Sedici albe in un giorno
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Collana Sentieri: narrativa italiana
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Sedici albe in un giorno - Angelo Pio Villani
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Capitolo 1
Quella volta i Warriors l’avevano combinata davvero grossa, almeno a sentire il tono concitato della telefonata di Don Franco che, alle tre di notte, mi aveva tirato giù dal letto e le cui parole, per i primi minuti, stentai a decifrare.
A nulla valsero i miei inviti alla calma e il tono professionale, a cui cercavo di fare appello, per ricordargli che avevamo a che fare con tipi certo non normali: Don Franco mi convocava subito da lui.
Doveva trattarsi di qualcosa di estremamente grave.
Mai Don Franco aveva concluso così bruscamente il riposo notturno, se non in quell’unica occasione in cui era stato chiamato al capezzale del Sindaco, alle prime luci del giorno, per impartirgli l’estrema unzione. L’impresa, tuttavia, era fallita a causa di una colica addominale maligna che l’aveva gelato nell’atto di uscire dalla canonica.
Il brevissimo ma fatale ritardo aveva determinato un duplice scorno: il Sindaco deceduto in odore di dannazione eterna e il sonno irrimediabilmente perduto.
Insomma, il massimo sforzo per un risultato nullo.
Dai borbottii appena percepiti alla cornetta avevo intuito, con titanico sforzo di fantasia, che la vittima dei Warriors era, per l’ennesima volta, il sagrestano della chiesetta dedicata alla Madonna di Guadalupe, Vincenzo: un’istituzione per il paese, ancor più della chiesa stessa.
Avevo la pessima e consolidata abitudine di gettare gli abiti sulla sedia dell’ingresso, tutte le sere, quando tornavo a casa.
Questa consuetudine aveva resistito a tutte e tre le ultime mie fidanzate, senza che nessuna delle signorine, però, resistesse a me. Ciononostante, in meno di due minuti ero già per strada, rafforzando così la mia convinzione che l’ordine non si coniuga necessariamente con la praticità.
Notte gelida, nuvolosa e più buia del solito.
La chiesa della Madonna di Guadalupe non distava molto da casa mia e questo mi consentì di non usare la macchina, ma un freddo siberiano mi gelò la testa, invano riparata da una coppola a cui tenevo moltissimo e che mi rendeva antico, per usare le parole di Mariella, la terza temeraria che aveva provato a redimermi.
La luce che filtrava appena dall’ingresso della canonica, annessa alla chiesetta, mi guidò nell’ultimo tratto di strada. Come novello Re Magio in questo tempo di Natale, pensai in maniera poetica, probabilmente ancora sotto gli effetti del vino bevuto in quantità generose poche ore prima.
Don Franco aveva previsto alla perfezione i miei spostamenti, giacché il mio dito sul citofono fu anticipato dallo scatto della serratura del portoncino che mi si aprì davanti.
Per tutto il breve tragitto, avevo cercato di studiare una strategia difensiva per i tre Warriors, qualsiasi cosa avessero fatto, ma nel salire la scala a chiocciola che portava al piano rialzato, dove Don Franco viveva, mi resi conto che mi ero bruciato le ultime risorse difensive appena sette giorni prima, quando avevo tentato di far passare la sostituzione del vino della Messa con pessimo aceto per un tentativo di realistica sperimentazione dei patimenti sofferti da Nostro Signore sulla croce.
Fu così che mi rassegnai al peggio.
«Adesso non tentare di difenderli» fu il versetto d’ingresso, che era in realtà già la conclusione, con cui mi accolse Don Franco, la cui figura corpulenta, resa inspiegabilmente ancor più imponente dal livore per il sonno perduto, occupava tutto lo stretto corridoio in cima alla scala.
«Salve, don Franco» fu il mio esordio nel levarmi la coppola, rimanendo con il capo chino, in atteggiamento di sincera contrizione simil-quaresimale, quasi dovessi chiedere io perdono di qualcosa.
Eravamo però vicini al Natale e non a Pasqua: dunque, risultavo poco credibile.
«Vieni, vieni a vedere cosa combinano i tuoi amici...» riprese, facendomi strada.
Definire i Warriors miei amici non so se corrispondesse sostanzialmente al vero: ho un’altissima concezione del valore dell’amicizia che è, a mio modo di vedere, una forma d’amore a tutti gli effetti, rara ed esclusiva. Forse per questo motivo, dopo aver comunicato a Flora, la seconda delle signorine citate prima, di aver stretto amicizia con Mariella, stereotipo di femmina alta, bionda, occhi azzurri, mi ritrovai con un cinque spalmato sulla guancia sinistra e un’ennesima ex fidanzata.
Se, invece, per amicizia s’intende un rapporto di approfondita conoscenza, con mutuo piacere di reciproca frequentazione, senza aspettative di tornaconti personali, definizione della professoressa di Italiano al Liceo - che Dio l’abbia in gloria per tutti i votacci che dispensava con magnanimità - beh... allora sì: i Warriors erano miei amici.
Senza parlare, don Franco mi condusse attraverso un secondo corridoio al bilocale contiguo, dove viveva Vincenzoilsagrestano, che tutti chiamavano così, con il nome e la qualifica che aveva sostituito ormai il cognome, pronunziati d’un fiato: due camerette spartanamente arredate, grazie alle elargizioni delle Sorelle Vincenziane della parrocchia che, certo, non si dovevano essere dissanguate economicamente per tale opera pia, un piccolo angolo cottura, inutile se si considera che Vincenzoilsagrestano era ospite in pianta stabile a pranzo e a cena da don Franco e, infine, un bagnetto fornito solo dell’indispensabile.
«Tu sai» continuò Don Franco, come lugubre preludio a tutto ciò che mi stava per raccontare «che Vincenzoilsagrestano ha problemi di cuore...»
Mi risparmiai la solita battuta cretina che facevo ai miei pazienti anziani quando mi comunicavano di avere problemi di cuore e io replicavo, in tono scherzoso, con un bel: Ma bravo, fa bene innamorarsi alla sua età!
«...e che questi scherzi un giorno o l’altro lo faranno morire» aggiunse.
Vincenzoilsagrestano era il più anziano dei miei pazienti: novantadue anni senza aver mai avuto un colpo di tosse, uno starnuto, un po’ di affanno nel salire le scale, uno scricchiolio di qualsivoglia articolazione. Insomma una quercia, a dispetto della sua figura incredibilmente esile che costituiva un curioso e ridicolo contrappasso alla massiccia stazza di don Franco, specie quando i due erano sull’altare, uno accanto all’altro, durante la Messa.
I problemi di cuore a cui Don Franco si riferiva erano costituiti da una lieve bradicardia, diagnosticatagli da un solerte, quanto inopportuno, giovane cardiologo, giunto da qualche mese nel quartiere, desideroso di acquisire nuova clientela con i modi affettati e la falsa disponibilità, ma evidentemente ignaro che lieve bradicardia non è affatto una diagnosi .
«Guarda tu stesso. Io ne ho già avuto abbastanza!» mi disse, entrando nella stanzetta che Vincenzoilsagrestano aveva adibito a camera da letto.
Lo spettacolo che mi si parò dinanzi mi lasciò allibito: un piccolo registratore, ben occultato dietro un vaso portaombrelli, declamava a cadenze regolari, con voce solenne, la frase: Vincenzoooo, oggi sarai con me in paradisoooo..., a simulare un’indiscutibile chiamata ultraterrena. Infatti, chi poteva chiamare Vincenzoilsagrestano solo con l’anagraficamente corretto Vincenzo, se non qualche entità soprannaturale?
Nel contempo una torcia illuminava a intermittenza la figura, più che terrena, a dimensioni quasi naturali, di una pornostar ritratta su un calendario erotico, posto con studiata malizia sulla parete di fronte al letto, e aperto al mese di agosto, mese in cui già anche le ragazze normali non indossano poi così tanti vestiti.
Lo sforzo che dovetti fare per evitare di scoppiare a ridere non fu paragonabile a quello compiuto per ingoiare ripetutamente la saliva, cercando di guadagnare qualche secondo che mi consentisse di esclamare qualcosa di senso compiuto, fingendo un’inverosimile indignazione.
Non riuscii a far altro che iniziare l’arringa difensiva con il solito: «Don Franco, tu sai che abbiamo a che fare con persone con seri problemi psichiatrici, insomma un po’ fusi di testa, con patologie che coinvolgono pesantemente la sfera intellettiva...»
«...ma che di certo non impediscono loro di architettare quello che ti ho fatto vedere...» m’interruppe.
Spalle al muro.
«Adesso devi sistemare la cosa una volta per tutte» continuò.
«Padre...» implorai come il