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Rinotmeto. Il Memoriale di Giustiniano II
Rinotmeto. Il Memoriale di Giustiniano II
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E-book271 pagine3 ore

Rinotmeto. Il Memoriale di Giustiniano II

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Info su questo ebook

714 d.C. - Ormai esiliata in Bulgaria, Anastasia, ex-basilissa dei Romei, custodisce gelosamente un cimelio.
Un manoscritto autografo, redatto da nientemeno che il suo defunto figlio, il basileus Giustiniano II,
detto anche il Rinotmeto. In quelle pagine postume, viene raccontata per intero la tumultuosa esistenza
di un imperatore asceso al potere da giovanissimo, e capace di detenerlo per gran parte della propria vita.
Tra quelle righe, è tracciato un ritratto onesto e senza censure di uno dei reggenti più crudeli
e detestati della storia imperiale, noto maggiormente per le sue terrificanti rappresaglie.
Ai tanti momenti di gloria ne seguiranno altri estremamente cupi, fatti di tradimenti, vendette, massacri
inauditi e cospirazioni. Fino al momento in cui tutto crollerà, sancendo la fine della dinastia Eracliana, che
per oltre un secolo aveva dominato incontrastata sull'impero Romano d'Oriente.
LinguaItaliano
Data di uscita20 nov 2020
ISBN9791220224970
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    Anteprima del libro

    Rinotmeto. Il Memoriale di Giustiniano II - Patrizio Corda

    Corda

    RINOTMETO

    IL MEMORIALE DI GIUSTINIANO II

    Patrizio Corda

    A mia nonna,

    e a tutti gli anziani: tesori

    in forzieri fragili dai quali

    spesso distogliamo stupidamente

    lo sguardo.

    PREFAZIONE

    Varna, Gennaio 714 d.C.

    Può forse chiamarsi vita, quella di una madre condannata a sopravvivere al suo adorato figlio?

    Quali possono essere i nuovi propositi, gli auspici futuri per chi ha già assolto il proprio compito su questa terra mortale?

    Delle volte, mi scopro a desiderare la mia stessa fine.

    Avrei voluto essere io a patire quelle pene infernali, ad essere consegnata all’oblio. Davanti al Signore, avrei espiato le altrui pene certa di poter salvare il sangue del mio sangue.

    Mi capita sovente di pensare questo, quando cammino mi allontano da questa città avvolta dalla nebbia, volgendo prossimità del mare. Seduta sulla spiaggia spoglia, contemplo le onde rincorrersi in un testardo ma mirabile tentativo di spingersi sempre più lontano.

    Allora, vengo colta dalla smania di offrirmi ad esse e abbandonarmi ai flutti, incurante di quale possa essere la mia destinazione. Varna, gemma di quella Bulgaria che è indissolubilmente legata alla storia dell’impero e al frutto del mio grembo che lo resse, mi ha accolta relativamente da poco.

    Eppure, la sua altera tristezza risembra quella che scorgo lungo il mio viso logorato ogni mattina. Mi piace pensare che il mio ultimo rifugio sia stato eretto sul dolore e il risentimento che le vicissitudini della vita mi hanno portato in dote.

    È come se attraverso i suoi colori smorti, spesso cupi, o tramite il silenzio della gente che mi osserva – ignara di chi io sia – questa terra si sia adeguata a me. In uno sfoggio di infinita comprensione che reputo quasi materno.

    Non so cosa mi riservi il futuro. Quale che sia, ho già maturato la decisione di spegnermi qui. Lentamente, senza far rumore.

    Come altre madri di grandi uomini ormai scomparsi, mi sarei potuta appellare alla memoria del mio Giustiniano per ricevere affetto e forse gli agi a cui ero usa.

    Tuttavia, non lo farò.

    Perché nonostante lo strazio che è diventato il mio compagno di vita, e le memorie che affollano la mia mente e offuscano il mio giudizio alla sera, ho avuto la fortuna di trovare conforto altrove.

    Le sole cose che ricordi dei giorni confusi in cui fuggii da Costantinopoli sono il volto disperato del mio dolce nipote, Tiberio, mentre veniva strappato dalle mie braccia, e quello dell’oscuro ministro di corte che mi porgeva il tomo.

    Distrutta dal dolore ma sorretta dalla paura, non mi ero posta alcun interrogativo su quell’oggetto polveroso, dalle pagine già ingiallite.

    Eppure, per qualche ragione avevo deciso di portarlo via con me.

    Solo una volta riparata in Bulgaria, lontana dai persecutori della dinastia Eracliana, mi sono risolta a leggerne il contenuto.

    E da allora, ogni volta che indugio su quelle parole scritte in modo inconfondibile sento la sofferenza venir meno.

    Mi sembra quasi che lui sia lì, accanto a me. Odo la sua voce.

    Onestamente non ho idea del perché Giustiniano abbia deciso di redigere un diario, o meglio una raccolta delle sue memorie.

    Forse aveva previsto la sua fine prematura?

    O era semplicemente il desiderio di autocelebrarsi, di dipingersi come un uomo ancor più grande di quanto non fosse, a muoverlo?

    Questo non mi è dato sapere.

    So solo che nelle mie notti più cupe, quando realtà e immaginazione ghermiscono le mie carni cadenti e angustiano la mia mente, posso far affidamento su questo ricordo di lui.

    Un autentico tesoro, come egli è sempre stato prima che il potere lo snaturasse e lo rendesse la sua stessa nemesi.

    Ma solo io, forse, conosco e quindi posso conservare questa immagine dell’imperatore.

    Perché io, Anastasia, ne sono la madre.

    E finché avrò vita, sarò anche custode delle sue memorie.

    I

    Figlio di Bisanzio

    Costantinopoli, Settembre 711 d.C.

    Per quale ragione sono qui, in questa residenza lontana dalla mia vera dimora, intento a fissare una pagina bianca?

    È forse megalomania quella che mi spinge a tornare indietro di anni con la memoria, tracciando ancora una volta il percorso tortuoso che è stato la mia vita?

    Convengo che solitamente, le esistenze dei grandi vengono affidate alle opere di chi è letterato di professione. È una responsabilità non indifferente. Eppure sono io, Giustiniano II in persona, a volermi far carico di questo peso.

    La mia condizione non sarebbe affatto quella ideale per redigere un memoriale. Né mi reputo migliore delle migliaia di saggi, maestri della parola, che saprebbero senz’altro rendere maggior giustizia a quanto ho fatto nella mia vita.

    Non sono un vecchio, i cui occhi stanchi e velati sono fissi su una morte che si avvicina sempre più, come la sagoma di un veliero prossimo ad attraccare dopo mesi di navigazione.

    E non sono neppure malato, o braccato dai nemici.

    L’impero che reggo, eredità dei gloriosi Romani, è saldo e ricco da quando sono tornato per la seconda volta, emergendo dall’esilio al quale dei vili traditori m’avevano costretto.

    Pur dedicandomi quasi unicamente all’amministrazione, e non potendo quindi concentrarmi sul mio benessere, sono convinto di godere di ottima salute. Ho appena quarantadue anni.

    D’altronde, quale malanno del corpo potrebbe affliggere chi ha già patito la più umiliante delle mutilazioni?

    Sono sempre stato convinto, a dispetto di chi ha a lungo criticato i miei atteggiamenti reputandoli figli di scarsa riflessione ed equilibrio, che lo spirito possa supplire alle deficienze del corpo.

    Non solo, credo anche che questo in qualche maniera sia ciò che ci muove, che ci permette di colmare distanze apparentemente impossibili da coprire. Ciò che è dentro di noi, e non l’involucro che lo custodisce, è quanto ci rappresenta al meglio.

    La nostra essenza, ciò che ci rende le persone che siamo.

    Forse per questa ragione mi sento, per la prima volta in vita mia, succube di una sensazione, di un impulso al quale mi è impossibile resistere.

    Sono stato spesso vittima dell’ira, e una volta sopraggiunta la maturità confesso di aver sovente ceduto al sospetto e al desiderio di vendicarmi per i torti subiti. Ma mai come questa volta mi sento umile, umano, impotente di fronte a una forza così soverchiante.

    Dunque credo che l’asseconderò, per mio personale diletto.

    O forse per una causa più alta e nobile che ancora ignoro.

    Sarò narratore di me stesso, osservatore attento e meticoloso tanto dall’interno quanto dall’esterno.

    Vestirò e smetterò la porpora e il diadema che indosso in questo stesso momento, marciando all’indietro fino a che ciò che vedrò dinanzi a me non sarà quanto mi ero già lasciato alle spalle.

    Mi chiedo che sentimenti proverò, e se mai riuscirò a concludere quest’opera che mi appresto a creare.

    Sento di essere come un forestiero che si avventura nell’ignoto, senza sapere per quale precisa ragione si sia addentrato in aree tanto ostili. Dubito che qualcuno leggerà mai queste righe.

    Forse, peccando di superbia, mi aspetto che le mie azioni mi consegnino alla storia a prescindere da poche pagine vergate di mio pugno. Dovrebbe già essere così.

    Dei Cesari, si dice che divengano immortali nello stesso istante della loro ascesa. Quasi la porpora ne sia garanzia.

    Saranno i secoli futuri, e la benevolenza del Signore, a deciderlo.

    Per ora, mi impegnerò a guardare il mio riflesso mutevole nello specchio della mente.

    Rimembrando i tempi in cui Cesare non ero, quelli in cui lo divenni e quelli, ancora in divenire, che tutt’ora vivo.

    Da unico e incontrastato basileus dei Romei.

    Il primo ricordo di mio padre, paradossalmente, è proprio ciò che negli anni ha cementato, nell’opinione pubblica ma anche per quanto riguarda la mia, le incolmabili differenze che ci contraddistinguevano.

    Forse le sole cose che abbiamo sempre avuto in comune sono state l’orgoglio che provavamo nel far parte della gloriosa dinastia Eracliana, e la tenera età alla quale fummo elevati alla porpora.

    Dai tempi lontani, ormai quasi un secolo fa, in cui il grande Eraclio I aveva posto fine alla tirannide del mostro Foca, la nostra famiglia è stata unanimemente associata alla tutela dell’ordine e della prosperità imperiale.

    Delle volte, certo, questo sforzo costante è stato ostacolato da fattori esterni quali i nemici oltre i confini, oppure le sempre complicate relazioni con la Chiesa di Roma. Ma per la maggior parte del tempo, posso garantire che da quel giorno lontano a oggi la mia stirpe ha meritato di risiedere al Gran Palazzo.

    Ma nei giorni della mia infanzia, in cui ancora senno e cognizione di causa erano capaci di emergere solo saltuariamente, tutto ciò mi era del tutto sconosciuto.

    Il volto dell’uomo che mi aveva messo al mondo – e che anni più tardi mi avrebbe associato a sé, rendendomi ciò che sono ora – non è mai cambiato. Neanche quando il gelido e accogliente abbraccio della morte l’ha stretto a sé, esentandolo dalle pene terrene a un’età, trentatré anni, che a tanti ha rimembrato l’indissolubile legame tra un basileus e il Cristo del quale questi si proclama servo.

    Costantino IV, questo era il suo nome, ha sempre mantenuto le medesime fattezze ai miei occhi. Alto e snello, ben più di quanto sia io adesso. Il suo volto allungato, spesse volte emaciato parlava da sé delle tribolazioni che la porpora porta in dote agli eletti chiamati a vestirla. Quegli occhi grandi, costantemente cerchiati di viola, erano un manifesto delle fatiche che aveva dovuto patire per oltre metà della sua vita.

    Non fosse stato per la barba, che malgrado la giovinezza era imbiancata presto, avrebbe forse dato l’impressione di un uomo gravato suo malgrado da un peso immane in modo ancor più convincente. Diversamente da me, i suoi capelli sono sempre stati decisamente radi. Dettaglio che non valeva per mia madre Anastasia, la cui folta chioma ho forse ereditato.

    Ricordo la sua espressione preoccupata davanti al giaciglio del basileus ogni qual volta il suo cuscino, baciato dalla fioca luce mattutina, rivelava un’altra ciocca di capelli perduta.

    Mio padre, in verità, non ha mai conosciuto il diletto e gli agi che spetterebbero a un imperatore.

    Chiamato da adolescente a prendersi cura di un regno in difficoltà, ha dovuto anteporre il dovere a ogni cosa.

    Senza mai lamentarsi, né cedere alle pulsioni umane come io, debbo ammettere, ho spesso fatto negli ultimi anni.

    Quel suo sorriso mesto, uno sforzo immane nel conservare quell’equilibrio innato che veniva meno, non era che il simbolo dei suoi sforzi. Un impegno che forse amava o detestava, ma che senza dubbio alcuno ha finito per avere gravi ripercussioni sulla sua salute. Causandone l’imprevedibile e indegna fine.

    Nonostante questo, egli mi ha sempre sorriso.

    Pur essendo di poche parole, non mi ha mai fatto mancare quella sincera, eppure distaccata, manifestazione d’affetto.

    Ancora infermo sulle gambe, io rimanevo incantato dalla regalità delle sue vesti, dall’alterigia con cui reggeva lo scettro o rimaneva assiso sul trono. Era capace di fare ciò per ore, assumendo l’imperturbabilità di una statua.

    Io inclinavo appena il capo alla mia destra, curioso e meravigliato.

    Un gesto, più un impulso forse, che mi son portato dietro fino ad oggi. Amo ancora sorprendermi davanti all’improvviso, e forse proprio questa attitudine mi ha permesso di superare terribili avversità nel mio passato.

    Contemplavo il mio divino padre, incapace di distogliere lo sguardo dalle gemme che ne tempestavano la porpora. Tutto in lui emanava una luce abbagliante. Il diadema, gli orli in filo d’oro, gli anelli e i bracciali. Mia madre non era da meno, ma ella non dava l’impressione di poter decidere di ogni cosa terrena. Né poteva.

    Pertanto, nonostante il mio affetto per lei fosse e tutt’ora sia viscerale e indissolubile, non ero capace di apprezzarla appieno.

    Chiamavo il grande Costantino IV a me con la forza del pensiero, formulavo a mente parole che ancora non ero capace di pronunciare concretamente. Forse erano suppliche, o inviti, magari pretese dovute alla convinzione già radicata di esserne l’erede e quindi di meritare la sua considerazione.

    Difficile a dirsi.

    Nella magnifica cornice della sala delle udienze a Gran Palazzo, avrò visto migliaia di persone prostrarsi davanti a lui.

    Soffocavo una risata innocente nel vedere quegli uomini guardarsi attorno spaesati, come animali al mercato che cercano di capire chi sarà il loro nuovo padrone.

    In tutti i loro sguardi era riverenza, spesso sincera, ma ancor di più una paura profonda. Il timore di sbagliare.

    Quelle loro emozioni acuivano ancor di più la mia percezione del basileus come di una creatura capace di trascendere qualsiasi dimensione. Probabilmente, proprio questo mi portò ad attendere con trepidazione il mio turno. Anche io, allora ingenuamente e senza malizia, ambivo ad essere capace di incutere timore e rispetto con una tale naturalezza.

    Quale che fosse l’autorità abbastanza fortunata da conferire con mio padre, tendevo a immedesimarmi in essa. Un giorno ero un celebre generale venuto a chiedere fondi o reclute, un altro ero un dignitario di un thema remoto che implorava l’imperatore per ottenere la sua protezione contro una qualche minaccia.

    Non di rado, mi scoprivo un nobile latifondista che lamentava gli importi eccessivi che era costretto a versare all’erario.

    In quei casi, storcevo appena il muso causando la graziosa e impercettibile ilarità di mia madre che mi teneva in braccio.

    Giudicando come poi sono andate le cose, non posso che reputare quelle mie reazioni come una premonizione su quelle che sarebbero state le mie opinioni in merito.

    Mio padre però non si scomponeva minimamente, a prescindere dall’assurdità della richiesta che udiva.

    Nella mia mente, egli rimarrà sempre l’uomo calmo, forse troppo taciturno, ma fondamentalmente disposto ad ascoltare tutti che io, mio malgrado, non sono mai stato.

    Da adolescente, quando quel peso che lo gravava era già passato a me, ho udito spesso racconti che s’incentravano sulle cause della sua indole. Ho sempre diffidato da questi, basandomi sull’idea che nessuno possa ritenersi degno di discutere delle più intime ragioni che muovono un uomo e generano le sue azioni.

    Ognuno di noi è diverso, e tali sono i rispettivi percorsi.

    Di mia madre Anastasia, però, mi son sempre fidato.

    Non ho potuto conoscere Costante II, il padre di mio padre.

    Questi è incredibilmente spirato pochi giorni prima che io nascessi, dando adito a migliaia di racconti e opinioni differenti sulla cosa. Non pochi, però, hanno ricordato che nel grande disegno che Dio ha ideato per tutti noi ogni morte è equivalente a una nascita.

    Questa spiegazione, che per me è sempre stata una stupida diceria, ha finito invece per convincere la mia dolcissima madre.

    Lei, specialmente quando la maturazione ha portato il mio carattere a formarsi ed emergere completamente, ha sempre sostenuto che in un certo qual modo somigliassi molto di più a Costante che non a mio padre.

    La storia lo ricorda ancora oggi come un uomo volubile, volenteroso quanto imprevedibile, la cui fermezza l’ha non di rado reso protagonista di rapporti conflittuali e talvolta deleteri.

    In più di un’occasione, s’è detto che mio padre abbia esasperato la sua proverbiale pazienza e attitudine conciliante proprio per rimediare agli errori di Costante.

    Laddove questi aveva rovinato delle importanti relazioni, il figlio si era adoperato per ricucire lo strappo. Le classi sociali da lui ignorate o punite avevano ricevuto nuove attenzioni, talvolta addirittura favoreggiamenti.

    Il passato, per mio padre, non era un’entità immutabile e inevitabilmente alle nostre spalle. Ad esso si poteva sempre guardare, in un certo senso traslarlo nell’immediatezza del presente dimostrando di potervi porre rimedio con la giusta moderazione. I fatti, lo riconosco, gli hanno spesso dato ragione.

    Ma io non sono mai stato lui.

    Non ho mai avuto la pazienza di ascoltare voci che non fossero quelle dei miei più stretti collaboratori. Ho osservato, sì, e con estrema attenzione. Ho contemplato con sgomento le tare di quest’impero che ho ereditato, facendo del mio meglio per riportare proprio quell’equilibrio che mio padre possedeva dentro di sé. Ma che aveva terribilmente faticato a instaurare nelle terre sotto la sua autorità.

    Delle volte, ho commesso degli errori.

    Ho stipulato e rotto alleanze preziose, anche per motivi futili.

    Non sono mai stato completamente in controllo di me stesso, delle forze oscure che si agitano nell’animo mio e di ogni uomo.

    Ho una memoria nitida dei miei primi giorni a palazzo.

    Un ricordo che forse, giustifica quanto di sbagliato è in me.

    Chiudendo gli occhi, posso ancora vedere i soldatini d’argilla disposti su un piano di alabastro. Le mie piccole mani si muovevano tra di loro, impugnandoli a turno. Li avvicinavo il più possibile al volto per scorgerne ogni singolo dettaglio.

    Allora la mia mente si metteva al lavoro: nascevano schieramenti opposti e paesaggi, intorno a quelle figure, che facessero presagire un imminente scontro.

    Poi, improvvisamente, un demone prendeva possesso di me.

    Forse introdotto troppo presto al potere, ero già convinto di poter creare e distruggere ogni cosa – o quasi – quando lo volessi.

    Quei soldatini si sgretolavano così tra le mie mani, ancora tozze e deboli ma già capaci di convogliare la forza dettata dalle mie emozioni improvvise. Già allora, ero impaziente.

    Non ho mai saputo concentrarmi unicamente su una cosa.

    Là dove il mio divino predecessore era capace di portare a termine un compito e poi passare all’altro, io fallivo. Distribuivo la mia attenzione su più cose contemporaneamente, finendo per essere eternamente insoddisfatto dei miei risultati.

    Osservavo i miei giocattoli ridotti a pezzi, e mi trovavo sospeso tra un brivido di soddisfazione per quanto avevo fatto e lo scoramento non potendone più usufruire come volevo.

    In definitiva, però, il concetto di poter distruggere e rifondare mi ha sempre esaltato. Pur tacendolo a me stesso, mi avvicinava di più a Dio e alla sua impareggiabile onnipotenza.

    Troppe volto ho ceduto a quel demone.

    Una cosa, però, posso confessarla: mi sono sentito vivo, realmente vivo, solo nei momenti d’intervallo tra l’imminente fine di un’impresa e l’inizio di un’altra. Quegli attimi fuggenti in cui la mente cavalca senza freni, che sfuggono alla schematicità dei nostri giorni, mi hanno riportato ai tempi dell’infanzia.

    Quando potevo decidere di ogni cosa intorno a me, soggiacendo alla fantasia e alla più pura eccitazione, senza ancora correre il rischio di commettere un errore dalle terribili conseguenze.

    Credo che il mio povero padre non abbia mai sperimentato quell’emozione travolgente, che prescinde da qualsiasi età.

    E forse è stato proprio questo suo autocontrollo portato allo spasimo a fiaccarne il corpo e lo spirito.

    Ho letto, non saprei dire dove, che anche il grande Alessandro Magno era affetto dallo stesso male, se tale può definirsi.

    La sua smania di ottenere risultati sempre più grandi e incredibili l’aveva accompagnato per tutta la vita, rendendolo immortale ma ponendo allo stesso tempo fine alla sua breve esistenza.

    Quando osservo mio figlio Tiberio giocare, non posso fare a meno di pensare a tutto questo.

    Forse egli sarà piagato dalla mia stessa impazienza?

    O finirà per assomigliare al nonno?

    Mi duole, delle volte, pensare a tutto questo.

    Preferirei non chiedermi se una certa attitudine possa causare la fine di un uomo. Né sospettare della mia natura.

    Nei momenti d’incertezza, però, non mi è possibile sfuggire a quell’eterno paragone che mi lega a Costantino IV.

    Dunque osservo mio figlio, i suoi occhi lucenti e sereni, e chinando il capo davanti alle mie debolezze, lo invidio.

    Anch’io, alla sua età, non pensavo a niente di tutto questo.

    Niente o nessuno era sbagliato, né era giusto.

    Semplicemente, era.

    Spesse volte, quando rifletto sugli ultimi decenni della dinastia Eracliana al potere, e in particolar modo sul periodo in cui fu mio padre a regnare, non posso fare a meno di pensare che l’enorme rispetto di cui egli ha goduto in vita sia principalmente dovuto

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