Io, Icaro e il Telecomando
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Info su questo ebook
Uno studente universitario nella Urbino pseudo colta e artistica degli anni Ottanta del secolo scorso. Le abitudini, le trasgressioni, una certa misoginia, gli amori e le inevitabili delusioni fino all'età matura, con i problemi di lavoro, di rapporti e di adeguamento all'ambiente. Fino alla resa finale. Un linguaggio quasi sperimentale, al limite del gergale, con una descrizione fredda degli ambienti di quegli anni fondamentali per comprendere l'evoluzione del mondo contemporaneo.
Quelli di ZEd
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Anteprima del libro
Io, Icaro e il Telecomando - Quelli di ZEd
Indice
PARTE I
PRIMA.
PARTE II
DOPO.
L'Autore
Enrico Maria Guidi
Io, Icaro e
il Telecomando
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Io, Icaro e il Telecomando
Copyright © 2014 Zerounoundici Edizioni
ISBN: 978-88-6307-883-1
Copertina: immagine Shutterstock
PARTE I
PRIMA.
C’è tanta gente che fa Mao Mao. Perché faccia Mao Mao… questo proprio non saprei dirlo. C’è capitata per caso… forse.
Non so come sia successo. Non so perché. Mi ci sono trovato. Improvvisamente. È come scendere per strada e accorgersi che si è fatta una scelta, il più delle volte una fottuta scelta che però, ormai, si è fatta. E tutto si trasforma, diventa altro e comincia a girarti attorno come una trottola e a essere tanto vero come un film virtuale, come un essere perfetto con la pelle sintetica e gli occhi bionici che fanno frii frii quando girano. Mi pare di esserci cascato per caso, per un errore di calcolo magari o, forse, perché ho spinto il tasto sbagliato del telecomando. Lì, voglio dire, cosa ci facevo? In quello spillo di mondo, dove il privilegio è sempre quello di non esserci.
Io Icaro lo avrei evitato volentieri, ma m’è capitato tra le palle, come il dito medio di una donna che ti sottolinea la divisione tra le due. Non l’ho cercato e non l’avrei neppure frequentato se la notte non fosse caduta all’improvviso, metallica e impasticcata, nel mezzo della notte stessa. Avrei dovuto spegnere tutto con il telecomando, una leggera pressione e… più nulla.
M’ero fermato nell’agorà, fermato proprio, ansimante e desideroso di riposo dopo l’ennesima salita, seduto sullo scalino di un portico a fissare il vuoto di gente e di prospettiva che avevo davanti. Non volevo nessuno e nulla, solamente stare lì, come un manichino metafisico, ad aspettare un’ora giusta, una delle tante, per stordirmi tra le lenzuola, affossato nel cuscino duro e teso, sotto il piumino d’oca originale e il lampeggio paranoico della radio sveglia, puntata su di un canale qualsiasi, di quelli che trasmettono ventiquattro ore su ventiquattro musica del cazzo, per lo più nella lingua barbara d’oltremanica.
«Già visto gli altri?» mi disse, e io mi accorsi che lo conoscevo appena. È vero, sembra impossibile non conoscere qualcuno, almeno di vista, qui, in questa città morta, piccola, dove tutti conoscono tutti, dove il privato è collettivo. Ma è altrettanto reale che, anche se avevamo fatto le scuole assieme, più o meno tutte, e ora ci trovavamo ogni fottuto mattino nella stessa aula universitaria, fianco a fianco, nelle stesse biblioteche, alle stesse mostre, rendermi conto che lo conoscevo appena era una realtà effettiva.
«Gli altri chi?» risposi, ma era già sparito come un ologramma infernale. Non ci feci molto caso, non me ne fregava nulla, era uno come tanti, forse più stordito degli altri e certamente più di me, che non ero ancora stordito per nulla, solamente affaticato dalla salita.
Lo immaginavo però, percepivo dove sarebbe andato o finito anche quella sera. Lo vedevo uscire, in perfetta dimensione estetica, con la giacca blu e affannato, sudato, dall’ultimo vernissage. Appoggiarsi a un muro con la mano destra e piegarsi in avanti, non troppo lontano dall’entrata della mostra, e vomitare tutti i tramezzini mangiati. Poi, come se nulla fosse, come se il suo stomaco fosse un sostituto sintetico, rientrare aggiustandosi il colletto della camicia, o il nodo della cravatta firmata, e infilarsi in bocca una mentina.
Rimasi ancora un poco seduto sugli scalini indeciso su cosa fare. Qualcuno sarebbe certamente arrivato e non era una preoccupazione imminente, non sapevo bene cosa me ne sarei fatto della presenza di qualcun altro. La sera passò tra inutili discorsi e risate, tra bibite e birre, come sempre, come ogni sera.
Il ripetersi è un vizio sottile. Ci si carica fino all’infinito a forza di ripetere se stessi. È come sforacchiare con un cacciavite la stessa superficie per anni, aspettando che sia totalmente sfonda e senza la possibilità di venderla a qualche miliardo di lire, a meno di falsificare una firma. La ripetitività non ha nessun altro nemico che la noia, se si cade nella noia allora anche il ripetersi diventa un gioco da rottinculo, sei fottuto per sempre. Nella noia non si ha più nulla da fare, ma nella ripetitività si diventa anche creativi, anzi necessariamente creativi, perché tanto tutto è assolutamente, merdosamente ripetitivo. E allora può succedere che si sogni, che si immaginino cose anche bellissime, come assistere al banchetto degli avvoltoi che si avventano su di un povero fesso legato nudo sotto il sole nel deserto del Nevada.
C’è il deserto in Nevada? Boh!
Gli avvoltoi che si pappano le mucose, le labbra prima… poi gli occhi… i coglioni e la fisichella pendula. Poi aprono a beccate la pancia e ficcano dentro il collo… fatto apposta il loro collo per entrare nel ventre, un collo quasi pneumatico, e tirano fuori le budella. Si pappano tutto. Uno splendido cocktail di film italian-western infantili e documentari naturalistici che sembrano finti come i western. E la ripetitività a volte si interrompe, o meglio, sembra interrompersi, se arriva qualcosa di nuovo…
Un’altra fottuta ripetitività.
E infatti proprio in quei tempi avevo conosciuto una ragazza, diciamo la tipa, che era da fuori di testa. Mi piaceva per i suoi modi, oltre che per come era fatta. Mi assorbiva completamente ed è raro trovare una donna così, una che non ti annoia con la sua voglia di sesso, con il volere sempre affermare la propria femminilità. Era come, dopo tanti anni di bocchini veloci, di scopate del devo farlo per dimostrare cosa poi non si sa, di rapporti stancanti e meccanici, quasi informatici, ritrovare qualcuno con cui parlare e fare un probabile sesso senza tanti problemi o interrogativi. Una pacchia.
Stavamo davanti alla città. La vedevo in tutta la sua grandeur, la città. Si delineava lungo il colle come una donna stesa, anche se con quelle due torri sembrava più un uomo che non sapeva bene più un cazzo di un cazzo, con una pompa a pile eterne al posto del cardio e che non voleva più saperne di nulla, se non di scaricare il seme almeno una volta alla settimana. Ma il paesaggio superava ogni limite, era un essere a sé, qualcosa che assorbiva e che rimandava ad altre occasioni, ad altre eventualità. Uno scenario hollywoodiano costato un occhio della testa.
«Piano che si consuma» le dissi mentre armeggiava, tirando come un’ossessa, a una canna mal confezionata che voleva a tutti costi passarmi… ma una volta fumato l’avrei mandata in culo, lei e tutte le sue bellezze.
«La vuoi far fumare al vento?» disse con due occhi pallati e lucidi.
Fumare o no, aspettavo che dicesse qualcosa di concreto, del tipo ti va da me?
, ma non succedeva nulla e io mi sentivo sempre più stanco e già pensavo alla levataccia del giorno dopo e ai libri che mi aspettavano con un sorriso sadico e attraente sulla scrivania chiara - cavalletti con piano sopra, pieno stile minimale tipo Miami Vice o bancone del falegname, costata una fortuna per via della firma dell’architetto - ricordandomi i giorni che mancavano agli esami. Così all’una le dissi che dovevo andare
«Scusa è tardi, devo andare…» le dissi, iscrivendo le mie potenzialità espressive al registro delle frasi fatte, dei topi linguistici. Lei ci rimase niente male, anzi si accorse che era tardi e che pure lei doveva rientrare, che le amiche probabilmente erano già a dormire - con chi poi chissà? - e che poi, soprattutto, il mattino dopo avrebbe dovuto studiare duro pure lei.
Un mese dopo la situazione non era cambiata per nulla. Ci si vedeva e scopare niente, si parlava in mezzo a tanta gente che parlava, beveva, sniffava e si fumava, si bucava no! quelli erano banditi perché schifosi. E poi c’erano quelli che ti tiravano dentro Hegel o la statuetta di marmo trovata vicino a Roma. A volte però ci si divertiva a fare certi discorsi pataccosi. Soprattutto con i moralisti, quelli che ti sparano davanti l’etica e la deontologia, che sembra una strana malattia, mentre sorseggiano il terzo cuba libre dopo la canna fantastica di maria calabrese e che si affannano subito dopo per avere i semetti da piantare nel vaso che sta sul terrazzo e che la mamma, contenta per la vocazione botanica del pargolo, annaffia ogni tre giorni domandandosi poi per mesi perché il suo bimbo le aveva sradicate tutte proprio quando erano belle alte e piene di foglie, per appenderle a testa in giù nella stanza più buia della casa. Era divertente, dicevo, dire loro che l’etica è una stronzata, è un’invenzione bassa e raccapricciante della mente umana, come il latino o il greco, che insomma sono tutte merdate perché tanto chi c’è c’è e chi non c’è non c’è.
Non era un problema di serietà, c’era in gioco la carriera, e tutti sapevamo che chi vuole andare avanti deve avere le palle quadrate, certo, ma anche lo stomaco di ferro e il culo aperto come il tubo