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Racconta la mia storia
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E-book160 pagine2 ore

Racconta la mia storia

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Info su questo ebook

Una storia vera, un dramma vissuto tutto nell'intimità della coppia, raccontato mettendo a nudo i sentimenti. Ma anche, e soprattutto, un inno alla vita, alla valorizzazione delle piccole gioie quotidiane e alla speranza che nasce dalla condivisione. Un monito a non sprecare il tempo che ci è dato a disposizione.
LinguaItaliano
Data di uscita10 ott 2018
ISBN9788827850640
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    Racconta la mia storia - Luigi Sorabella

    Indice

    Copertina

    Racconta la mia storia

    Luigi Sorabella

    Racconta la mia storia

    ISBN | 9788827850640

    Prima edizione digitale: 2018

    © Tutti i diritti riservati all’Autore

    Youcanprint Self-Publishing

    Via Marco Biagi 6, 73100 Lecce

    www.youcanprint.it

    info@youcanprint.it

    Questo eBook non potrà formare oggetto di scambio, commercio, prestito e rivendita e non potrà essere in alcun modo diffuso senza il previo consenso scritto dell’autore.

    Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata costituisce violazione dei diritti  dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla legge 633/1941.

    A Gina

    …la parte migliore di me

    Il tuo premio è nel viaggio, non c’è altro alla meta.

    (Federico Rampini)

    Ho deposto una misera rosa nera

    dov’ è stato seppellito il mio cuore

    per non dimenticare quello che era

    il nostro vincolo d’amore e di dolore

    Tutti i fatti qui raccontati sono accaduti realmente e sono riportati con la massima fedeltà che mi consente la memoria.

    Personaggi, nomi, luoghi e circostanze sono tutti reali.

    Non sono sicuro che le parole riportate nei colloqui siano quelle esattamente pronunciate, ma il senso e l’intenzione sono quelli che io percepii nei momenti in cui furono espresse.

    Potrei anche aver attribuito delle frasi, o forse interi dialoghi, alla persona sbagliata; ove ciò fosse accaduto chiedo scusa sia alla persona che espresse quei pensieri che a quella cui li ho erroneamente attribuiti e porto a mia discolpa solo il tanto tempo trascorso da molti degli eventi qui raccontati e la fallacità della mia memoria.

    Se qualcuno dovesse, comunque, trovare differenze con la realtà che conosce mi perdoni, ma sappia che mai è stata mia intenzione introdurre elementi di fantasia; me lo segnali e ne terrò conto se mai dovessi rimetter mano a quel che è stato scritto.

    Non so se qualcuno mai leggerà queste pagine ma il lettore che dovesse avere la ventura sappia che il loro scopo non è raccontare ma ricordare.

    Mi ispira la speranza, forse meglio l’illusione, che questi ricordi non scompaiono con chi li custodisce, ma possano rimanere a patrimonio di chi resta.

    Non sono uno scrittore e non so se sarò capace di portare a termine quanto mi sono proposto; so solo che devo provarci, lo devo a chi un giorno, che mi appare ora perso nel tempo ma che in realtà è stato solo ieri, mi disse

    Quando non ci sarò più, racconta la mia storia

    In parte lo devo anche a me, per cercare il perché della nostra storia; una storia comune, come tante, in parte drammatica e in parte meravigliosa, ma unica, perché la Nostra Storia.

    Prendendo a prestito le parole da un noto cantautore, so bene che tutto questo un senso non ce l’ha e che il tempo a nostra disposizione è solo quello della nostra vita terrena, senza tempi supplementari né calci di rigore; ma so anche che io sono qui, mio malgrado, e sono qui con tutto ciò che sono e sono stato, con le mie emozioni, le mie sensazioni ed i miei ricordi.

    E in questi ricordi chi non c’è più è presente come e più di quando camminava a fianco a me; allora c’erano momenti in cui, preso dagli impegni quotidiani, non pensavo a Lei, e poteva sembrare come non ci fosse mai stata.

    Ora è tutto diverso, la sua immagine impregna ogni pensiero, ogni parola, ogni azione, ogni emozione, ogni istante di luce o di buio, ogni ticchettio di un orologio che batte solo nella mia mente, ora che gli orologi non ticchettano più.

    Questo l’ho pensato quando …

    Questo l’ho detto quando …

    Questo l’ho fatto quando …

    Qui ci siamo stati quando …

    E cinque parole, solo cinque, mi tormentano; come l’eco in una caverna rimbalzano, si amplificano, si sovrappongono, si confondono ma non svaniscono mai; fanno vibrare l’animo e fanno male. Tanto, tanto male.

    Me ne sto andando, vero?

    Ma è giunto il momento di mettere un po’ d’ordine; da dove iniziare? Forse è meglio iniziare dal principio - che bisticcio di parole! - da quando, per volere di un destino benevolo, le nostre strade si incrociarono per la prima volta.

    Era un lunedì mattina alla fine del 1977 e era appena iniziato il secondo anno di università; facevo il pendolare e iniziava appena a schiarire quando giunsi alla stazione ferroviaria.

    Nell’autobus che mi portava in stazione, avevo incontrato due ragazze, anche loro studentesse pendolari, che avevo conosciuto durante il primo anno; Virginia e Assunta erano due ragazze simpatiche e cordiali con cui trascorrevo volentieri l’ora e mezzo di viaggio parlando del più e del meno.

    In tutta sincerità non ricordo se avessi mai fatto su una di loro un qualche pensiero che travalicasse la semplice amicizia, ma una cosa è certa: se anche qualche pensiero mi avesse mai sfiorato, tale era rimasto e mai si era tradotto in qualcosa di concreto.

    Raggiungemmo il binario su cui, dopo qualche minuto, sarebbe giunto il nostro treno; una decina di metri più in là c’era, in attesa dello stesso treno, una ragazza minuta che quasi non avevo notato ma di cui, stranamente, ricordo ogni particolare - forse perché non è per niente vero che non l’avevo notata!

    Indossava un paio di pantaloni di velluto marrone con le pince che formavano un grazioso rigonfiamento all’altezza del ventre, un maglioncino dello stesso colore da cui spuntava il colletto di una camicetta bianca e una giacca di pelliccia ecologica - allora dicevamo finta – anch’essa bianca che teneva aperta sul davanti - nonostante l’inverno alle porte e l’ora presta la temperatura era ancora mite - e scarpe nere con tacco basso.

    Aveva capelli neri, lisci e sottili, quasi evanescenti che scendevano a poggiarsi appena sulle spalle. Per quanto io sia tutt’altro che un gigante, mi arrivava poco sopra la spalla.

    Quando fummo più vicini, si aprì in un sorriso.

    Ciao Ginettuccia! – apostrofò Virginia; non sapevo avesse quel diminutivo

    Ciao Gina, che onore incontrarti tra i comuni mortali! Quindi anche tu prendi il treno ogni tanto!

    Che scema! Lo sai che ogni tanto scendo a casa. Ciao Assunta

    Si ma non sapevo che saresti scesa questo fine settimana. Non ti fai più sentire! – continuò Virginia

    Ma non eri in autobus? – chiese ancora

    No, sono venuta in macchina con Tina e Antonio. Dovevano andare a Napoli; il loro treno è partito poco fa – seppi dopo che erano la sorella e il cognato

    Ci presenti? – mi intromisi chiedendo a Virginia

    Lui è Gino, studia ingegneria, lei è Gina. È la mia amica del cuore, abitiamo porta a porta e abbiamo fatto tutte le scuole insieme

    Veramente mi chiamo Luigi ma, come vedi, tutti mi chiamano Gino – intervenni

    In realtà in ambito lavorativo tutti mi avrebbero poi chiamato sempre con il nome di battesimo, ma nella cerchia di amici e parenti avrei sempre continuato ad essere indicato con il diminutivo.

    Ritenendo anche Gina un diminutivo chiesi

    Gina per cosa sta invece? Luigia?

    Sta per Gina. Mi chiamo Gina e basta – rispose quasi seccata, come se la mia supposizione l’avesse offesa

    Che cosa studi? – continuai ignorando la sua reazione

    Architettura – rispose laconica

    E non viaggi? – dissi ricordando lo scherno di Virginia

    No, sto in un collegio vicino alla stazione.

    Lei – intervenne Virginia – si può permettere di stare in albergo. Non come noi poveracci, treno la mattina presto e treno la sera tardi

    Si, chiamalo albergo! Un collegio di Suore

    Beh, c’è chi ti rifà la camera e ti fa da mangiare.

    No, la camera me la rifaccio da sola

    Arrivò il treno mentre la schermaglia tra Gina e Virginia continuava, si capiva però che era solo un gioco, probabilmente già andato in scena altre volte.

    Durante il viaggio in treno continuai ad osservarla; guardavo il suo corpo minuto ma ben proporzionato e il suo viso delicato ma con un’espressione volitiva e decisa.

    Sebbene carina non era una ragazza appariscente ma aveva qualcosa, nell’espressione e negli atteggiamenti, che mi spinse a volerne sapere di più.

    Come mai un collegio? – le chiesi

    Era davvero strano; di solito gli studenti che potevano permetterselo affittavano, in gruppo, un appartamento. Qualcuno affittava una camera, con uso cucina, presso qualche vecchia signora, ma era la prima volta che sentivo di qualcuno che stava in un collegio.

    È stata una decisione di mio padre

    Tuo padre? – chiesi un po’ perplesso

    Sì, trovava sconveniente che una ragazza abitasse in un appartamento con altre ragazze o addirittura da sola. Chissà che disastri avrei potuto combinare! Di viaggiare poi non se ne parla proprio; vorrebbe che io tornassi a casa solo a lezioni finite

    E tu? Fai ingegneria civile? – chiese

    No, mi dispiace ma non siamo neanche cugini – risposi richiamando la vicinanza tra architettura e ingegneria civile – Studio Ingegneria Nucleare

    Vuoi fare le bombe atomiche? – era caduta nell’errore comune di associare l’energia nucleare alle bombe atomiche

    Veramente vorrei fare centrali elettriche

    Meno male! Mi ero preoccupata – sorrise e capii che aveva scherzato

    Aveva un bel sorriso, luminoso.

    Il viaggio continuò toccando i soliti argomenti da studenti pendolari: gli esami, i professori, le vacanze natalizie alle porte, come si era trascorso il fine settimana.

    Se qualcuno mi avesse chiesto, lì per lì, che impressione mi avesse fatto avrei, probabilmente, risposto che non era il mio tipo: troppo riservata, sulla difensiva, quasi altezzosa.

    Per fortuna nessuno me lo chiese!

    Di lì a poco anch’io mi stabilii a Roma ospite di mia sorella Anna che si era sposata a dicembre e si era trasferita a Roma dove lavorava il marito; rientravo, comunque, a casa ogni sabato all’ora di pranzo per ritornare poi a Roma il lunedì mattina.

    Per garantirmi una certa indipendenza economica, il sabato sera e la domenica a pranzo – soprattutto in primavera e autunno – e in occasione delle festività, lavoravo come cameriere in un ristorante di Gaeta; nello stesso ristorante lavoravo durante anche tutta l’estate.

    In questo periodo la nostra storia incrociò quella del rapimento dell’onorevole Aldo Moro.

    Lunedì 13 marzo 1978, come al solito, partii alla volta di Roma e, come spesso accadeva, incontrai Virginia; parlando del più e del meno le raccontai che mercoledì 15 avrei avuto un esame e che il giorno successivo, giovedì 16, non avrei avuto lezione.

    Quindi dopo l’esame torni a Gaeta? – chiese lei

    No, venerdì ho un’esercitazione, non mi va di scendere e risalire in giornata; mercoledì l’esame è nel pomeriggio e penso si farà tardi

    E allora che fai?

    Resto a casa a studiare, almeno preparo un po’ l’esercitazione

    L’esame - laboratorio di fisica - andò meravigliosamente; lo superai con il massimo dei voti, tra l’altro contraddicendo il professore su un certo argomento e dimostrando, alla fine, di avere ragione io.

    Quella notte fu, però, abitata dagli incubi: continuavo a sostenere l’esame - un’infinità di volte - e continuavo a contraddire il professore, ma ogni volta aveva ragione lui.

    Mi risvegliai tutto sudato, avevo la febbre alta, la pelle del mio viso, delle mani, dell’addome era ricoperta di puntini rossi: avevo contratto la rosolia, malattia esantematica particolarmente pericolosa per il feto in donne in gravidanza e mia sorella aspettava da pochi mesi il suo primo figlio!

    Per fortuna, poi, tutto andò per il meglio, Anna aveva già gli anticorpi della rosolia

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