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Io sono il mio mistero
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E-book435 pagine6 ore

Io sono il mio mistero

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Info su questo ebook

Steve è il classico “bravo ragazzo”. La sua vita scorre tranquilla e abitudinaria in un paesino della provincia inglese, tra famiglia, amici e studio. Fino all’incontro con Helen… Da quel momento, per lui niente sarà più lo stesso.

Angela Zullino, nata e cresciuta in provincia di Monza e Brianza, ha frequentato il Liceo Linguistico e si è laureata in Giurisprudenza all’Università degli Studi di Milano. Scrive storie da quando era bambina ed è una grande appassionata di arte, musica (ha studiato per anni pianoforte) e letteratura, soprattutto anglosassone.
LinguaItaliano
Data di uscita31 mar 2020
ISBN9788830619524
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    Anteprima del libro

    Io sono il mio mistero - Angela Zullino

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    Angela Zullino

    Io sono il mio mistero

    Albatros

    Nuove Voci

    Ebook

    © 2020 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l. | Roma

    www.gruppoalbatros.com

    ISBN 978-88-306-1952-4

    I edizione elettronica marzo 2020

    RINGRAZIAMENTI

    Vorrei ringraziare il Gruppo Albatros, per aver fatto sì che questo manoscritto diventasse un libro. In particolare, ringrazio Anna Elia, per essere stata la prima a credere in questo progetto; e ringrazio Marco Puci, Ilaria Battaglia e Rocco Franceschi, per avermi accompagnata passo dopo passo.

    Ringrazio la mia famiglia (genitori, nonni, zii e cugini), e gli insegnanti che ho incontrato nella mia vita, in special modo la professoressa Maria Enrica Allaria e il professor Alessandro Bordin, per essere sempre stati presenti per me fin da quando li ho conosciuti.

    Un ringraziamento va a tutti i miei amici e le mie amiche, e in particolare: Anastasia, Elisa, Gabriela, Andrea, Silvana e Clarissa; e una menzione particolare a tutti i miei amici e le mie amiche che si allenano con me in palestra: non farò i nomi di tutti, per non scontentare nessuno, né in un senso, né nell’altro; mi limiterò a ringraziare Giovanni, per la sua pazienza e la sua tolleranza; e Mattia, per l’abnegazione con la quale mi sopporta.

    Grazie, grazie, grazie a tutti voi.

    Noi siamo l’enigma che nessuno risolve.

    Platone

    Prefazione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterly. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov.

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    .

    I

    LA FIABA DELLA BUONANOTTE

    Sandham, 2015

    «Meno male che c’eri tu, fratellino! Altrimenti non so proprio come avrei fatto con Alison!».

    «Non devi ringraziarmi! È a questo che servono i fratelli minori, no? E poi sai che per me è sempre un piacere passare del tempo con la mia piccola peste!».

    «Sono pronta!», annunciò una voce birichina dalla soglia del salotto. Fratello e sorella, seduti nelle loro poltrone blu notte, si voltarono verso di lei.

    «Era ora!», esclamò il primo, con un sorriso birichino quasi come quello della bambina. «Non sapevo ti ci volesse tanto per indossare un pigiama!».

    «Non è vero!», finse di piagnucolare la piccola, andando ad accoccolarsi sulle ginocchia dello zio, e stringendo al petto il suo orsetto di peluche dal quale non si separava mai.

    «Non credi sia ora di andare a dormire, Alison?», la richiamò la madre, seppure con una certa dolcezza. «Sono già le nove.».

    «Ma è ancora presto!», protestò Alison, stringendosi più forte allo zio, che ricambiò il suo abbraccio con altrettanta intensità.

    «La mamma ha ragione: a quest’ora i bravi bambini dormono!», rincarò tuttavia lo zio.

    «Non è vero!», protestò ancora Alison, rabbuiandosi come al suo solito, quando era di cattivo umore.

    «Hai sentito quello che ha detto lo zio Steve? È tardi, devi andare a dormire!», ripeté la madre, con maggior risolutezza.

    «Ma non mi sono lavata i denti!», ricordò improvvisamente Alison, fingendosi molto preoccupata.

    «E allora che cosa aspetti? Corri a lavarli, no?!», esclamò sua madre, quasi con rassegnazione.

    Alison scivolò giù dalle ginocchia dello zio, trotterellando allegramente in direzione del bagno, ma senza nessuna vera fretta.

    Sua madre sospirò, come se fosse fin troppo abituata a scene simili.

    «È carina, però.», osservò lo zio, guardando ancora il punto in cui Alison era scomparsa dalla loro vista, dietro una parete del corridoio.

    «Perché non la vedi mai.», gli fece notare la sorella.

    «Può darsi…», concesse il fratello.

    «Dovresti venire più spesso.».

    «Stai cercando un baby-sitter per Alison? Se è solo per stare con lei, volentieri. Ma ho già un lavoro, grazie.».

    «Steve, non era questo che volevo dire.».

    «E cosa, allora?».

    «Lo sai.».

    Tra i due scese il silenzio, come se entrambi stessero ancora riflettendo sulle ultime parole pronunciate dalla maggiore dei due.

    «Posso offrirti qualcosa?», chiese quest’ultima.

    «Be’, visto che il fumo non è ammesso in questa casa, hai qualcosa da bere?», domandò Steve, di rimando.

    «Di alcolico, intendi? Solo del liquore per dolci.».

    «Peccato!».

    «Sai che non dovresti bere così tanto. E nemmeno fumare!».

    «Io non bevo tanto. Solo un bicchierino una volta ogni tanto. E non fumo neanche un pacchetto di sigarette al giorno. E, comunque, Rachel, tu non sei la mamma. E io non sono un bambino. Non spetta a te dirmi cosa devo o non devo fare!», si scaldò Steve.

    «Scusa. È solo che eri così diverso, un tempo… Così tanto che, a volte, stento addirittura a riconoscerti. E mi chiedo spesso che cosa ti sia successo…».

    «Non mi è successo niente. Sono solo cresciuto. Le persone cambiano, crescendo.».

    «Io non sono cambiata.».

    «Sì, invece.».

    «D’accordo, te lo concedo.», si arrese Rachel, che non aveva voglia di intraprendere una disquisizione sulla psiche umana; il genere di conversazione lunga e complessa che suo fratello Steve adorava, ma che a lei faceva girare la testa dopo il primo scambio di battute.

    Seguì un attimo di silenzio, durante il quale Steve non poté fare a meno di pensare a quanto desiderasse fumare una delle sue sigarette, in quel momento. Ma Rachel non tollerava il fumo in casa, per via di Alison. D’altra parte, né lei né suo marito avevano mai fumato; e lo stesso valeva anche per Steve; almeno, fino a pochi anni prima. Ora Steve fumava molto più di quanto non avesse voluto ammettere con sua sorella: il suo minimo era un pacchetto, ma nei giorni peggiori arrivava a due o anche di più. E beveva più di un semplice bicchierino ogni tanto, al punto da crollare spesso addormentato sul letto, senza nemmeno la forza di svestirsi e indossare il pigiama. E questo a tutto svantaggio della sua salute. Strano, come cercasse in ogni modo di farsi del male; di punirsi. Eppure era uno psicanalista; avrebbe dovuto sapere certe cose.

    «Piuttosto…», riprese Rachel, cercando di cambiare argomento. «Come sta Samantha?».

    «Chi?», chiese Steve, distrattamente.

    «Samantha.», ripeté Rachel, palesando un certo stupore.

    «Ah…». Steve esitò. Samantha era la sua ragazza; o meglio, l’ultima delle sue tante fiamme. «Be’, non lo so.», ammise.

    «Cosa vuoi dire?», s’insospettì Rachel.

    «Ci siamo lasciati.».

    «Ah… Mi dispiace.».

    «No, non fa niente.», buttò lì Steve. Ed era vero: non gliene importava assolutamente nulla. E anche Rachel lo sapeva.

    «Quando è successo?».

    «Un paio di mesi fa, mi pare.».

    «Ci siamo visti diverse volte da allora.», rifletté Rachel, un po’ risentita. «Perché non me l’hai detto prima?».

    Steve ebbe un attimo di esitazione.

    «Non ho trovato il momento giusto. C’erano sempre George o la bambina. Non volevo parlarne davanti a loro…».

    «Capisco.», disse Rachel, che, in realtà, trovava molto labile quella giustificazione. «Perché, stavolta?», chiese, in tono inquisitorio.

    Steve inarcò le sopracciglia, sistemandosi meglio nella poltrona e pensando a come formulare la risposta.

    «Mi ha detto che mi sentiva assente.».

    «E lo eri?».

    Steve ponderó per un attimo la domanda.

    «Be’, forse. Un po’.», concesse infine.

    «Sbaglio, o Julie ti ha lasciato per lo stesso motivo?».

    «No, non sbagli.».

    «E lo stesso vale per Estelle…».

    «No. Io ed Estelle ci siamo lasciati perché voleva che andassimo a vivere insieme e io pensavo che fosse troppo presto.».

    «Siete stati insieme due anni, se non ricordo male. La tua relazione più lunga.».

    «Di’ pure la mia unica relazione di una certa durata. Sì, stavamo abbastanza bene insieme; ma poi le è venuta quell’idea…».

    «E tu allora ti sei allontanato, Estelle te lo ha rinfacciato e vi siete lasciati.», riepilogò Rachel.

    «No, mi ha lasciato lei.».

    «Ah, già! Come sempre.».

    «Come sempre.». Steve omise di dire che, in quei due anni, non era mai riuscito a rimanere fedele a Estelle per più di due settimane, e che, alla fine, la povera ragazza se ne era resa conto da sola.

    «Santo cielo, Steve! Nemmeno a quindici anni eri così imbranato!».

    «Io non sono imbranato. Sono solo sfortunato, perché non sono ancora riuscito a trovare la ragazza giusta per me, ecco tutto.».

    «Sì, ma ti fai sempre lasciare!».

    «Credi che lo faccia apposta?».

    «Non dico questo, ma… forse non ti impegni abbastanza.».

    «Non è lo stesso?».

    Rachel tacque, zittita da quell’osservazione.

    «E, comunque,», aggiunse dopo una pausa, per riaffermare le proprie ragioni, «potresti anche essere tu a lasciare quelle ragazze, una volta tanto. Se ti rendi conto che non ti interessano, voglio dire.».

    Steve non rispose. Il discorso di Rachel aveva senso, ma lei non sapeva…

    «O sei troppo vigliacco anche per questo?», lo punzecchiò ancora la sorella.

    Con uno scatto, Steve sollevò lo sguardo, fissandolo su di lei; cosa che sorprese Rachel più che se l’avesse insultata.

    Solo Steve sapeva cosa significasse per lui sentirsi dare del vigliacco. Stava per replicare, quando Alison riapparve; naturalmente, fratello e sorella si focalizzarono subito sulla bambina, dimenticando la loro conversazione.

    «Dentini lavati, bianchi e puliti!», annunciò la bambina, trionfante.

    «Brava, piccola! Ora vuoi finalmente andare a dormire?», la invitò Rachel, con un sorriso speranzoso.

    «No!», fu la tanto secca, quanto gioviale risposta di Alison, mentre saltava di nuovo in braccio a Steve.

    «Ti prego, Alison! Per favore!», la supplicò Rachel, cominciando a perdere la pazienza e, soprattutto, le speranze.

    «NO, NO E NO!», sbottò Alison, stringendo forte al petto l’orsetto e scuotendo il capo, così che i capelli rossi, raccolti in due codini, presero a svolazzare di qua e di là; corrugò la fronte e i suoi occhi, azzurrissimi come il cielo d’estate, si oscurarono tanto, da diventare di un intenso e minaccioso blu cobalto.

    «Ecco che ci risiamo! Tutte le sere la stessa storia! Quando c’è George riesco a farla ragionare, ma quando sono sola…», sospirò sua madre, forse non rendendosi conto, in quel momento, di quanto la figlia le somigliasse, non tanto nell’aspetto – di cui Alison aveva ereditato solo i rossi e selvaggi capelli –, quanto nel carattere.

    «Quando torna papà?», chiese Alison, più per prendere tempo che perché avesse interesse per la risposta, dato che la conosceva già.

    «Domani, finalmente!», sospirò di nuovo Rachel, speranzosa e al contempo rasserenata al pensiero del ritorno del marito.

    «Dai, Rachel! Non è la fine del mondo!», la rincuorò Steve, trattenendo a stento una risatina.

    «Per te, forse! Prova tu a farla ragionare!», lo invitò Rachel, aprendo le braccia in segno di resa.

    «D’accordo!», accettò subito Steve, mettendo giù quasi di peso la piccola Alison.

    «NO-O!», protestò di nuovo la bambina.

    «Su, su! Ti porto a letto io, va bene?», propose Steve.

    «NO!», fu la secca risposta che ottenne.

    «Visto? Cosa ti avevo detto?», rimarcò Rachel, a metà tra soddisfatta per aver avuto ragione e disperata per via della fatica che ancora li attendeva.

    «Fai la brava, dai!», riprovò Steve. «Sono o non sono il tuo zio preferito?».

    «Sì…», ammise piano la bambina.

    «E anche l’unico!», le fece eco Rachel, con un ghigno ironico.

    «Grazie per l’aiuto, sorellina!», rispose Steve, seccato ma anche divertito. «Allora, Alison cara, vuoi andare a dormire, oppure no?», soggiunse, quasi in tono di preghiera.

    «Va bene.», concesse la bambina, sbuffando. «Ma solo se mi racconti una storia!», esclamò subito dopo, illuminandosi al pensiero di prolungare la serata.

    «Andata!», accondiscese Steve, scattando in piedi. «Visto, sorellina? Con le buone maniere si ottiene tutto!».

    «Andiamo, zio! Sbrigati!», lo incitò Alison, trascinando Steve per la mano verso la sua cameretta e lasciando la madre alle prese con i piatti della cena ancora da lavare. Fino ad allora, infatti, Rachel non ne aveva avuto il tempo; né lo avrebbe avuto ancora per molto, se non fosse stato per il provvidenziale intervento del suo unico fratello, al quale la legava da sempre un forte, fortissimo affetto. Affetto, che aveva inevitabilmente trasmesso alla figlia.

    Alison, intanto, si era già infilata sotto le coperte, coprendosi ben bene e sistemando con accuratezza i cuscini, in modo da potervi sprofondare, rimanendo però parzialmente sollevata per ascoltare meglio ed essere certa di non addormentarsi a metà della storia; anche il suo orsetto era sotto le coperte, accanto a lei, mentre Steve aveva già preso posto, sedendo sulla sponda del letto. Il piumone, su cui erano raffigurati dei teneri gattini bianchi su fondo rosa, contribuiva a creare un’atmosfera dolce e raccolta: l’ideale per una fiaba della buonanotte. La stanza era immersa nella luce tenue dell’abat-jour giallo a forma di pulcino, che si trovava sul comodino, alla destra del letto; dovunque, giocattoli di ogni forma e tipo, molti dei quali acquistati dallo stesso Steve per la sua unica, adorata nipotina.

    «Allora, zio, che cosa mi racconti stasera?», chiese subito Alison, curiosa.

    «Non lo so, tesoro. Che cosa ti piacerebbe?», domandò Steve di rimando, gettando una rapida occhiata alla sua sinistra, verso gli scaffali della libreria, in cerca di un’ispirazione.

    «Scegli tu!», concesse la bambina, di solito molto risoluta nelle sue decisioni.

    «Ehm… Biancaneve? Cenerentola?», propose Steve.

    «No, me le hai già raccontate la volta scorsa!».

    «Hai ragione. Allora, vediamo un po’… La Sirenetta? Cosa ne dici?».

    «No!»

    «Il Brutto Anatroccolo?».

    «No, non mi piace quella.».

    «Scusa, lo avevo dimenticato… Il Gatto con gli Stivali?».

    Alison scosse il capo vigorosamente; i capelli rossi, molto mossi, le coprivano in parte il volto, facendola sembrare ancora più vispa e monella.

    «Cappuccetto Rosso? La Bella Addormentata nel Bosco?».

    Di nuovo, un risoluto cenno di diniego da parte di Alison.

    «Come procede?», chiese Rachel, facendo capolino sulla soglia.

    «Siamo alla ricerca di una fiaba, ma non riusciamo a trovarne una!», comunicò Steve, fingendosi depresso come dinanzi ad un problema esistenziale senza soluzione.

    «È un trucco. Dovresti saperlo, ormai. È solo una scusa per non andare a dormire.», spiegò Rachel, con l’aria di chi la sa lunga.

    «Non è vero!», negò Alison, offesa.

    «D’accordo, d’accordo, non è vero!», concesse sua madre, con una punta di ironia che la bambina non poteva comprendere.

    «Certo che sei proprio una peste!», osservò Steve, chinandosi tuttavia a baciare Alison sulla fronte. La piccola sorrise.

    «Allora? Vi decidete?», cercò di tagliare corto Rachel.

    «Vai via, tu! Ci disturbi!», fu la candida risposta di Alison.

    Steve e Rachel si guardarono strabiliati.

    «È questo il modo di parlare alla mamma, signorina?», la richiamò Steve.

    «No…», ammise Alison. «Però lei disturba; così tu ti distrai e non mi racconti più la storia!».

    «Oh, va bene, ho capito. Me ne vado!», si arrese Rachel, uscendo. «Buona fortuna!», si udì dal corridoio.

    «Allora… Dove eravamo?», chiese Steve, per riprendere il filo del discorso, mentre lo sciabordare dell’acqua nel lavandino della cucina indicava che Rachel stava lavando i piatti a mano; la lavastoviglie doveva essersi bloccata di nuovo.

    «Alla storia.», gli rammentò Alison.

    «Ah, già, la tua storia… La Piccola Fiammiferaia?».

    «No, perché muore.».

    «I Musicanti di Brema?».

    «No.».

    «Alì Babà e i Quaranta Ladroni?».

    «No.».

    «Uff, Alison, non me ne vengono in mente altre! Suggeriscimi tu qualcosa!», rinunciò Steve.

    «Non lo so!», sbuffò la bambina.

    «Ma così domani mattina non avremo ancora trovato una storia!», le fece notare Steve.

    «Raccontamene una tu! Non una di quelle famose, che stanno sui libri. Una storia tua.».

    «Ma, Alison, io non conosco nessuna storia!», confessò Steve, dispiaciuto.

    «Non è possibile, almeno una devi conoscerla!», si rifiutò di credere Alison.

    «Ti dico di no! Mi dispiace, piccola.», aggiunse Steve, vedendo che i teneri occhioni azzurri di Alison si stavano spegnendo, sfumando nel blu profondo. Quelli erano gli occhi di suo padre, non c’era dubbio.

    «E allora inventala!», provò ancora Alison.

    «Mi dispiace, piccola, ma non sono capace…», fu costretto a confessare Steve.

    «Sei cattivo!», mugugnò Alison, a testa bassa.

    «Ma no, dai! Aspetta!», cercò di prendere tempo Steve. «Forse, se ci penso, mi viene in mente qualcosa…».

    Alison sollevò lo sguardo, illuminandosi improvvisamente.

    «E cosa?», chiese.

    «Un istante. Fammi pensare.», disse ancora Steve. Povero me!, pensò.In che guaio mi sono cacciato! E adesso chi la sente, se non trovo una storia decente!.

    «Dai, zio, la storia!», lo incalzò Alison, anche se non ce n’era alcun bisogno.

    «Un momento! Ci sono quasi, aspetta!», temporeggiò ancora Steve.

    Una storia. Gli serviva una storia: una storia bella, piacevole da ascoltare per una bambina. E doveva essere vera. E Steve aveva proprio la storia adatta... ma non poteva raccontarla. Erano passati anni da allora. Tutti sapevano. Anche sua sorella Rachel aveva sempre saputo. O, meglio, credevano di sapere. Nessuno, però, aveva mai osato risollevare l’argomento, quanto meno non in presenza di Steve; non una sola volta, in tutti quegli anni. E ora lì, davanti a lui, c’era una bambina – che oltretutto, era la sua unica nipote, che lui adorava –, che lo implorava di raccontarle una storia. Forse era il caso di cominciare a parlare… Per la prima volta, dopo anni che erano sembrati lunghi un’eternità, forse era giunto il momento di ricordare…

    «D’accordo, Alison: forse ho quello che ci vuole per te!», annunciò alla fine Steve.

    «Davvero? E che storia è?», esclamò la bambina, felice.

    «È una storia accaduta qualche anno fa…». Steve si fermò. Non era passato poi così tanto tempo, ma a lui sembrava passata una vita.

    «Quanti?», chiese Alison, da sempre grande amante dei dettagli.

    «Sette. Sette anni fa.».

    Sette anni. Erano passati sette anni, da allora!

    «Io ne ho cinque e mezzo. Sette anni sono più di cinque e mezzo, vero, zio?».

    «Sì, piccola. La tua mamma e il tuo papà non erano ancora sposati.».

    «Ah… E loro c’entrano con la tua storia, zio?».

    «Be’, non proprio.».

    «Ah… Allora di chi è la storia?».

    «Mia. È la mia storia. Mia e… di qualcuno che tu non conosci.».

    «Ah… E chi?».

    «Un po’ di pazienza e lo scoprirai.».

    «Va bene!», sorrise Alison, sistemandosi meglio sotto le coperte. «Ascolta bene, Teddy!», aggiunse poi con materna severità, rivolta al suo orsetto. «Lo zio adesso ci racconta una storia bellissima!».

    Steve sorrise, ammirando quella scenetta. Per un attimo, gli sembrò quasi che il sorriso stampato sul musetto di Teddy si facesse più ammiccante, quasi che anche il peluche, benché non fosse altro che un peluche, fosse a suo modo curioso di ascoltare la storia; quasi che anche l’orsetto avesse compreso che quella che Steve si accingeva a raccontare non era una storia qualsiasi. Sentì qualcosa contrarsi, dentro di lui: quello non era un semplice orsetto…

    «Bene. Cominciamo, allora?», invitò Steve, accomodandosi meglio accanto a Alison, con le spalle verso la porta; motivo per il quale non si accorse che sua sorella aveva preso una sedia e si era sistemata proprio dietro la porta socchiusa, per sentire anche lei la storia che stava per raccontare. Non la vide né la udì, perché Rachel fu attenta a non fare il minimo rumore. Aveva capito; aveva capito che, finalmente, il momento era arrivato e che, se Steve l’avesse vista, forse non avrebbe parlato.

    «Coraggio, fratellino, ti stiamo aspettando.», mormorarono le labbra di Rachel, senza emettere alcun suono. Una morsa pareva serrarle lo stomaco, mentre attendeva che Steve incominciasse.

    Steve prese fiato. Stava per farlo; stava per rivelare qualcosa di cui non aveva mai parlato a nessuno. I suoi occhi si soffermarono su Teddy. Anche quello era un regalo che aveva fatto alla nipotina un paio di anni prima, quando la bimba, durante un pomeriggio trascorso con i genitori a casa di Steve, si era innamorata di un orsetto che aveva trovato nella camera da letto dello zio. Era un orsetto molto bello, sì, ma Steve avrebbe volentieri accettato di privarsene per donarlo a sua nipote; in circostanze normali l’avrebbe fatto, ma allora non aveva potuto. Non quell’orsetto. Poi, dal momento che Alison era scoppiata a piangere al suo rifiuto, Steve era corso al più vicino negozio di giocattoli e ne aveva acquistato uno il più simile possibile al suo, forse anche più bello, e lo aveva consegnato alla bambina, che l’aveva accolto fra salti e strepiti di gioia, estasiata all’idea di possedere un giocattolo quasi identico a quello dell’amatissimo zio. E, da allora, quello era diventato Teddy, l’orsetto preferito di Alison.

    Il cuore di Steve aveva quasi sanguinato, perché, anche se solo per un momento, aveva spezzato il cuoricino della sua bambina; ma non aveva potuto fare altrimenti. Persino Rachel aveva capito o, forse, chissà, solo indovinato, e si era schierata dalla sua parte. Non era un semplice orsetto. Non lo era affatto. E, fortunatamente, Alison se n’era in seguito dimenticata, presa com’era dal suo Teddy; o, magari, ciò era dovuto al fatto che Steve fosse andato a nascondere il suo peluche in un posto dove gli occhi di Alison non avrebbero potuto scovarlo. Chissà.

    «Allora, zio? La storia!», rammentò Alison.

    «Sì, scusami, piccola.», si affrettò a dire Steve, riavendosi dai suoi pensieri.

    Prese nuovamente fiato, inconsapevole del suo pubblico – Alison, Teddy e Rachel –, quasi come se dovesse parlare a se stesso. E iniziò così la sua storia:

    II

    RICORDI DI UN’ESTATE

    Sandham, 2008

    «Faceva un caldo incredibile, quel giorno. Non ricordavo una giornata simile da tantissimo tempo. Credo che sia stata una delle giornate più calde di tutta la storia d’Inghilterra. Era l’estate del 2008, verso la fine di luglio. Io ero a casa per le vacanze. Avevo appena compiuto ventun anni. Era l’estate precedente il mio ultimo anno d’università. Ero emozionato. Sì, non potevo fare a meno di avvertire un brivido, ogni volta che pensavo che mancava solo un anno e poi avrei cominciato davvero la mia vita: avrei avuto il mio lavoro, un vero lavoro e non un lavoretto da studente; mi sarei finalmente comprato una casa; avrei cambiato l’auto e mi sarei creato una famiglia. Sembrava tutto così indistinto e lontano nel tempo, ma i miei progetti erano già chiarissimi nella mia mente. Non sapevo quando li avrei realizzati; davvero, non ne avevo idea. Ma era ciò che desideravo: una vita normale, senza grandi fasti, senza eccessive ricchezze, senza forti emozioni. La verità è che sono sempre stato troppo calmo o, forse, troppo timido. E non avevo idea che quell’estate, quell’ultima estate, sarebbe accaduto qualcosa che mi avrebbe cambiato definitivamente; qualcosa che mi avrebbe reso un’altra persona, facendomi diventare molto, molto diverso da quello che ero sempre stato.

    Non potevo neanche immaginare tutto questo quel pomeriggio, quando uscii di casa. Avevo un appuntamento con i miei amici. Dovevamo vederci in centro e poi saremmo andati a bere qualcosa. Sandham è sempre stato un paese piccolo, lì nel sud-est dell’Inghilterra, senza grandi attrattive né divertimenti; ma era il paese in cui ero nato e dove avevo frequentato le scuole fino alle superiori. Tutti i miei più cari amici vivevano lì; eravamo nati e cresciuti in quel paesino e, anche se parlavamo sempre di andarcene, nessuno di noi lo ha mai fatto sul serio. Alcuni ci hanno provato, ma, ogni volta, sono ritornati. Solo io ho avuto davvero il coraggio di andarmene.

    Ad ogni modo, quell’estate mi trovavo lì, a casa dei miei genitori. Eravamo di nuovo tutti insieme; Rachel era molto indaffarata con i preparativi del suo matrimonio, che si sarebbe celebrato a settembre, e aveva bisogno dell’aiuto costante di nostra madre, perciò era tornata momentaneamente a vivere con noi, rioccupando la sua vecchia stanza; io, invece, non ero ancora andato via, se non per l’università. E fu da quella casa sulla River Street che uscii, quel pomeriggio di fine luglio. Lo ricordo tuttora come fosse ieri. Le strade erano deserte per il caldo; ad essere affollata era solo la spiaggia, che si trovava dalla parte opposta del paese, rispetto a casa mia. Camminavo in fretta, perché ero uscito con qualche minuto di ritardo e non volevo fare aspettare i miei amici. Mi hanno sempre rimproverato di essere un ritardatario cronico, ma con il tempo sono migliorato. Ero solo un ragazzino dai capelli biondo scuro, lisci e corti ma con il ciuffo un po’ all’insù, e gli occhi azzurri, da sempre la mia arma segreta con le ragazze, perché supplivano alla mia timidezza. Non sembravo che un ragazzino dotato di un grande fascino che non sapevo come sfruttare; o, almeno, questo era ciò che diceva mia sorella Rachel. Lei era più grande di me di tre anni; aveva già terminato l’università e lavorava da un paio d’anni in una grande impresa, dove aveva conosciuto George, il suo futuro marito. Rachel è sempre stata molto diversa da me; è così perspicace e allegra, che a volte stento ancora a credere che siamo fratello e sorella.

    Percorsi rapidamente River Street; all’angolo, girai a sinistra, per proseguire lungo Lombard Street, una delle strade principali del paese, dove, secondo la tradizione, si trovavano le banche, ma anche una marea di negozi, specialmente di souvenir, dato che Sandham è sempre stata una località turistica, per via del mare.

    Guardai l’ora. Il mio orologio, precisissimo al contrario di me, segnava le quattro e un minuto. Ero già in ritardo e, continuando a camminare a quella velocità, mi sarebbero stati necessari almeno altri cinque minuti per raggiungere il luogo dell’appuntamento con i miei amici; ancora una volta, la mia fama di ritardatario non sarebbe stata smentita. Pensai di aver sbagliato a prestare l’auto a mia sorella, perché la sua era dal meccanico e aveva urgente bisogno di andare, per la milionesima volta, a provare l’abito da sposa insieme a mia madre, che, nonostante i continui rimproveri di mio padre, non aveva mai imparato a guidare e, quindi, non aveva mai posseduto un’auto.

    Tenevo ancora gli occhi bassi, rivolti al polso sinistro, dove portavo l’orologio: un modello semplice ma elegante, dorato e con i numeri romani, che mi avevano regalato anni prima e che avevo sempre adorato; non mi accorsi, quindi, che qualcuno era appena uscito dal negozio di cappelli e stava venendo nella mia direzione. Ci scontrammo. Mi resi conto di quello che era successo solo quando mi trovai a terra.

    «Ahi!», si lamentò la ragazza con cui mi ero scontrato.

    «Ti sei fatta male?», chiesi preoccupato, sapendo di avere torto.

    «Be’, direi!», sbottò lei, ancora a terra, mentre si massaggiava un braccio.

    «Posso aiutarti?», mi offrii, porgendole la mano, dato che mi ero già rialzato. Ma la ragazza rifiutò il mio aiuto.

    «No, grazie.», sbuffó, contrariata.

    La ragazza indossava un berretto, che le nascondeva i capelli, e, in più, teneva lo sguardo a terra, perciò non potevo vederla in viso.

    «Perché non guardi dove vai?», sbottò di nuovo, alzandosi a fatica.

    «Be’, anche tu dovresti!», sbuffai a mia volta. Se anche ero stato distratto, altrettanto doveva esserlo stata lei, altrimenti avrebbe almeno cercato di evitarmi.

    Appena rialzatasi, la ragazza sollevò lo sguardo su di me, in gesto di sfida: evidentemente, dovevo averla offesa; ma non disse nulla. Aveva il berretto fuori posto e se lo tolse con un gesto stizzito della mano. Scosse il capo e quella visione mi lasciò a bocca aperta. Il sole le illuminò il viso, fino ad allora rimasto in ombra, e la vidi. E mi accadde qualcosa che non mi era mai successo prima e che non si è mai più ripetuto in seguito: fu come se il mio cuore perdesse un battito, fermandosi per un momento, mentre un dolore acuto lo trafiggeva da parte a parte. La giovane era poco più bassa di me e molto magra; nel complesso, una ragazza come tante. Ma il suo viso! Il suo viso aveva qualcosa che non avevo mai visto in nessuna ragazza al mondo né ho mai più rivisto dopo di allora. Aveva tratti fini e delicati. La fronte alta era coperta appena dai capelli: capelli neri, nerissimi, quasi come quelli delle donne orientali, resi lucidi e splendenti da meravigliosi riflessi di una tonalità di blu tanto inconsueta quanto stupefacente; erano lunghi fin quasi alla vita e lisci, sempre al pari delle donne orientali. Il naso, delicato e perfetto, era cosparso di una miriade di efelidi bionde, che le conferivano un’aria da monella che si rifiuta di crescere, come una sorta di Peter Pan al femminile. La bocca, irrigidita dalla rabbia e rossa come il sangue, era semiaperta e lasciava intravedere i denti bianchissimi; seppur contratte in una smorfia, le labbra tumide disegnavano una curva sensuale che faceva venire

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