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La pazienza delle variabili
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E-book286 pagine3 ore

La pazienza delle variabili

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Info su questo ebook

Ci comportiamo come se fossimo immortali, ma in realtà viviamo tra la vita e la morte molto più spesso di quanto immaginiamo. Damir Kosara ci porta in una storia che sa tanto di vita, di vita voluta con caparbietà e determinazione, perché, in fondo, alternative non ne abbiamo, se non la rinuncia.
Da un’infanzia inutilmente dolorosa il protagonista sviluppa capacità forse innate, ma senz’altro sviluppate, coltivate e acuite per cercare non di sopravvivere ma di vivere nonostante tutto e nonostante la cattiveria di chi più dovrebbe amarci in ogni caso.
Tra salti temporali si dipana la storia di Dember, un uomo coraggioso e generoso, morto e rinato tante volte, quelle necessarie per vivere consapevolmente.

Damir Kosara nasce il 5 luglio 1977 a Mondovì (CN). A 13 anni decide di studiare a Savona all’istituto tecnico nautico, dove si è diplomato con la qualifica di Capitano di lungo corso. Dopo un meraviglioso anno in marina militare ha iniziato a lavorare in piscina dove è stato un appassionato insegnante di nuoto, soprattutto con i bambini timidi, “problematici” e disabili con molta sensibilità ed empatia. In seguito a un incidente in piscina ha riportato delle lesioni che lo rendono invalido. Per questo è stato affidato agli assistenti sociali che lo fanno partecipare a progetti di recupero e reinserimento sociale a Roccaforte Mondovì. Con un’attrazione irresistibile per l’acqua, quasi fosse il suo ambiente naturale, è diventato, senza saperlo, apneista a cinque anni.
LinguaItaliano
Data di uscita31 mag 2021
ISBN9788830643895
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    La pazienza delle variabili - Damir Kosara

    cover.jpg

    Damir Kosara

    La pazienza

    delle variabili

    © 2021 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l., Roma

    www.gruppoalbatros.com - info@gruppoalbatros.com

    ISBN 978-88-306-3738-2

    I edizione maggio 2021

    Finito di stampare nel mese di maggio 2021

    presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)

    Distribuzione per le librerie Messaggerie Libri Spa

    La pazienza delle variabili

    Nuove Voci

    Prefazione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterly. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov.

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    In quanto a voi, ecco tutto il segreto della condotta che ho tenuto verso voi: non vi è né felicità né infelicità in questo mondo, è soltanto il paragone di uno stato ad un altro, ecco tutto. Quegli solo che ha provato l’estremo dolore è atto a gustare la suprema felicità. Bisognava aver bramato la morte, per sapere quale bene è vivere. Vivete dunque e siate felici, figli prediletti del mio cuore, e non dimenticate mai che, fino al giorno in cui Iddio si degnerà di svelare all’uomo l’avvenire, tutta l’umana saggezza sarà riposta in queste due parole: Aspettare e sperare.

    Alexandre Dumas, Il Conte di Montecristo

    1.

    Buio.

    Lo odiavano quel dannatissimo buio.

    Il buio era terrore.

    Sapevano che là dentro non poteva succedergli nulla, eppure...

    A dire il vero, in quei momenti, erano più al sicuro che in qualunque altro posto.

    Ma non bastava.

    Non è che non fossero mai contenti, anzi.

    È che impari presto a fare attenzione a cosa desideri.

    Non si sa mai che si avveri per davvero.

    Finché rimanevano chiusi in quello spazio ristretto, nessuno poteva toccarli.

    Il problema arrivava quando le porte si aprivano.

    Ante, per la precisione.

    Le orecchie erano sempre tese, spalancate. Bisognava catturare il più sottile dei rumori. La più labile delle incertezze.

    Passi, chiavi.

    E bestemmie.

    Sì, bestemmie.

    «Hai sempre paura del buio?».

    «Non la smetterai mai di fare domande stupide?».

    «Non è una domanda stupida. È stupida solo perché non la capisci?».

    «È stupida perché è stupida».

    «Uffa».

    Silenzio.

    «Comunque sì».

    «Sì cosa?».

    «Me l’hai chiesto tu. Del buio».

    «Allora ce l’hai sempre anche tu», esclamò sollevato.

    «Certo. Non ce la toglieremo mai e lo sai benissimo. Dovresti smetterla di chiederlo».

    «Non è che continuo a chiederlo, così. È che mi sento meno solo se me lo dici anche tu».

    Silenzio.

    I silenzi duravano lo stretto necessario per tentare di capire cosa stesse accadendo fuori.

    Più parlavi, più facevi rumore e il rumore non andava bene.

    Non sentivi e potevi farti sentire.

    Brutta storia.

    «Facciamo schiena contro schiena?».

    «La smetti di fare il bambino?».

    Non vedeva l’ora che il fratello più piccolo glielo chiedesse.

    Orgoglio.

    Quando sei più grande devi anche sentirti più grande. Cosa che non gli era mai riuscita con lui.

    Lui era il più piccolo. Li separavano appena due anni, ma quell’essere più grande lo mandava in bestia. Aveva una marcia in più il piccolo e non lo sopportava.

    «Ma io sono un bambino. Ho solo quattro anni».

    «Beh dovresti iniziare a crescere».

    Silenzio.

    A crescere.

    Come se ci fosse un’età giusta per farlo.

    Di certo, con loro, la vita stava mettendo fretta.

    «Allora?».

    «Allora cosa?».

    «Schiena contro schiena?».

    «E va bene».

    Era felicissimo di poterlo fare, ma non gli avrebbe mai dato la soddisfazione di dirglielo.

    Ancora silenzio.

    Attimi che sembravano durare un’eternità.

    «Non stai meglio, ora?».

    «Mah, cambia poco», rispose mentendo.

    «Dovresti smetterla di dire le bugie. Non si fa».

    «Io non dico le bugie».

    «Sì invece».

    «Come fai a dirlo? È un’altra delle tue invenzioni. Credi sempre di sapere tutto!».

    «Io non invento mai niente. Quando dici le bugie fai ballare la gamba».

    Maledizione, pensò.

    Quel dannato osservatore. Riusciva a catturare sempre ogni piccolo dettaglio.

    Il piccoletto poteva sembrare tonto, ma solo per convenienza.

    Riservatezza, l’avrebbe poi definita lui, una volta cresciuto.

    Anonima furbizia, l’avrebbero chiamata altri.

    Il suo noto silenzio appariva sempre come una stupida timidezza. Era un osservatore, un indagatore nato. Non gli sfuggiva nulla. Anche quando sembrava distratto, alla domanda giusta rispondeva con l’osservazione giusta.

    Puntuale.

    Spesso anticipava le domande e se ne usciva fuori sempre con l’intuizione esatta e la risposta pronta.

    Puntuale.

    «Ma come cazzo fa?», si chiedeva la gente.

    Aveva una mappa in quella piccola testa. Magari si dimenticava cos’aveva mangiato a pranzo. Ma se gli si chiedeva il tal giorno, alla tal ora, cosa fosse apparso in un preciso istante, passato in un certo luogo, accaduto in un determinato momento, quella cazzo di testolina si metteva in moto. Alcuni giuravano di sentire gli ingranaggi accendersi, partire e, in men che non si dica, lui vomitava informazioni di un’imbarazzante precisione.

    Apriva la mappa, lui, e giù con i rigurgiti.

    Vomitava ciò che quella straordinaria memoria teneva al caldo.

    Nemmeno fosse un vulcano.

    Buttava fuori quella voglia di essere considerato.

    E ci riusciva.

    Lasciava tutti a bocca aperta.

    Increduli ed invidiosi.

    «Dovresti smetterla sai?».

    «Di fare cosa?».

    «Di smascherare sempre tutti. Potresti diventare antipatico a tanti».

    «Non mi importa. Tanto li smaschero lo stesso anche se non glielo dico. Anche se sto zitto».

    «Ecco, fai così. La cosa peggiore di te è che pensi sempre di avere ragione. La cosa che manda in bestia è che la maggior parte delle volte ce l’hai», sbuffò.

    «Facciamo il gioco degli odori?».

    «Qui l’odore è sempre lo stesso».

    «Secondo te perché mamma ci chiude sempre nell’armadio?».

    PUM!

    Così.

    Forte e terribile.

    «Basta! State ziti o apro e ve ne do altre!».

    Ecco.

    Quello era il suo modo di parlare.

    Il suo accento.

    Quel merdosissimo accento tipico dell’Est.

    Le doppie le dimenticava.

    O le faceva sparire.

    Se le mangiava, più che altro.

    Era come se quella lingua, per lei, viaggiasse su un binario e, alla prima doppia, prendesse lo scambio.

    Il colpo fu fortissimo.

    Era sempre fortissimo.

    Alle loro piccole orecchie sembrava una bomba. Una di quelle dei film che i bambini piccoli non possono guardare.

    Perché sono da grandi.

    Perché fanno paura.

    Ma lì, la paura era ben più grande di quella dei film.

    I due cuori pareva dovessero fermarsi da un momento all’altro.

    Stavano parlando troppo, è vero, ma solo per un motivo si sentirono in colpa.

    Con loro stessi, con chi altri.

    Non l’avevano sentita arrivare.

    Colti di sorpresa.

    Il peggiore degli spaventi.

    Era solo una parte.

    Del terrore, s’intende.

    Lacrime, singhiozzi, nasi colanti, bave cadenti.

    Copione già visto, già vissuto.

    Troppe volte, forse.

    Interminabile silenzio.

    In quell’armadio potevano restarci pomeriggi interi.

    A sfidare il buio.

    A sfidare l’ossigeno.

    In mezzo a quei cappotti l’insopportabile caldo.

    Soffocante.

    L’odore della naftalina non si fermava alle narici.

    No, maledizione.

    Entrava nei polmoni e da lì a martellar la testa.

    Fino ad anestetizzarla.

    Per spaccarla meglio.

    Sì, sofferenza.

    «Non lo so. Ci penso sempre ma non riesco a trovare il motivo».

    «A cosa? Al perché ci chiude dentro?».

    «Sì. Me lo chiedo e richiedo, - cosa sbagliamo?».

    «Me lo chiedo anche io. Sempre. E se non fossimo noi a sbagliare?».

    «Ti avevo chiesto per favore di non fare domande stupide. Lei è mamma e le mamme non possono sbagliare. Siamo per forza noi».

    Silenzio.

    «Non ti credo. Non credo che agli altri bambini capitano le stesse cose».

    «Forse non a tutti, ma a molti sì».

    «Non ti credo. Ti balla la gamba».

    Se avesse potuto, avrebbe visto occhi annoiati al cielo.

    «Sei noioso».

    «Ma non è colpa mia. Smettila tu di muovere la gamba».

    «Avevi detto che non me lo facevi più notare».

    «Uffa. Hai ragione, scusa. Io, comunque, i lividi agli altri bambini non li vedo».

    «E va bene, hai ragione anche tu. Non li ho visti nemmeno io».

    «Questo vuol dire che sono più bravi di noi?».

    «Forse. Non sono più sicuro di niente».

    «Dovremmo dirlo a papà».

    «Proprio non riesci a non dire sciocchezze. Se papà lo scopre per noi è finita. Questa volta all’ospedale ci rimaniamo».

    «Non possiamo però far finta di niente. Io sono stanco di cambiarmi di nascosto per non fargli vedere i lividi delle botte».

    «Lo so, ma per ora è così. Forse un giorno finirà. Per ora stai zitto».

    «Dici? Secondo me dobbiamo farla finire noi».

    «Ti avevo chiesto di stare zitto. Non so più cosa dirti. Non senti le scemate che dici?».

    «Non puoi dire scemate. Lo dico a mamma».

    «Ecco bravo. Così ha un’altra scusa per farci saltare cena. Come se già non ne avesse abbastanza».

    «Hai ragione. Sei il più grande, devi avere per forza ragione. Però dobbiamo fare qualcosa. Non so cosa, ma un giorno lo faremo. Senti, grazie per stanotte».

    «Per cosa?».

    «Per il materasso. Da solo non ce la facevo a girarlo».

    «Non l’ho fatto per te. L’odore si sentiva fino da me. Devi smetterla di pisciarti addosso».

    «Non ci riesco. Faccio sogni brutti e mi scappa. Non me ne accorgo. Comunque, anche se non l’hai fatto per me, grazie lo stesso».

    «Incubi. Si chiamano incubi. Non capisci niente».

    «Poi sono io quello noioso. Sai cosa ti dico? Se a papà non posso, lo dirò a nonno. Nonno sa sempre cosa fare. Nonno ci salverà».

    «Dovresti smetterla di sognare».

    Il solito interminabile silenzio.

    Di preciso, non si poteva mai sapere quanto sarebbero rimasti chiusi in quel buco.

    Se, da bambini, avessero conosciuto il termine puttana, con la loro innocenza, di certo l’avrebbero usato.

    Di certo, il peso della valigia sarebbe stato più leggero.

    O di sicuro, meno pesante.

    Quel fardello di botte, di preoccupazioni, di responsabilità non l’avrebbero più dovuto portare.

    «Secondo te domani avremo la roba stirata?».

    «Secondo me faremo come tutti i giorni».

    Il più piccolo sognava il nonno trionfatore sulla picchiatrice.

    Sognava di essere portato al mare, capace di placare il più brutto degli incubi.

    Pensava di avere qualcosa di speciale.

    Era vero.

    Era pieno di guai.

    Di cicatrici.

    No, non solo sul corpo.

    Sull’anima.

    Quell’anima trafficata.

    Quell’anima in fiamme.

    Si stava costruendo una corazza addosso.

    Perfetta, calzante, ma inutile.

    La corazza non ti serve se poi ti brillano gli occhi.

    Se quegli occhi sono lucidi di passato.

    Quegli occhi di bambino.

    Quelli mica te li ridanno indietro.

    Puoi dannarti finché vuoi, ma quello che hanno visto, quello che nessuno può sapere, immaginare, riparare, te lo porterai dentro e fuori.

    Per sempre.

    Su misura.

    Come il vestito.

    Quello bello, da uscita.

    Perché di entrate, quelle ne abbiamo molte.

    Ma di uscite, beh, di quella ne abbiamo una sola.

    Da sipario.

    Una sola.

    E devi dare tutto.

    Devi dare il meglio.

    Capiva che se un oggetto lo scheggi, diventa tagliente.

    Capiva che la stessa cosa valeva per le persone e lui, lui lentamente, lo stava diventando.

    Affilato dentro.

    Tagliente nelle parole.

    Nell’insieme insensibile e letale.

    Capiva che Dio stava facendo, sì, delle scelte.

    Ma sembravano tutte così sbagliate.

    Capiva che i guai avevano preso casa lì.

    E quelli mica è facile farli traslocare.

    Bisognava ripararsi un po’.

    Gli pioveva dentro, al piccolo.

    Che poi, si sa, è un attimo ammalarsi.

    Ma forse lo era già.

    Ogni mattina, con gli occhi pieni di sonno per la notte trascorsa a girare materassi, a togliere lenzuola bagnate, con i crampi allo stomaco per l’ennesimo a letto senza cena, avrebbe aperto la cassapanca. Avrebbe rovistato dentro. Avrebbe trovato i grembiuli, la maglie e le mutande stropicciate e, con cura monacale, li avrebbe stirati con le mani. Così, solo per non doversi far prendere per il culo dai compagni. Per non sentirsi dire che straccioni, che zingari, tra le risate generali.

    I bambini sanno essere più umilianti di chiunque altro. Prendetene nota.

    Tra le urla "venite a bere il cafelate, stupidi".

    Come se tentare di essere più umani, far finta di avere una famiglia come tutti fosse da stupidi.

    Forse lo era.

    Sicuramente, tutto questo, era troppo per piccole spalle porta guai. Forgiate larghe, certo, ma sempre piccole.

    Senza la possibilità di poter crescere leggere.

    Senza la possibilità di crescere spensierate.

    È così che si cresce prima.

    È così che ti senti perso tra gli altri bambini.

    È così che diventi e cresci ribelle, disobbediente.

    Freddo e razionale.

    Che ti incanti, fissando il vuoto.

    Sognando una nuova storia.

    La tua storia.

    È il prezzo della sofferenza.

    Il prezzo che dobbiamo pagare per quella cazzata di Adamo.

    È esattamente lì che si creano linee sottili.

    Tra il fare e il sognare.

    Tra il sognare e il vivere.

    Tra il diventare cinico o realista.

    Il cinico conosce il lato frivolo della vita.

    Il realista, ne conosce le tragedie.

    E le combatte.

    Combatte quelle ingiustizie perché sì, il senso di ingiustizia lo avrebbe perseguitato tutta la vita. Certo, sarebbero diventati poi quasi amici, ma l’ingiustizia rimane ingiustizia.

    E non ti fiderai mai più di nessuno.

    Di nessuno.

    Tutto troppo per due bambini.

    Quattro e sei anni.

    Troppo pochi.

    La felicità diventa un miraggio.

    Diventa irreale.

    Smetti di credere nell’improbabile ed inizi a fare l’occhiolino all’impossibile.

    Che chissà, quell’impossibile magari ti riesce.

    Il confine tra subire e lottare.

    Tra sperare e sputare.

    Tra sputare e bestemmiare.

    «Che ore saranno?».

    «Non lo so, ma mi brontola lo stomaco».

    «Già. Abbiamo saltato pranzo, dev’essere quasi ora della merenda».

    «Inizia a mancarmi l’aria».

    PUM!!

    «Adeso mi avete stufato».

    Puntualmente i cuori si fermarono ancora dalla paura, per poi riprendere a folle velocità. Come se fossero loro a dover scappare.

    Più paura, meno ossigeno.

    «Non ce la faccio. Mi manca l’aria».

    «Ti prego resisti! Facciamo a chi tiene di più il fiato?».

    Anche quando lo trattava male, spesso, il piccolo correva sempre e comunque ad aiutare il fratello.

    Ora bisognava distrarlo.

    Per farlo resistere.

    «Anche quando stiamo da schifo non riesci a non dire scemate».

    «Era per aiutarti. È una specie di gioco. Quando ci hai le paure addosso, che ti schiacciano. Per provare a toglierle. Poi tornano. Per forza che tornano. Ma almeno per un po’ le hai fregate, no?».

    «Trattenere il fiato non mi aiuta a respirare meglio, stupido».

    «Certo che no, ma almeno non ci pensi. Sì, forse è stupido, ma cerco di aiutarti».

    «Beh cerca di

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