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E-book145 pagine2 ore

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Info su questo ebook

“Ogni giorno. Io ti ho scritto per ogni giorno.”

Ornella Simeone nasce a Taranto il 15 settembre del 1979. Trascorre un’infanzia felice nonostante si trovi a dover vivere fin da subito la separazione dei suoi genitori e altre situazioni poco piacevoli. La sua vita cambierà direzione quando Ornella si trova a doversi trasferire negli Stati Uniti e da lì a spostarsi quasi continuamente tra Utah, Arizona e Italia. Questo cambierà completamente la sua storia e andrà a creare un legame con il continente americano che continua ad alimentarsi nel tempo, come un richiamo che si ripresenta via via sotto varie forme, luoghi, persone.
LinguaItaliano
Data di uscita31 dic 2022
ISBN9791220136754
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    Anteprima del libro

    Next - Ornella Simeone

    cover01.png

    Ornella Simeone

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    © 2022 Europa Edizioni s.r.l. | Roma

    www.europaedizioni.it - info@europaedizioni.it

    ISBN 979-12-201-3106-3

    I edizione dicembre 2022

    Finito di stampare nel mese di dicembre 2022

    presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)

    Distributore per le librerie Messaggerie Libri S.p.A.

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    Ogni step successivo

    richiederà una diversa versione di te

    Sin da piccola ho sempre sentito la necessità di scrivere il mio diario personale. Ne ho collezionati più di una ventina. Ogni diario racconta un periodo della mia vita, alcuni sono solo di poche pagine, altri racchiudono più di dieci anni di avventure.

    Credo che questa necessità sia nata dal voler condividere i miei pensieri più profondi con qualcuno di cui potessi fidarmi, qualcuno che mi ascoltasse senza giudicare e che mi capisse nel profondo.

    Ogni capitolo della mia vita mi ha preparato a quello successivo, ogni scelta mi ha spianato la strada per il passo successivo. Molti sono stati salti nel buio, affidandomi a Qualcuno più grande di me. In questo libro sono sempre io, ma stavolta sarà diverso, stavolta racconterò la mia vita tutta d’un fiato. Potrò vedere le cose con occhi diversi, capire che ciò che mi ha fatto soffrire sono state le lezioni migliori, e le esperienze più belle, tappe indimenticabili. Entrambe necessarie per farmi diventare chi sono e prepararmi a ciò che sarà in seguito. Quante volte mi sono letta e riletta le pagine dei momenti più belli, come quando riguardiamo lo stesso film cento volte. A volte invece avrei voluto fare Fast Forward e saltare le pagine dei momenti più amari, vedere subito dove mi avrebbero portata... ma ogni singola pagina racchiude un’infinità di emozioni, forse soppresse per la paura di risultare fragile. E mentre le scrivo sorrido, poi non riesco a trattenere le lacrime, poi scoppio in una gran risata.

    Mentre io spero che mi passino questa introduzione, tu goditi il viaggio fino alla prossima fermata.

    I. Sai tenere un segreto?

    Alcune cose è meglio non dirle neanche a te stesso

    Ho sempre avuto una memoria fuori dal comune. Dico davvero. Ricordo persino come ero vestita in alcuni specifici momenti della mia vita; cosa normalissima... se non fosse che parlo di quando avevo un anno, un anno e mezzo. Giuro! Sono nata a Taranto, il 15 settembre 1979 e no, effettivamente quel giorno lì proprio non me lo ricordo. Però ricordo un seggiolino rosso, Rita Pavone che canta in TV Viva la pappa col pomodoro e le scale gigantesche del portone di casa, in Corso Umberto. Erano enormi, a chiocciola, i miei genitori mi prendevano per mano, uno da una parte e una dall’altra e mi tiravano su per questa scalinata. Oplà, e uno; oplà, e due... li facevamo tutti. I miei genitori erano ancora insieme, anche se sarebbe durata ancora per poco.

    Quando divorziarono ci trasferimmo a Bari. Io, mia madre e mio fratello di due anni più grande di me. (Iniziamo benissimo...). Col fatto che mia madre lavorava, io e mio fratello eravamo sempre con la babysitter, una persona abbastanza instabile che lo piazzava davanti alla televisione a vedere film horror. A tre anni. In seguito, molto tempo dopo, scoprii che la faccenda dei film horror era la meno grave ma... andiamo avanti.

    Mia madre lavorava per conto di un professore dell’Università di Bari, svolgendo tra l’altro lo stesso lavoro che faccio io oggi; perciò ci trasferimmo lì anche per facilitarla negli spostamenti di lavoro. Un giorno tornò a casa e mi prese in braccio: fu una delle uniche due volte in tutta la mia vita in cui lo fece, una a cinque anni e l’altra a undici (sì, sì, poi spiegherò perché...).

    A me piaceva a cinque anni che mi prendesse in braccio, la trovavo una cosa bellissima. Cavolo, mia madre mi prende in braccio! Con la mia memoria assurda ricordo persino come ero vestita. O forse non era la memoria stavolta, era che davvero mi aveva preso in braccio solo due volte nella vita e quindi per forza riesco a ricordare questi magic moments. Addosso avevo una specie di bermuda a palloncino invernale, col bottone di lato sul ginocchio e la calzamaglia di lana, il gilet di lana marrone, tutti colori allegrissimi, sul marrone-viola, molto anni ‘80, infatti credo fosse il 1983, o il 1984. E mi disse, prendendomi in braccio: «Ornella senti, cosa ne pensi se la mamma porta a vivere con noi il compagno e i suoi due figli?».

    Ok... Ma era una domanda retorica?

    Lui era separato e i suoi due figli erano di poco più grandi di noi, un paio d’anni in più rispetto a mio fratello, ma ricordo che non avevo gelosie, ero aperta a questa novità, anzi, pensavo: più siamo e meglio è. E così da Lecce vennero Antonio e i suoi due figli. Era carino, ogni tanto mi portava regali, era gentile. Un peluche, un gioco, le Brooklyn bianche che sapeva erano le mie preferite.

    Ricordo che i cinque anni successivi furono molto, molto belli: finalmente avevamo in casa una figura paterna (ma poi non so perché mi commuovo mentre scrivo queste cose); la casa a Capurso era abbastanza grande, stavamo bene, c’era spensieratezza, e così dividemmo la camera mia e di mio fratello in una dove entrassero anche i figli di Antonio. C’era un bastone a metà stanza a cui erano appesi una tenda bianca e dei disegni che dividevano la parte col letto a castello dove dormivano mio fratello e il nostro fratellastro, e la parte dove c’eravamo io e la figlia di Antonio. Mia madre e il suo compagno lavoravano entrambi, perciò era bello a Natale trovarsi quei settantamila regali sotto l’albero che non sapevi da dove iniziare a scartare, anche perché noi quattro giocavamo sempre insieme, ci menavamo insieme, facevamo tutto insieme, e quindi diciamo che erano regali di tutti alla fine, avevamo un bel rapporto, molto bello, anche se ero sempre quella che si filavano meno perché ero la più piccola, tipo mi facevano solo tirare i dadi quando si giocava a Risiko e mi prendevano un po’ in giro, come si fa tra fratelli. Poi magari facevano una battuta, io non capivo ma ridevo lo stesso, sai, per sentirmi parte del gruppo, e loro mi guardavano e diventavano subito seri, per poi dirmi: «Ma cosa ridi Ornella che non hai capito? (Uff...)».

    Mi volevano bene, ovviamente, era la classica cosa del Sei-più-piccola-quindi-ti-tocca, e diventi un po’ anche il capro espiatorio di qualche marachella, il bersaglio di qualche scherzo. Che poi credo sia così tra fratelli in generale, anche le mie figlie fanno la stessa cosa, ma si vogliono bene (ogni tanto...).

    La scuola materna e le elementari le frequentai a Capurso, un paesino a 10km da Bari, insieme a mio fratello, visti i due anni di differenza che ci portiamo. La scuola era grandissima, o forse ero piccola io, però ricordo che era bello quando lo incontravo nei corridoi e ci salutavamo con la mano, passando, con lui che lo faceva un po’ di nascosto, in mezzo ai suoi compagni di classe, col grembiule blu, io più espansiva, nel mio grembiule rosa. Ricordo come se fosse ieri il suo faccino tondo e il suo sorriso tenero. Era per me un punto di riferimento: saperlo nello stesso edificio mi faceva sentire protetta, era bello incontrarsi a scuola quella rara volta, salutarsi così.

    Mi fa sorridere anche oggi questo ricordo.

    Al di là di piccoli episodi della vita, io e mio fratello siamo sempre stati molto vicini, molto legati, gli ho sempre voluto bene. L’altro fratellastro, invece, era un po’ maniaco, entrava in bagno mentre facevo la doccia, voleva mettere le mani, vedere se fossi asciutta quando uscivo, e anche se non è mai successo niente questa cosa era strana, lui aveva tredici anni, io sei. Mi fidavo, anche perché ero piccola, cosa vuoi capire. C’era anche affetto fraterno, per carità, non lo sentivo come un maniaco, e poi mi difendeva quando c’era da difendermi, giocava con me, forse era solo età adolescenziale, non so, a me non incuteva timore, l’ho sempre sentito come facente parte della famiglia, e poi comunque aveva i suoi amici, non è che stesse dietro a me.

    Quando avevo otto anni ci trasferimmo tutti in una casa più grande di quella dove stavamo. Eravamo io, i miei fratellastri e mio fratello Ermanno, assieme a mia madre e al suo compagno. Ora non c’era più il bastone al centro a dividere la stanza, ma io e la figlia di Antonio avevamo una camera nostra, così come i ragazzi.

    Era l’86 e il cambio di residenza era dovuto al fatto che mia madre era incinta. E quindi di nuovo fai le valige, gli scatoloni, preparati a una nuova casa, metti tutti i giocattoli in borsa, e vai con una nuova avventura.

    Mia sorella Daniela nacque nell’87, e fu un altro bel momento per la famiglia: cinque figli, jeep, famiglia grande, macchina grande, roulotte, poi vacanze in roulotte per risparmiare perché macchina grande più famiglia grande = tante spese; e poi gite in montagna perché a mia madre piace la montagna, quindi dalla Puglia ce ne andavamo tipo al nord, a goderci panorami mozzafiato come una vera famiglia. Bei momenti, davvero. Di quelli che ti fanno pensare a quando sei bambina e giochi nei cortili dei palazzi assieme ai figli di tutti i condomini del circondario, e sei leggera, spensierata. E un maschiaccio. Eh sì, ero un maschiaccio ma dovevo esserlo per forza visto che giocavano tutti a calcio, e io per non rimanere esclusa mi buttavo in mezzo.

    Poi con mia mamma che puntualmente mi tagliava i capelli così corti e mi faceva mettere le tute da ginnastica che andavano piccole a mio fratello, i suoi amici pensavano fossi davvero un maschio (grazie mamma). E poi, vediamo un po’... Di quel periodo ricordo che c’era il sole alto nel cielo, i fiorellini nei campi, i pic nic nei weekend, le sigle dei cartoni animati che ti fanno da colonna sonora e... mmh... che volevo dirvi? Ah sì, ecco.

    Il mio maestro delle elementari era un maniaco. Lui lo era davvero.

    Per quanto non capissi, mi rendevo conto che c’era qualcosa che non andava. Questo tipo menava ai maschi se sbagliavano qualcosa, roba che oggi sarebbe da denuncia, mentre con le bambine allungava le mani, ricordo spesso che sentivi toccarti, con la scusa che voleva guarirti il mal di pancia. Ma lì hai una sorta di pudore, di ingenuità per la quale sai che è sbagliato ma ti vergogni di dire una cosa simile, poi a chi? A mia madre? Figurarsi. Lei è stata sempre molto quadrata e il sesso era un tabù. Anche oggi se le dici qualcosa, nel 2022, è ancora molto rigida su questo argomento, quindi non potevo parlare di certe cose. Ma fossero stati solo il fratellastro e il maestro...

    Da quando i miei si erano separati, ero sempre andata a trovare mio padre; credo di aver iniziato le visite a casa

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