, Gioia».

    La Rossi le indicò l’ultimo banco, vicino alla finestra, l’unico libero. Nel posto accanto al suo sedeva un metallaro che dormiva profondamente con la testa sul banco. Era come una nota stonata. Non c’entrava niente là dentro.

    Perfetto. Un altro disadattato come lei.

    «Continuiamo con la lezione. Qual è il prossimo prodotto notevole?»

    Gioia avanzò a passi strascicati, desiderando ardentemente di trovarsi in camera sua, nel letto, ad ascoltare nello stereo qualche cd di Samuele. Magari qualcosa dei Placebo.

    «Allora? Il prossimo prodotto notevole?»

    Il tragitto dalla cattedra all’ultimo banco sembrò lungo decine di chilometri, forse perché era un percorso a ostacoli. Gioia trovò piuttosto irritante fare lo slalom tra gli zaini di tutti, trafitta da sguardi impietosi e indiscreti. Le sembrava di sfilare in passerella.

    Da allieva modello quale era, cercò di concentrarsi sulla lezione.

    La risposta è facile signora Rossi, pensò, (a – b) 2 che diventa a 2 – 2ab +b 2

    Una risatina odiosa dissolse violentemente la nebbia dei suoi acuti ragionamenti algebrici. E poi ecco, la simpatica frase ricorrente bisbigliata da qualcuno di non identificato.

    «Ma avete visto che capelli

    Un classico.

    Uno di quei momenti in cui avrebbe voluto tirarsi la coperta sulla faccia.

    Ma ecco che si avvicinava, ecco il banco, ecco il metallaro nel mondo dei sogni, ecco la sedia libera che la aspettava.

    Appoggiò la cartella sul banco, estraendone un astuccio verde e un quaderno a quadretti. Era tutta rossa per l’imbarazzo. Aveva un caldo tremendo.

    Psicologicamente esausta, si lasciò cadere sulla sedia, che però non aveva i gommini e fece un dannato frastuono, così tutta la classe, ancora una volta, si girò a guardarla.

    «Cazzo!» mormorò tra i denti.

    Una parolaccia! L’aveva detta davvero! Non lo faceva mai. Suo padre non voleva. Se ne vergognò, soprattutto perché si era accorta che il vicino di banco dormiente l’aveva sentita.

    L’aveva svegliato dicendo Cazzo.

    Grandioso.

    Lui si mosse appena. La guardò, prima per mezzo secondo, poi un’altra volta, scrutandola più a lungo.

    Alla fine abbassò gli occhi. E li richiuse.

    Il tizio se ne stava stravaccato sul banco. Era l’unico della classe che aveva osato dormire seriamente fino a quel momento. L’unico senza un quaderno o una penna con cui scrivere. L’unico che riusciva a estraniarsi da tutto il resto. L’unico con la straordinaria capacità di starsene completamente immobile.

    Era tranquillo in un modo inquietante.

    Neanche una mano che tamburellava sul banco, o un piede irrequieto che dondolava, neppure un braccio che cambiava posizione poiché informicolato.

    Forse voleva risparmiare energie, pensò Gioia. Forse era entrato in modalità stand-by, tipo i computer, o le macchine fotografiche. L’unico elemento che dimostrava che fosse vivo era il suo toracetto esile avvolto in una t-shirt troppo grande, che si sollevava e si abbassava impercettibilmente a ogni respiro.

    Indossava dei jeans logori, con una tasca scucita, dalla quale si intravedeva quello che doveva essere un pacchetto di sigarette. Gioia inorridì.

    Gli anfibi erano alti sulle caviglie e pieni di lacci incrociati, perfetti per prendere a calci qualcuno. Sulla sua cartella buttata a terra c’era una toppa nera, con una strana faccina gialla sorridente con gli occhi a forma di X.

    Starà bene?

    Gioia, come sua abitudine, iniziò a formulare ipotesi fantasiose.

    Ma certo. Quello era un banco d’isolamento. Come nelle carceri. Lui era in castigo per aver commesso qualche atto proibito. Magari non aveva il permesso di interagire in alcun modo con chi aveva intorno. Se avesse rivolto la parola a qualcuno – anche un solo Mi presti il bianchetto? – una botola si sarebbe aperta sopra di lui e dal soffitto sarebbero calati dei poliziotti con una imbragatura. L’avrebbero ammanettato con le mani dietro la schiena e rinchiuso nella galera sotterranea della scuola, destinato per l’eternità a correggere le verifiche di matematica di tutti gli studenti.

    Ecco. Ecco spiegato quel silenzio innaturale.

    Ma certo. Aveva paura. Paura che tutto questo accadesse.

    «Sei con noi, Vendemini?!»

    La ragazza sussultò. Realizzò che in classe non c’era nessun’altra che si chiamava Vendemini. La Rossi stava importunando proprio lei. Ma che diavolo voleva?

    «Sei sul nostro pianeta, Vendemini? Cosa ti ho appena chiesto?»

    Abbassò gli occhi sul suo quaderno vuoto, mentre il cuore martellava infuriato. Sentì un sussurro.

    Il metallaro? Impossibile. Si era già riaddormentato. Probabilmente non sapeva neanche quale materia fosse in corso.

    Di nuovo quel bisbiglio.

    Sì! La ragazza seduta davanti a lei! Quella che sembrava un sacco più grande.

    «Allora, Vendemini? Sto aspettando».

    Cominciò a odiare la professoressa Rossi.

    Mai avrebbe immaginato che un giorno si sarebbe trovata catapultata a tutta velocità nella sua auto, mentre lei guidava verso l’ospedale strombazzando il clacson contro gli altri automobilisti.

    «Psst… Tartaglia… la terza fila del Triangolo di Tartaglia!»

    Cosa? Chi?

    Gioia spalancò gli occhi.

    Tartaglia? E chi diavolo era, questo Tartaglia? Un balbuziente?

    La ragazza seduta davanti sembrava sicura del suo suggerimento. I secondi scorrevano inesorabilmente sulle venti teste.

    «Vendemini, non so come funzionava nella tua scuola precedente, ma qui certe cose sono inaccettabili. A causa della tua distrazione sarò costretta a…»

    «…Il Triangolo di Tartaglia!» quasi urlò.

    Forse aveva risposto con troppo impeto, perché ora tutti la stavano trapanando con occhi assassini. Tutti, tranne il vicino di banco.

    «Il Triangolo… di Tartaglia» ripeté, ricomponendosi, «…la terza fila».

    La prof ammutolì definitivamente.

    Era una sensazione meravigliosa neutralizzare una professoressa petulante e rompicoglioni. Stenderla all’istante, lasciarla senza nulla da obiettare. Farla tacere per sempre a suon di risposte esatte.

    Ora la stronza aveva preso di mira il rasta della seconda fila. Il sognatore.

    «Prof, però se rispondo giusto poi mi lascia andare in bagno?»

    «No!»

    A Gioia spuntò un sorriso trionfante. Tutto intorno a lei si dissolse. L’unica immagine nitida e chiara era davanti a sé. Quella ragazza. Quella che, come avrebbe detto Samuele, le aveva salvato il deretano. Così, gratuitamente, senza chiederle niente in cambio, senza nemmeno conoscerla.

    Ora si era messa a seguire la lezione col viso appoggiato sul palmo della mano. Era bellissima.

    Il suggerimento che le aveva dato era giusto. Non era stata una cavolata per farle fare brutta figura davanti a tutti. Gioia non riusciva a crederci. La osservò tutto il tempo, quando rideva, quando era seria, quando si grattava la testa con la penna o guardava fuori dalla finestra, quando si specchiava dietro l’astuccio per rimettersi il rossetto. Proprio così. Si metteva già il rossetto.

    Gioia sentì nascere dentro di sé un sentimento di profonda ammirazione. Passò il resto della mattinata a scrutarla, in estasi. E nemmeno si accorse che il suo vicino di banco non solo si era risvegliato, ma si era alzato per andare in bagno e non aveva fatto più ritorno.

    4

    Era alquanto strano che quel giorno la prof gli avesse dato il permesso di uscire dall’aula. Non lo faceva mai, soprattutto se a chiederglielo era lui.

    «Ti ho già inquadrato, Grisoni» aveva detto con l’aria di chi la sa lunga.

    Sì. Doveva essere proprio di buonumore se quel giorno gli aveva dato il suo assenso.

    Alex si guardò intorno, pensando a che diavolo fosse il Triangolo di Tartaglia, e si accese una sigaretta bazzicando per i corridoi del terzo piano.

    Ovviamente non era diretto alla toilette.

    A volte sentiva il bisogno irrefrenabile di uscire dalla classe e fare due passi a zonzo per la scuola, a vuoto. Magari sgattaiolare nel suo luogo prediletto, in cima alle scale antincendio, lontano da tutti quei banchetti allineati, dai professori che ti urlano addosso se solo ti azzardi a guardare fuori dalla finestra, dalle ragazze nuove coi capelli rossi che si siedono vicino a te mormorando parolacce.

    Per fortuna le scale antincendio erano un luogo piuttosto insospettabile: quando Alex spariva per interi quarti d’ora, ancora a nessuno era venuto in mente di andare a cercarlo proprio lassù.

    Non era male gironzolare senza meta nei corridoi deserti. Gli piacevano molto di più così rispetto all’intervallo, quando erano affollati da una calca informe e rumorosa.

    Gli piaceva sentire il brusìo confuso proveniente dalle aule o il rumore attutito del traffico giù in strada. Gli piaceva guardare scorrere il mondo senza farne parte.

    Aspirò una lunga, profonda boccata di fumo, senza il minimo timore di svoltare l’angolo e trovarsi faccia a faccia con qualche insegnante o membro del bidellame.

    Ce n’erano a dozzine, di bidelli sconosciuti, e si aggiravano loscamente nei corridoi guardando in cagnesco chiunque accennasse loro un saluto.

    Scorse in lontananza due ragazzi più grandi. Li aveva già visti in giro qualche volta.

    Gli stavano sui coglioni.

    Non conosceva neanche il loro nome, ma sapeva che erano dei fottuti naziskin di merda.

    Stavano aspettando davanti alla porta della segreteria con dei volantini in mano.

    Alex guardò con disprezzo i loro crani rasati, sentendo la tensione crescere dentro di sé. Lo stavano fissando e bisbigliavano.

    Alex sfrecciò rapido davanti a loro. Uno dei due, però, quello più alto, gli bloccò la strada.

    «Di’ un po’, piccolo stronzo» sibilò, «non lo sai che è vietato fumare qua dentro?»

    Alex non rispose. Gli veniva da vomitare. Per poco non perse l’equilibrio quando quello, che si chiamava Riccardo, lo spintonò.

    «Chi cazzo saresti tu per poter fumare?»

    «Io faccio quel cazzo che mi pare» sillabò Alex con una flemma agghiacciante, sbuffandogli negli occhi tutto il fumo appena aspirato.

    Quello tossì.

    Alex li superò a grandi passi.

    «Oooh, l’hai sentito anche tu, Giulio?»

    «Altroché! Questo bastardo è uno con le palle!»

    Riccardo lo rincorse e lo prese per un polso. Glielo storse.

    «Quanti anni hai, eh? Quattordici?»

    «Vaffanculo»

    «Ma guardalo, dai! Con la sigaretta in bocca ne dimostra almeno quattordici e mezzo!»

    E si misero a ridere.

    Stavano ancora ridendo, quando Alex fece una cosa orribile. In un lampo, afferrò il braccio di uno e gli spense sopra la sigaretta, premendogli il mozzicone sulla pelle.

    Sapeva quanto facesse male. Lo guardò dritto negli occhi, e gli sorrise anche, mentre Riccardo, esterrefatto, urlava dal dolore.

    «Tu sei pazzo!» gridò Giulio, incredulo.

    Ma Alex non lo lasciò nemmeno finire di parlare. Gli piombò addosso con tutta la sua forza, tirandogli un pugno in piena faccia. Voleva rompergli il naso.

    Giulio crollò sul pavimento. Alex si sentì subito meglio. Non contento, si avventò anche sull’altro, con l’adrenalina che gli rimbalzava in tutto il corpo.

    I due caddero a terra, Riccardo sotto, che tentava di ripararsi il viso, e Alex sopra di lui a cavalcioni, che lo riempiva di pugni.

    «Figlio di puttana!» balbettava Riccardo, inorridito da tanta furia, «Figlio di puttana!»

    Alex serrò le mascelle.

    L’appellativo che più spesso si sentiva rivolgere era senza dubbio figlio di puttana: ormai era diventato una specie di secondo nome.

    Piacere. Mi chiamo Alex Figliodiputtana.

    Non ne capiva il senso, comunque. Lui non aveva mai visto sua mamma andare sui marciapiedi. E il fatto che la mettessero in mezzo, lo urtava.

    Quando il professor Savona, richiamato dalle urla, si precipitò in corridoio, fu investito dalla puzza di fumo.

    Guardò prima Riccardo e Giulio, poi i suoi occhi si soffermarono su Alex.

    «Tu!» fu tutto quello che riuscì a dire, afferrandolo fino quasi a sollevarlo.

    Alex prese a dimenarsi come un ossesso, scalciando e cercando di divincolarsi. Odiava essere braccato.

    L’insegnante, sconvolto da tanta violenza, faticava a tenerlo stretto. Resosi conto dello stato in cui versavano Riccardo e Giulio, li fece accompagnare in infermeria da un bidello.

    «Tu! Sta’ calmo, per l’amor di Dio!»

    Non sapeva nemmeno chi fosse. Non sapeva il suo cognome. Comunque, meglio essere chiamato Tu che Figlio di puttana, no?

    «Ascoltami» gli disse nell’orecchio, «Se io ti lascio, ti fermi?»

    E mollò la presa attorno al suo torace.

    Alex sembrò apprezzare, perché finalmente smise di agitarsi.

    Ansimava, esausto e incazzato. Sentiva il cuore pulsargli in tutto il corpo.

    «Come diavolo ti è venuto in mente? Hai visto come li hai ridotti?»

    Non aveva finito. Non aveva ancora finito con quelli.

    «E questa cos’è?» esclamò quel professore sconosciuto, indicando il mozzicone e la cenere sparsa sul pavimento, «Una sigaretta?!»

    Il ragazzo non reagì, lasciandosi strattonare come un fantoccio. Non sentiva il bisogno di dare spiegazioni o di difendersi. Da quando era piccolo tutti gli dicevano sempre la stessa cosa. Rispondi.

    «Bè? Hai perso la lingua?»

    Silenzio.

    «In che classe sei?»

    Nessuna risposta.

    «Nessuno ti ha insegnato che devi rispondere quando ti fanno delle domande?»

    Alex deglutì.

    «E guardami in faccia quando ti parlo!»

    Alex girò la testa dall’altra parte.

    «Non ti conosco, ragazzo, ma sono profondamente disgustato dal tuo comportamento».

    5

    Potevi decidere tu.

    Nella pausa pranzo potevi portarti un panino da casa e mangiarlo in cortile o in corridoio, oppure potevi andare a mensa.

    La cucina non era altro che un take-away, dove si faceva scorrere il proprio vassoio per farsi mettere le pietanze nel piatto dalle inservienti. Il giovane Andrea Levi era proprio davanti a una di loro mentre gli schiaffava nel piatto una porzione scarsa di pasta e fagioli.

    «Un momento!» esclamò scandalizzato, quando la donna gli fece segno di andare, «Ne voglio di più!»

    «Ne vuoi di più?!»

    «Suvvia, non faccia la tirchia! Non vede che sono magro come David Bowie nel video di Space Oddity

    «Come?!»

    «Ho una fame allucinante, abbia pietà. E poi io sono in piena crescita! Ho bisogno di carburare»

    «Tu hai bisogno di una bella sistemata alla chioma, bello mio!»

    «Ma…»

    «Vai! Stai formando la coda».

    Rassegnato, Andrea fece dietrofront per andare a cercarsi un cazzo di tavolo.

    «Frocio!» gli gridò qualcuno da dietro.

    Andrea fece diplomaticamente finta di non sentirlo.

    Tentò di individuare qualche amico della sua vecchia classe, ma non riuscì a scorgerne nessuno. Né Simone, né Filippo, né Edoardo. Ma dove diavolo erano finiti?

    Pensò che avessero fatto sega e, improvvisamente, gli venne un’ondata di nostalgia. Quelli sì che erano bei tempi… quando era in classe con loro, le bigiate le facevano insieme. Ora che era stato bocciato, si sentiva escluso.

    Tutti i suoi amici erano avanti un anno e lui era l’unico coglione del gruppo che avrebbe dovuto ricominciare da capo la seconda. Che razza di sfiga!

    Si guardò intorno, un po’ smarrito.

    I tavoli sembravano tutti occupati e lui se ne stava in piedi, in mezzo alla folla, col vassoio stretto contro le costole. Doveva fare in fretta, la sbobba si stava già raffreddando.

    Scorse un tizio in lontananza, coi capelli arruffati e l’aria incazzata col mondo.

    Evvai!

    Il suo tavolo era completamente libero.

    Alex

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