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La vergogna del buffone
La vergogna del buffone
La vergogna del buffone
E-book297 pagine4 ore

La vergogna del buffone

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Info su questo ebook

"Essere buffone era cosa abbastanza dolorosa, ma infinitamente più doloroso era dover confessare che sotto la mia giubba era nascosta una personalità patrizia. Infatti, per quanto possa essere vile il mestiere del buffone, non è mai altrettanto vile per un plebeo indolente o infermo, quanto per uno che vi si è messo un po' per codardia, e ha continuato ad esercitarlo attraverso ogni degradazione". Ambientato in una colorita Italia rinascimentale, segnata da violenze di ogni tipo, "La vergogna del buffone" è uno di quei romanzi "cappa e spada" per cui Rafael Sabatini ha ottenuto immensa popolarità all'inizio del XX secolo. Protagonista della vicenda è lo sventurato Lazzaro Biancomonte, uomo di nobile stirpe ridottosi, per una serie di ragioni, a fare da giullare di corte. Sono gli anni in cui imperversa la figura avventurosa di Cesare Borgia – detto il Valentino – autentico prototipo di principe cinico e ambizioso. Riuscirà Lazzaro, al seguito della bella Madonna Paola di cui è innamorato, a trovare una redenzione dalle sue scelte discutibili? -
LinguaItaliano
Data di uscita15 feb 2023
ISBN9788728552957
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    Anteprima del libro

    La vergogna del buffone - Rafael Sabatini

    La vergogna del buffone

    Translated by Alfredo Pitta

    Original title: The Shame of Motley

    Original language: English

    Immagine di copertina: Shutterstock

    Copyright © 1935, 2022 SAGA Egmont

    All rights reserved

    ISBN: 9788728552957

    1st ebook edition

    Format: EPUB 3.0

    No part of this publication may be reproduced, stored in a retrievial system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.

    This work is republished as a historical document. It contains contemporary use of language.

    www.sagaegmont.com

    Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.

    RICORDI DELLA VITA DI LAZZARO BIANCOMONTE, DI BIANCOMONTE, GIÀ BUFFONE ALLA CORTE DI PESARO

    PARTE PRIMA

    FIORE DI MELO

    LA VERGOGNA DEL BUFFONE

    I.

    Il Cardinale di Valencia.

    Da tre giorni mi aggiravo nei pressi del Vaticano, seccato di dover attendere così a lungo. Mi infastidiva di essere stato trattato con tanta leggerezza dopo aver assolta la missione per la quale ero venuto fin da Pesaro, e cercavo di immaginare quanto tempo sarebbe ancora dovuto trascorrere prima che l’Illustrissimo ed Eccellentissimo Cardinale di Valencia, Cesare Borgia, avesse giudicato opportuno di offrirmi il decoroso incarico, che Madonna Lucrezia m’aveva promesso per conto di lui, come compenso del servizio reso alla Casa dei Borgia con questo mio viaggio.

    Erano trascorsi tre giorni, eppure nulla era avvenuto che lasciasse prevedere come gli avvenimenti stessero per prendere la piega da me così ardentemente desiderata, e che mi avrebbe permesso di tornare a galla dopo il mio miserabile naufragio sugli scogli del destino. Ero stato, è vero, nutrito ed alloggiato, e gli agi derivanti dal non dover far nulla erano stati miei; ma intanto avevo ancora il vestito ignominioso indossato al mio arrivo, cosicchè, dovunque vagassi, mi seguiva una folla di mocciosi, nella speranza di divertirsi ai miei lazzi ed alle mie capriole — una folla che, una volta delusa, mi chiamava il più squallido buffone che mai avesse portato la giubba screziata.

    Il terzo giorno, esaurita ogni riserva di pazienza, avevo levate le mani su un paggio, e m’ero trovato costretto a fuggire innanzi alle maledette beffe con le quali i suoi compagni mi avevano preso di mira, correndo per i giardini nebbiosi attraverso la gelida aria del gennaio, il cui morso sopportavo forse meglio a causa dello sdegno rovente che mi consumava. Doveva durare sempre così? Non sarei mai riuscito a sottrarmi a quella maledizione di dover fare il buffone, e, quel che è peggio, per il sollazzo di altri buffoni?

    Fu là, su una delle terrazze che coronano gli splendidi colli di Roma immortale, che mi trovò Messer Gianluca, il siniscalco. Mi salutò cortesemente; gli risposi male, credendo che mi avesse raggiunto per continuare i dileggi cui ero sfuggito.

    — Sua Eccellenza Illustrissima il Cardinale di Valencia domanda di voi, Messer Boccadoro — mi annunciò egli. E credevo ormai così remota la probabilità di ricevere una chiamata del genere, che, per un momento, la ritenni un loro nuovo scherno.

    Ma la gravità dipinta su quella faccia rubiconda mi rassicurò.

    — Andiamo, dunque — risposi con premura; ed ero così certo che l’udienza alla quale ero chiamato costituiva il primo passo verso un migliore avvenire, che mi permisi per un momento di riprendere la mia parte di buffone, dalla quale ritenevo che tra poco sarei stato liberato per sempre. — Mi varrò dell’udienza per indurre Sua Eccellenza a sottoporre una decima beatitudine all’approvazione del nostro Santo Padre: Beati gli apportatori di buone novelle. Andiamo, Messer Siniscalco.

    Lo precedevo, dimentico, nella mia impazienza, della sua pancia sovrabbondante e delle sue corte gambe, in modo da rendergli assai difficile di tenermi dietro. Ma chi non sarebbe stato pieno di furia, se premuto da uno sperone acuto come quello che mi pungeva? Eccomi, infine, arrivato al momento di gettar via il mio odioso travestimento. Domani la divisa del soldato avrebbe sostituita la giubba del pagliaccio; il nome col quale sarei stato conosciuto sarebbe stato quello di Lazzaro Biancomonte, non più di Boccadoro il buffone.

    Questo mi avevano lasciato sperare le promesse di Madonna Lucrezia; e fu con l’animo pieno di gioiosa aspettazione che entrai nel sacrario del grande uomo.

    Mi ricevette in maniera calcolata per mettermi a mio agio, eppure c’era in lui qualcosa che m’incuteva una profonda soggezione. Cesare Borgia, Cardinale di Valencia, era allora nel suo ventitreesimo anno, eppure tutto in lui dimostrava un’età maggiore, così come la porpora cardinalizia faceva sembrare più alta la sua statura, in realtà non superiore alla media. Il suo volto pallido era incorniciato da una morbida barba castana; aveva il naso aquilino e nettamente disegnato; gli occhi erano i più acuti che io avessi mai visti; la fronte era spaziosa e geniale. Sembrava pervaso da una irrequietudine febbrile, da qualcosa di superiore alla vivida vis animi, da qualcosa che agli occhi dell’intenditore lo facevano apparire come un uomo obbediente ad ininterrotti impulsi fisici e mentali.

    — Mia sorella dice — cominciò egli dopo aver risposto al mio saluto — che sareste disposto ad entrare al mio servizio, Messer Biancomonte.

    — Tale fu la speranza che mi guidò a Roma, Eccellentissimo — risposi.

    Un lampo di sorpresa si accese e si spense nei suoi occhi con la stessa rapidità. Le sue labbra sottili si atteggiarono a un sorriso, per me incomprensibile.

    — Quale ricompensa per la fedele consegna della lettera che mi avete portato da parte sua? — domandò quietamente.

    — Precisamente, Eccellenza — risposi con la maggiore franchezza.

    Con la mano aperta egli battè sul tavolo di legno intarsiato al quale sedeva.

    — Lode al Cielo! — esclamò. — Mi sembra che potrò avere in voi un seguace che parla sinceramente.

    — Vostra Eccellenza, che conosce il mio vero nome, che altro poteva attendersi da me, per quanto io porti quel nome indegnamente?

    Egli ebbe uno sguardo tra divertito e ironico.

    — Vi potete ancora vantare dopo aver portato per tre anni quella giubba? — domandò, e appuntò il magro dito indice verso la mia casacca rossa, nera e gialla.

    Arrossii e chinai il capo; e, come per schernire il mio atteggiamento di vergogna, i sonagli del mio berretto fecero udire un argentino tintinnìo a quel movimento.

    — Risparmiatemi, Eccellenza! — mormorai. — Se conosceste tutta la mia miserevole storia sareste più pietoso. Se sapeste con quale gioia mi sono allontanato dalla Corte di Pesaro…

    — Già — interruppe Cesare in tono di scherno: — quando Giovanni Sforza minacciò di impiccarvi per la temerarietà della vostra lingua. Fino ad allora non vi era mai venuto in mente di lasciare la vergognosa esistenza nella quale seiupavate i migliori anni della vostra giovinezza. Vedete? Proprio ora ho lodato la vostra sincerità; ma sembra che essa non sia che quella che ci si può aspettare da un buffone. In fondo, temo che siate soltanto un ipocrita, messer Biancomonte; il peggiore degli ipocriti, anzi un ipocrita di fronte a se stesso.

    — Se l’Eccellenza Vostra sapesse tutto! — esclamai…

    — Ne so abbastanza — rispose con un specie di severo rincrescimento: — ne so abbastanza per essere sorpreso che il figlio di Ottorino Biancomonte di Biancomonte, si sia prestato a divenire il buffone del Signore di Pesaro. Oh, mi direte che siete stato con lui per vendicarvi dei torti che suo padre aveva fatto al vostro…

    — Così era, così era! — protestai con vemenza. — Che le fiamme eterne divorino l’anima mia, se diverso fu il motivo che mi spinse verso tale vergognoso mestiere!

    Ci fu una pausa. Una luce improvvisa illuminò i bellissimi occhi di Cesare mentre mi guardava; poi egli abbassò lentamente le palpebre e respirò profondamente. Ma quando parlò, il disprezzo traspariva dalla sua voce.

    — Senza dubbio è per lo stesso motivo che vi siete tranquillamente trattenuto là per tre anni, indossando in santa pace la giubba del buffone, divertendo il vostro avversario con le vostre capriole e i vostri lazzi, voi, cui la memoria del vostro nobile genitore tristamente danneggiato doveva di ora in ora far sentire il morso della vergogna! Naturalmente, non vi si sarà presentata l’occasione propizia per chieder conto dei suoi atti al vostro tiranno. O non sarà stato piuttosto che vi conveniva di lasciarvi deridere da lui finchè vi alloggiava, vi dava da mangiare e vi vestiva di codesta sgargiante livrea di vergogna?

    — Risparmiatemi, Eccellenza! — esclamai di nuovo. — Per pietà, non parlatemi più del mio passato! Quando egli mi scacciò, minacciandomi della forca, dalla quale la vostra benigna sorella mi ha salvato, ho volto i passi verso Roma dietro ordine di lei per…

    — Per trovare una decorosa sistemazione presso di me — egli interruppe pacatamente. Poi, levandosi all’improvviso, mi domandò tonante: — E che ne sarà, dunque, della vostra vendetta?

    — Non posso più pensarci — risposi, senza pensare che commettevo un errore. — Mi è già sufficiente la rovina che mi sono tirata addosso inseguendo quel fantasma. Signore, sono stato addestrato all’uso delle armi. Fate che io possa buttare via per sempre questi stracci sgargianti, e indossare la divisa del soldato!

    — Perchè siete venuto qui così vestito? — domandò egli ancora, cambiando improvvisamente discorso.

    — Ho agito secondo il desiderio di Madonna Lucrezia. Ella riteneva che così mi sarebbe stato più facile portare a termine la mia missione, poichè i buffoni viaggiano indisturbati.

    Fece segno d’aver capito, e si mise a passeggiare per la stanza a capo chino. Per un certo tempo il silenzio fu rotto solo dai colpi attutiti dei suoi piedi calzati dalle pantofole e dal fruscio serico della sua porpora. Alla fine mi si fermò davanti, alzò la testa per guardarmi in faccia, poichè ero più alto di lui di tutto il capo, e passando le dita tra i fili della barba, mi fissò.

    — Mia sorella ha usato una saggia precauzione — approvò. — Al riguardo seguirò il suo esempio. Ho il posto che vi conviene, messer Biancomonte.

    Piegai la testa per dimostrare la mia gratitudine.

    — Sarò un vostro servo diligente e fedele, mio Signore — promisi.

    — Lo so — fece con un sorriso, — altrimenti non vi avrei accettato.

    Si allontanò e tornò a sedersi al tavolo. Prese un plico, lo tenne per un momento fra le dita, poi lo posò di nuovo, e mi diresse una delle sue occhiate tranquille.

    — Questa è la mia risposta alla lettera di Madonna Lucrezia — disse lentamente, parlando con voce dolcissima — e desidero che la portiate da parte mia a Pesaro, consegnandola nelle sue stesse mani con la massima segretezza.

    Non potei che fissarlo, al colmo dello stupore, come divenuto muto per la sorpresa.

    — Ebbene? — mi domandò infine; ed ora sembrava che la sua voce sempre carezzevole nascondesse una punta d’acciaio. — Esitate?

    — Se anche fosse così — risposi, ritrovando la parola — non diversamente si comporterebbe l’uomo più coraggioso. Come posso io, condannato a morte e messo al bando, penetrare ancora nella Corte di Pesaro e giungere fino a Madonna Lucrezia?

    —  La soluzione del problema la lascio alla proverbiale astuzia di Boccadoro, il re dei buffoni, che tutta Italia conosce. Il compito vi spaventa? — E la sua voce ed il suo sguardo erano parimenti duri.

    In verità mi spaventava, e glielo dissi, ma nei termini che consigliava l’astuzia, cui egli si riferiva.

    — Sono veramente in dubbio, mio signore; ma più per il timore che i vostri disegni, quali si siano, possano venir frustrati, che per la paura di lasciare la vita nel tentativo di rientrare in Pesaro. Un altro messaggero, sconosciuto alla Corte di Giovanni Sforza, non sarebbe più adatto a compiere simile incarico?

    — Certo, se ne avessi uno del quale mi potessi fidare — rispose con franchezza. — Sarò sincero, con voi, Biancomonte. Sono alle viste avvenimenti così gravi, e segreti così importanti sono affidati a questa lettera, che non vorrei essa dovesse cadere in altre mani nè per un regno, nè per la stessa triplice corona del nostro Santo Padre. — Mi si avvicinò di nuovo, appoggiandomi sulla spalla la sua mano leggera, su cui brillava la sacra ametista, e abbassò la voce. — Voi siete l’uomo, il solo uomo in tutta Italia, che in questa faccenda abbia interessi eguali ai miei; quindi siete il solo uomo al quale possa affidare questo plico.

    — Io? — balbettai stupefatto. E potevo ben esserlo, perchè, infine, quali interessi poteva avere Boccadoro, il buffone, in comune con Cesare Borgia, Cardinale di Valencia?

    — Voi — replicò egli con veemenza; — voi Lazzaro Biancomonte di Biancomonte, al padre del quale Costanzo di Pesaro rubò i suoi dominî. Quanto è detto in questi fogli significa la rovina del Signore di Pesaro. Qui a Roma siamo più che pronti a colpirlo, e quando questo avverrà egli resterà cosi sfigurato sotto la percossa che l’Italia tutta riderà a crepapelle per la magra figura che egli avrà fatto. Non avrei detto questo ad alcun altro uomo che a voi, e se vi ho confidato tanto è perchè il vostro aiuto mi è necessario.

    — Il leone e il topolino — mormorai.

    — Mettetela anche così, se volete.

    — E quest’uomo è lo sposo di vostra sorella! — esclamai, quasi involontariamente.

    — Intendete esprimere un dubbio sulla verità delle mie parole? — replicò col capo gettato indietro, e con le sopracciglia improvvisamente aggrottate.

    — No, no — mi affrettai ad assicurare; ed allora egli sorrise blandamente.

    — Madonna Lucrezia è al corrente di tutto, o quasi di tutto. Del resto questa lettera le servirà per apprendere ciò che può ancora aver bisogno di conoscere. Si tratta dell'ultimo filo da allacciare, dell’ultimo nodo da stringere, prima che sia completa la rete nella quale chiuderemo quel tiranno. Ebbene, porterete quella lettera?

    Me lo domandava! Signore! Per raggiungere quello scopo sarei stato disposto a trascorrere il resto dei miei giorni sotto la giubba del buffone, a divertire paggi e sguatteri. Gli dissi press’a poco così, ed egli mi approvò con un sorriso.

    — Viaggerete col costume che portate — mi ordinò. — Me lo consiglia mia sorella, la quale mi assicura che la giubba del buffone rappresenta una protezione più valida della corazza meglio temprata. Quando avrete compiuta la vostra missione tornate da me, e saranno affidati incarichi più adatti a chi porta il nome di Biancomonte.

    — Potete contare su di me, mio signore — promisi solennemente. — Non vi verrò meno.

    — Bene — disse egli, posandomi ancora addosso i suoi occhi meravigliosi. — Fra quanto tempo potrete partire?

    — Subito, mio Signore. Non è risaputo che nessuno è così sollecito a mettersi in cammino come un buffone?

    Fece cenno di sì, e si avviò verso un cofano in stile veneziano, dal quale prese una pesante borsa.

    — Troverete qui — disse — il miglior compagno di viaggio. — Lo ringraziai, e, sollevando la borsa, compresi dal peso di essa quanto fosse esatta la fama di generosità della sua stirpe. — E questo — soggiunse poi — è un talismano che potrà servire per tirarvi d’impaccio se vi trovaste in difficoltà, e potrà aprire porte altrimenti serrate. — E così dicendo, mi porse un anello di riconoscimento sul quale era inciso un toro, stemma della Casata dei Borgia.

    Sollevò la mano sulla quale splendeva la sacra ametista, piegando due dita e tenendo dritto le altre due. Dubbioso sul significato del gesto, lo guardai interrogativamente.

    — Inginocchiatevi — mi ordinò. E comprendendo quanto stava per fare, piegai le ginocchia, mentre egli mormorava sul mio capo chino le parole dell’apostolica benedizione. I mosaici del pavimento furono i soli testimoni del sorriso che mi passò sulle labbra assistendo a un sì improvviso trapasso alle funzioni sacerdotali di quel mondanissimo principe.

    II.

    La livrea dei Santafiora

    I preparativi, che potevo aver da fare, furono presto ultimati.

    Pur essendo stabilito che avrei viaggiato nel mio solito costume, decisi, a causa della ripugnanza che ormai avevo insormontabile per esso, che avrei cercato di nasconderlo per quanto possibile, mostrandolo solo in caso di bisogno. Era inoltre necessario che mi riparassi meglio contro l’inclemenza delle notti di gennaio, che non potevo affrontare vestito solo della mia giubba variopinta, del mio cappuccio a punte e della mia mantellina di seta. Completai quindi il mio equipaggiamento con un pesante e ampio mantello nero, con un cappello a larghe falde e un paio di calzature di cuoio non conciato. Nella fodera di una di queste nascosi il plico di Cesare, mentre portavo alla cintola il suo denaro — circa venti ducati — e m’ero arditamente infilato al dito il suo anello.

    Pochissimo tempo richiese la mia preparazione, ma sembra che l’impazienza di Borgia avrebbe voluto che fosse ancora più rapida, perchè avevo appena infilato le scarpe quando si bussò alla mia porta. Aprii, ed entrò un uomo di statura gigantesca, il cui giustacuore riflettè i miei nastri gialli come uno specchio, e la cui voce aspra mi domandò bruscamente se ero pronto.

    Avevo già avuto occasione di far conoscenza con costui, avendolo incontrato per la prima volta durante l'anno precedente, durante la visita a Roma della Corte di Pesaro. Si chiamava Ramiro dell’Orca, e quel nome era conosciuto nell’esercito pontificio come sinonimo di prepotenza e arcigna brutalità. Ho detto che si trattava di un uomo di fattezze eccezionali, ed infatti egli aveva una straordinaria forza fisica; ma, pur essendo pesantissimo, aveva una persona ben proporzionata. Del suo volto si poteva dire che somigliava abbastanza a una fornace. Aveva guance e naso di color paonazzo, e ancor più acceso era il colore dei suoi capelli, ora nascosti sotto il morione, mentre la barba gli si allungava fino a terminare a punta di daga. Perfino i suoi occhi erano intonati alla rossa armonia della sua feroce fisionomia giacchè nel bianco erano striati di sanguigno, come quelli di un beone — qualifica, questa, che, secondo la voce comune, gli si addiceva benissimo.

    — Andiamo — grugnì egli, — spicciatevi, signor buffone! Ho l’ordine di scortarvi fino ai cancelli C’è un cavallo sellato, che vi attende. È il dono di partenza del Cardinale nostro Signore. Ed ora spiegatemi un po’ questo indovinello: chi sarà il più asino, quello che cavalca o quello che è cavalcato?

    — Enigma mostruoso! — esclamai, raccogliendo il mantello e il cappello. — Come potrei risolverlo?

    — Vi lascia perplesso, signor buffone? — replicò.

    — In verità, sì — risposi, scuotendo il capo con aria afflitta, in modo che i miei sonagli tintinnassero. — Infatti chi cavalca è un uomo e quello che è cavalcato è un cavallo. Ma — proseguii, mordendolo alle spalle con l’arte del vero pagliaccio — se la compagnia avesse dovuto comporsi di tre viandanti, e il nome del terzo fosse stato quello di Messer Ramiro dell’Orca, capitano nell’esercito di Sua Santità, ogni mio dubbio sarebbe scomparso. Non avrei più esitato su chi qualificare come un asino.

    — Che vuoi dire? — domandò egli bruscamente oscurandosi in volto.

    — Il fatto che voi non abbiate compreso conferma la circostanza che gli asini sono duri di comprendonio. — Poi, avanzando agilmente, lo punsi con acutezza: — Suvvia, signore, mentre noi ci perdiamo in questa schermaglia, gli affari di Sua Eccellenza subiscono un ritardo, e questo è davvero male. Dove è il cavallo?

    Sorridendo in maniera tutt’altro che promettente, Dell’Orca scoprì i suoi denti forti e bianchi.

    — Se non fossero in ballo gli affari di cui parli… — cominciò minacciosamente; ma io lo interruppi:

    — Fareste certamente cose egregie.

    — Non mi credi? — ringhiò. — In fe’ di Dio, ti torcerei il collo, o con un colpo ben aggiustato di nerbo ti metterei a nudo le ossa, buffone del malanno!

    Lo guardai con occhi divertiti e sorridenti.

    — Non fate così che confermare l’opinione che probabilmente si ha di voi — dissi.

    — E quale sarebbe? — chiese, squadrandomi malevolmente.

    — Mi si dice che a Roma vi chiamano un boia.

    Ringhiò come un botolo furioso, e mi portò le mani all’altezza del petto come per ghermirmi.

    — Maledizione!… Almeno ad un buffone insegnerò…

    — Interrompiamo queste piacevolezze, ve ne prego — replicai ridendo. — I santi mi proteggono. Se avete voglia di sfogarvi su qualcuno, troverete un compagno degno di voi in qualche garzone di stalla. Per conto mio, se anche ne avessi voglia, non avrei il tempo di continuare a rispondervi. Vi ricordo che il mio desiderio è quello di partire.

    L’avvertenza arrivò in buon punto. Si ricordò del mio viaggio, e dell’ordine avuto di vigilare affinchè la mia partenza avvenisse regolarmente.

    — Andiamo, dunque — brontolò, dominando la sua collera, che poteva essere vinta solo dal ricordo di quel pallido, snello Cardinale, che era il suo padrone.

    Ad ogni modo sfogò una parte della sua ira afferrandomi per la collottola e trascinandomi di peso fuori della stanza e poi giù per le scale fino al cortile. Vero trattamento da buffone — trattamento al quale potevo ormai essere abituato: infatti non erano già trascorsi tre anni, durante i quali ero stato esposto a simili villanie da parte di chiunque fosse qualcosa più di un garzone? E se avessi mai mostrato apertamente quella ribellione che mi empiva il cuore, facendo uso della forza datami da Dio per punire i miei maltrattatori, la frusta mi avrebbe ricordato a quale triste schiavitù m’ero votato, indossando la giubba screziata.

    Nevicava da un’ora, e il cortile era tutto bianco quando scendemmo.

    Allorchè comparimmo ci fu un movimento fra il servidorame e si udì uno scalpitare di cavalli, attutito dalla neve. Alcuni reggevano delle torce, che gettavano un bagliore rossastro sui testimoni della scena, mentre un garzone portava avanti il cavallo che mi era destinato. Udii dei saluti indirizzatimi da quei gaglioffi, coi quali ero stato confuso durante i tre giorni passati al Vaticano. Poi Messer dell’Orca mi spinse avanti.

    — Monta in sella, buffone, e vattene! — ringhiò.

    Una volta a cavallo mi volsi a lui. Si trattava di un cane ringhioso, se un cane ringhioso può avere forma umana, e di umano il capitano Ramiro non aveva che la forma.

    — Addio, fratello — insinuai.

    — Non sei mio fratello, buffone!

    — È vero… mi siete solo cugino. Il buffone per arte non è fratello del buffone per natura.

    — Una frusta! — urlò egli allora rivolto ai garzoni. — Portatemi una frusta!

    Lo lasciai mentre ancora la chiedeva, spingendo la mia cavalcatura attraverso la neve fin oltre il ponte levatoio. Di là mi guardai per un

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