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Dreamscapes - I racconti perduti
Dreamscapes - I racconti perduti
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E-book156 pagine2 ore

Dreamscapes - I racconti perduti

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Info su questo ebook

ANTOLOGIA DREAMSCAPES giunta al terzo volume. Dieci racconti dal fantastico alla fantascienza, dedicato per tutti gli amanti del genere.
LinguaItaliano
Data di uscita21 apr 2018
ISBN9788867827985
Dreamscapes - I racconti perduti

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    Anteprima del libro

    Dreamscapes - I racconti perduti - Marco Bertoli

    DREAMSCAPES

    I RACCONTI PERDUTI

    Dreamscapes

    I racconti perduti

    Editrice GDS

    Via Pozzo 34

    20069 Vaprio d’Adda-Mi

    TUTTI I DIRITTI SONO RISERVATI.

    Ogni riferimento descritto nel seguente volume a cose, luoghi, persone o altro sono da considerarsi del tutto casuale

    TUTTI I DIRITTI SONO RISERVATI

    I racconti sono disponibili anche singolarmente in formato e-book

    MARCO BERTOLI

    Lance e donzelle

    «Ma t’va a caghér!».

    «Poffarbacco! Come lo osi, fellone, de rispondere in cotesto villan modo a uno cavaliero de altera stirpe? Te sia noto, se lo ignori, che li miei gloriosi avi pugnarono in su le mura de Jerosolima per liberare lo Santo Sepolcro da le grinfie de lo miscredente Saladino!». La mia tonante esclamazione di stizza è rivolta al pezzente dai capelli color stoppa che se ne sta appoggiato con la schiena allo stipite della porta di una bicocca. «Sappi che fu solo la necessitate de ottenere una informatione che mi urse at interrogare uno verme de fango par tuo!»

    «Ma t’va a caghér!» ripete costui imperterrito, gli occhi acquosi che luccicano d’intelligenza bovina.

    «Marrano!» strepito troneggiando su di lui dalla sommità del mio arcione. «Non sia mai che subisca un siffatto affronto a lo mio onore senza opporre una reactione! Bifolco progenie de bifolchi, preparati at assaggiare la spada de Guidobaldo Ubaldini de la Carda, subduce de lo castello avito di Apecchio et de quello acquisito de Petroia!» avvampo d’ira portando la mano all’elsa della mia arma. Nel mio sacro sdegno ometto di precisare che mia madre Rengarda degli Accomanducci, dama discendente sì dai lombi di una schiatta blasonata ma anche gran troia nei propri, portò in dote al consorte non solo un maniero ma anche uno sterminato codazzo di amanti. Tant’è che il disgraziato marito, additato al pubblico ludibrio perché Ga pu corni in su la capa che un cestùn de lumacheli, se ne partì per una delle tante crociate in cerca di sollievo, lasciando il feudo e le sue comodità all’erede di primo letto e l’avventura e la polvere della strada al secondogenito. Che poi sarei io.

    Un grido disperato proveniente dall’aia ferma il sinistro fruscio della lama che s’accinge a scivolare fuori dal fodero: «Fermo, nobile et augusto messere, ve impetro per lo manto de la Santa Virgo Maria: non fate de lo male a lo povero Pecoro!».

    Il tempo di riflettere Meglio così, perché ho scordato di pulire dalla ruggine Fracassadenti, che una laida contadina più larga che alta mi afferra per uno stivale strillando: «Abbiate pietate per una creatura de la quale lo unico torto fu di caminare come uno gatto a le tergora de uno mulo bizzoso. Uno colpo de zoccolo into la crapa rese lo mio povero filio scemo. Ve prego de accettare le scusanti che ve porgo in tutta humilitate».

    Ecco spiegato il motivo della profonda infossatura che deturpa la fronte dello zotico. Arricciando il naso per il disgusto del fetore di suino brago emanato dalla donna, accondiscendo ad accogliere la supplica con la magnanimità che mi contraddistingue: «Venia concessa, sed unicamente perché me ripugna la idea de macchiare de sangue plebeo lo mio brando». Scalciando per allontanare l’alluvione di baci bavosi con cui la villica esprime la sua riconoscenza materna, riprendo: «Piuttosto, forse saprete voi, fantesca, sciogliere lo dubbio che me assilla et a lo quale la vostra imbecille progenie rispose con ignorante insulto».

    «Chiedete tutto quanto più ve cale, meo misericordioso signore, et me adopererò per soddisfare la vostra esigentia» cinguetta la femmina spingendo in avanti un seno da balia e ammiccando con uno sguardo ardente di lussuria.

    Per quanto mi definisca impuro sin dalla nascita e bordellatore mai appagato, l’immagine del mio sedere nudo stretto tra cosce strabordanti di grasso è vomitevole. Mi affretto a domandare: «Est questa la via che conduce a la torre de lo Arcimago Belinòr? A lo ultimo villaggio attraversato me avevano detto di proseguire deritto et che avrei raggiunto lo bordo de la temuta Selva Oscura prima de la metà de lo jorno, ma lo sole est a lo culmine de la sua marcia et vedo solo campi et etiam pascoli estendersi a lo intorno».

    «Te ghè ciapà la vaca per i ball» sghignazza Pecoro dimostrando che non è poi così tanto rintronato come la genitrice mi ha indotto a credere.

    «Ve imploro grande perdonanza per lo mio parlare ardito, ma avete sbagliato strada, meo signore» si affretta a intervenire la campagnola per distogliere il mio cipiglio sospettoso dal pargolo. «Tornate endrio sino a lo bivio et indi prendete lo angusto sentiero su la vostra mancina: ve condurrà in uno baleno a la meta a la quale agognate».

    «Ve siano rese grazie» mugugno imbarazzato mentre agisco sulle briglie per far girare la mia cavalcatura che obbedisce recalcitrando. La capisco: anch’io preferirei restare a riposarmi all’ombra, ma il dovere mi chiama.

    «Ve auguro uno buono viaggio et una ancor migliore fortuna, prode cavaliero: est notorio che lo stregone non riserva benevola accoglienza a li visitatori» mi saluta la villica, il sollievo a illuminarle la faccia ruvida e abbronzata.

    «Li cavalieri portano la lancia» è, invece, il commiato di Pecoro. Impossibile non cogliere il sarcasmo che impregna l’affermazione.

    Lo infilzo con un’occhiataccia. «La mea la ho lasciata infissa ne lo ventre squarciato de lo mostruoso essere lo quale imperversava sovra lo Gran Sasso, lo gigante Ruttamontagne. Etiam esso se era fatto beffe de lo mio aspetto reputandolo poco martiale et non confacente at uno paladino errante» gli ringhio sul muso. Come si dice, A bugiardo, bugiardo e mezzo: in realtà l’ho ceduta a un oste come pagamento per una cena da quaresima e un letto stracolmo di pulci, pidocchi e altre amene bestioline con le bocche a cavaturaccioli. Piantando gli speroni nei fianchi del mio corsiero comando fiero: «Ii, Courageux! A mai più revedere coteste brutte e sporche facce, zotici».

    L’ultima parola, però, la spiattella lo scemo: «‛Scorreggia’: est uno bello nome per uno cavallo».

    §

    Per quanto sforzi le meningi, non riconosco l’emblema dipinto sullo scudo del cavaliere in armatura completa immobile all’imbocco di un ponticello. Alle sue terga, oltre un gorgogliante rivolo d’acqua, un ammasso di alberi dai tronchi contorti e le chiome tenebrose: la Selva Oscura finalmente!

    Accorcio le redini per rallentare l’andatura del mio destriero. Sono a una ventina di passi dallo sconosciuto quando costui mi apostrofa con voce resa cavernosa dalla visiera a muso di cane: «Altolà, aristocratico messere! De più non vi est lecito avanzare».

    «Et perché, de grazia?» replico con altrettanta alterigia pur uniformandomi all’invito.

    «At niuno est consentito lo oltrepassare lo scavalcone supra lo rivo senza aver pria ottenuta la permissione del nobile Aloisius Ordelaffo de li Ordelaffeschi» spiega. Il nome ha un accento che mi suona familiare, ma non riesco a rammentare in che occasione l’ho sentito.

    «Et dove potria reperire cotesto desso?» chiedo arricciando le labbra in un sospiro di rassegnazione: l’impresa a cui sono vincolato sta assomigliando sempre più a un eterno peregrinare da un luogo all’altro.

    «Non lungi poiché est colui che va favellando veco».

    «Almeno esto problema avrà veloce scioglimento» mormoro tra me prima di esclamare: «Guidobaldo Ubaldini de la Carda ve impetra lo consenso de lo passaggio».

    «Accor…» inizia a rispondere Aloisius, poi s’interrompe. «Lo vostro dicere est contorto como le spire de una vipera et similmente stilla veneficio: non est in cotesto modo che funziona. Lo meo signore ha stabilito che solo chi mi batterà at duello potrà ottenere la prosecutio de lo suo cammino».

    «Et te pareva» commento scuotendo il capo. «Se non est de troppo indescreta curiositate, chi sarebbe costui che ha decretato tale norma de condotta?».

    «Lo magnificente et illustrissimo arcimago Belinòr».

    «In questo ager silvestre vige la costumanza che uno stregone tenga a li propri servigi uno cavaliere?» replico allibito.

    «No, ma lo fattucchiero me sconfisse in tenzone et me impose lo jogo de tale penitenza» è la mesta risposta che ricevo.

    «Siccome tra pochi fiati spiccherò la vostra nobile testa da lo collo, liberatevi de la angustia la quale sento gravare supra lo vostro animo» lo esorto. «Narrateme dunque la tragica vicenda de cui siete lo protagonista».

    «Ve sono grato per la comprensione, messere, etiam se pavento che porterete la mea storia into la vostra tomba… Dovete sapere che tra li feudatari de lo marchese Obizzone Malaspina tenetti lo primato de lo ardimento et de lo erculeo vigore sicché, quando la moglie de lo mio signore, la leggiadra domina Fiordalisa, fu ratta da Belinòr per compiacere le sue turpi voglie, meco fu affidato lo glorioso compito de condurre ella a salvamento».

    «Ecce dove avevo già audito la vostra nomea!» sbotto picchiando il pugno sulla groppa di Courageux che nitrisce di stizza. «Prima de affidarme lo medesimo incarico, lo marchese me parlò de voi, piangendo la vostra morte imperocché non eravate tornato indietro con la di lui consorte».

    «Magari fossi defunto!» si lamenta Aloisius. «Lo mio fato sarebbe stato de gran lunga più dolce de la prigionia cui sono damnato!».

    «Procedete».

    «Incontrai lo mago a passeggio intro la foresta che vedete a lo meo rurso et lo sfidai. Non ebbi nemmeno lo tempo de caricare desso che lo infame gridò Teik zis in te ass, cnait ov mai buuts! et uno tonante fulgore me avvolse».

    «Quale lenguaggio osceno est mai questo?» domando interdetto da quei suoni striduli.

    «Est la favella usata ne la nebbiosa et umeda terra de Britannia da cui proviene lo incantatore. Per la mea sventura appresi tale barbaro idioma a la epoca che scortai colà una sorella de lo Malaspina, promessa sposa at uno preclaro membro de la ‘Tavola rotonda’ istituita da lo eccellentissimo re Arturo, de lo quale avrete sicura cognoscenza».

    «Mai coverto» borbotto scocciato intanto che penso: Un altro immigrato! Come se non avessimo già abbastanza guai con i maghi ruspanti nostrali!

    «Quando recuperai li sensi, ero sdraiato tra la erba, Belinòr che incombeva sopra lo meo corpo. Ebbi credenza che me avrebbe ucciso, o quantomeno mutato in uno rospo, ma era di buono umore et, ahimè, me lasciò in vita, obbligandome, però, a difendere lo scavalcone. Como supremo dileggio tramutò lo mio blasone in quello che mirate adesso: ‘d’azzurro, al rincontro di piattola d’argento’».

    Non certo un animale di cui menare vanto di fregiarsi penso, ma mi astengo dall’esprimere la considerazione. «Ve compiango» dico invece.

    «Basta ciance de lengua: est duopo che cantino le armi» muggisce allora Aloisius. «Indossate lo elmo et preparate la vostra lancia».

    «Non posseggo né la secunda né lo primo, perduto in una accanita lizza contro una coppia de selvagge centauree de la Maremma» mi scuso. Il ricordo delle cavalcate a pelo delle due puttane mi convince una volta di più che è valsa la pena di ripagarle con il bacinetto ereditato da mio nonno.

    «Non sia mai che ve sconfigga godendo de uno sleale vantaggio: combatteremo a piedi» proclama il mio avversario. Smontato di sella, appoggia la lancia e impugna un pesante mazzafrusto. Lo imito sguainando Fracassadenti. Appena in tempo perché mi si scaraventa addosso roteando la sua arma micidiale.

    Paro il colpo con lo scudo e ribatto con un roverso sgualembrato che blocca con il manico del suo flagello. Intercetto la catena con la lama, smorzando il suo attacco e quindi calo un fendente a cui si sottrae con uno scarto del busto. Dopo questo rapido scambio di assaggio ci allontaniamo di qualche passo, muovendoci in cerchio per studiarci. È

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