Le latitudini della salvezza
Di Ursula Iori
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Info su questo ebook
Ursula Iori è nata a Cles, un paesino montano della provincia di Trento nel 1984. Dopo il diploma di ragioneria decide di entrare nell’attività di famiglia. Lavora per anni a stretto contatto con la gente dietro il banco bar di una stazione di servizio e qui impara l’arte, oltre che di fare il caffè, anche e soprattutto di saper ascoltare e di entrare in empatia con ogni genere di persona. Leggere e scrivere sono state da sempre, assieme ai viaggi, le sue più grandi passioni. Nel novembre del 2021 decide, dopo diciassette anni, che è giunto il moneto di cambiare. Il padre va in pensione e lei abbandona quell’attività che non sente più sua. Dal banco del bar si ritira nella sua casa tra i boschi dove vive con il marito Giorgio e il suo cane Tapy e dal cassetto estrae quella bozza di manoscritto iniziata tanti anni prima dopo un viaggio con la nonna in Bolivia nella Prelatura di Aiquile, una missione francescana trentina portata avanti per anni da un suo parente, Mons. Adalberto Rosat. Nel marzo del 2022 porta così a termine il suo primo romanzo Le latitudini della salvezza, e accresce in lei la consapevolezza che «da grande le piacerebbe tanto fare la scrittrice» e che per cambiare ci vuole soltanto sfrontato coraggio.
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Anteprima del libro
Le latitudini della salvezza - Ursula Iori
Capitolo 1
Sentivo l’odore del caffè. Anche questa volta Anna si era alzata prima di me e non aveva fatto il benché minimo rumore. Accadeva da qualche mese ormai, dopo anni passati a girarsi e rigirarsi tra le lenzuola senza mai trovare la voglia di uscire dal letto, che lei si svegliasse e sentisse l’esigenza di starsene sola. Credo che avesse una sorta di sveglia biologica, la sentivo trascinare a fatica il suo corpo fuori dal letto e poi lentamente fino al bagno. Ascoltavo il rumore della doccia e mi fermavo ad immaginarla lì, sotto il getto dell’acqua bollente con quel suo sguardo stanco e i capelli soffocati nella cuffia di plastica.
Anna era sempre stata la mia donna, fin da piccoli avevamo imparato a giocare assieme, avevamo la stessa bicicletta, una Atala blu che suo nonno ci aveva regalato per il nostro ottavo compleanno. Vivevamo da sempre nella stessa via a pochi passi dalla piazza centrale del paese e, come in ogni piccolo borgo montano che si rispetti, conoscevamo tutti e tutti conoscevano noi. Eravamo i gemelli
anche se nati da madre e padre diversi, ma la nostra somiglianza era molta, entrambi mori e con la pelle olivastra. Io di dicembre, Anna invece di qualche mese più vecchia, un ariete in tutto e per tutto convinta che il 26 di marzo fosse il giorno più bello dell’anno semplicemente perché quella domenica del 1972 i suoi occhi avevano visto per la prima volta la luce.
Potrei scrivere un libro intero su tutte le avventure che abbiamo vissuto assieme e credo che qualcuna la dimenticherei comunque. Anna è sempre stata un’instancabile esploratrice, e tra i due il fifone ero io, in poche parole lei era il maschio e io la femmina. Non ricordo di essermi mai sbucciato le ginocchia tante volte quanto lei, e la cosa bella era che non piangeva mai, anzi, un cerotto messo alla ben e meglio e via, tutto si risolveva così. Ancora adesso se le guardo le ginocchia posso contargliela quella moltitudine di cicatrici più o meno evidenti, indelebili segni della sua giovinezza un po’ scapestrata ma pur sempre sana e spensierata.
Sia lei sia io eravamo figli unici, il legame che ci univa era paragonabile all’amore tra due fratelli, ma in fondo c’era qualcosa di più, c’è sempre stato. Abbiamo vissuto passo a passo la nostra infanzia di bambini innocenti e poi ci siamo accorti che stavamo crescendo. Non siamo mai stati nella stessa classe, ma non ricordo un solo pomeriggio in cui non avessimo fatto i compiti assieme, lei brava in italiano, faceva i temi ad occhi chiusi, io invece faticavo molto a scrivere mentre risolvevo operazioni matematiche con la stessa naturalezza con cui lei imprimeva su fogli bianchi tutto quello che le passava per la testa. Pensare ad una vita senza di lei mi è sempre sembrato strano, perché faceva parte di me in ogni luogo e in ogni momento. Solo l’estate passavamo poco tempo assieme perché lei gran parte delle vacanze le passava al mare, mentre io trascorrevo le mie giornate annoiato pensando «Chissà Anna come si starà divertendo», ma poi riprendeva la scuola e finalmente ritornava la routine, la nostra routine.
Abbiamo vissuto assieme anche i primi approcci alla sessualità, un giorno per caso.
Avevamo all’incirca dodici anni ed era uno dei soliti pomeriggi passati tra compiti e giochi. Mi ricordo bene che fuori pioveva e, come spesso accadeva nei giorni grigi, noi ci rintanavamo nella sua soffitta tra una moltitudine di scatolini per cercare qualcosa di nuovo con cui ingannare il tempo. Ad un certo punto Anna si girò verso di me abbozzando quel suo sorrisetto furbo che ben avevo imparato a conoscere, io le chiesi che mai ci fosse da ridere e lei, come sempre senza farsi problemi, mi rispose: «Hai mai pensato di baciarmi? E di toccarmi?» e chinò il suo viso verso il mio.
Imbarazzato e ammutolito non riuscii a dire nulla e lasciai che come sempre fosse lei a prendere l’iniziativa. Fu un bacio da ragazzini, un bacio strano per noi che ci sentivamo come fratelli, un bacio forse anche un po’ ridicolo, ma un bacio piacevole che iniziammo a scambiarci sempre più spesso accompagnato da quel toccarsi in modo innocente ma nello stesso tempo coinvolgente.
Quel bacio faceva parte delle nostre giornate, scandiva il passare del tempo, dei giorni, dei mesi e degli anni.
Un giorno Anna mi disse:
«Sai, è da un po’ che ci penso, credo che mi piaccia uno, Gian, quello biondo della 3^A!». Eravamo in prima media e quel giorno credevo mi fosse caduto il mondo addosso. Ma come, Anna che mi dice che le piace un altro, non potevo crederci. Per giorni mi rinchiusi in me stesso e i nostri giochi di piacere iniziarono a non far più parte delle nostre giornate. Non capivo come poteva essere successo, non avevo mai immaginato che nelle nostre vite potesse entrare qualcuno diverso da lei e da me, e invece era successo e io lo dovevo accettare. Solo qualche anno dopo capii che anche quella fase era normale. Era normale che lei avesse le sue storielle come era normale che io iniziassi ad interessarmi al calcio e a fare lo stupido con le ragazzine della mia scuola.
Fu all’inizio della terza superiore che conobbi Irene, una bella ragazzina bionda che iniziai a frequentare seriamente anche dopo la scuola. Ci incontravamo tutti i pomeriggi e assieme passeggiavamo di qua e di là per il paese mano nella mano. Iniziammo ad uscire anche il sabato sera e la domenica pomeriggio e fu proprio una domenica che sentii che qualcosa stava per succedere, che ero cresciuto e che i baci che avevo imparato a dare con Anna non mi bastavano più. Chiesi ad Irene se fosse mai stata alla Capannina, una strana casetta che si trovava poco fuori dal paese. Era stata costruita da un certo Alfonso, un uomo senza famiglia, parecchi anni prima per i bambini della sua borgata, ma adesso quasi nessuno ci andava più.
La casetta era piccola e puzzava di legno vecchio e umido e all’interno c’erano soltanto un tavolo ed una panca che avevano un forte odore di muffa. Entrammo e lei mi guardò stranita, ma capii che non le dispiaceva affatto essere lì. Richiusi la porta cigolante dietro di noi e nel buio della capanna strinsi il corpo esile di Irene al mio. Iniziammo a baciarci, le misi le mai tra i capelli e poi pian piano le sbottonai la giacca. Faceva freddo lì dentro e i nostri aliti creavano una densa nuvoletta di vapore. Sentivo il nauseante profumo alla vaniglia che Irene usava in quantità eccessive e l’odore della sua lacca per capelli, le mie narici erano colme di lei e le mie mani iniziavano a riscaldarsi a contatto con la sua pelle calda. Scesi su, da sotto la maglietta fino ai suoi piccoli seni sorretti da un reggiseno con il ferretto mentre lei mi toccava i fianchi sotto la polo e non potei fare a meno di notare il tocco morbido delle sue mani. Ecco, forse adesso glielo devo dire
pensai anche se non sapevo bene di che cosa si trattasse in realtà, ma quello era il momento giusto e il luogo giusto, come qualche anno prima il bacio nella soffitta di Anna.
Avvicinai la mia bocca al suo orecchio e le sussurrai «Ti amo». Lei mi rispose con un semplice «Anch’io» e i nostri corpi diventarono una cosa sola. Sentivo che mi stavo eccitando sotto il tocco cauto e imbarazzato della sua mano nei miei jeans, era la prima volta che mi succedeva di sentirmi così, con l’eccitazione provocata dalla mano di una donna.
Non facemmo proprio l’amore fino in fondo, forse per paura di sbagliare qualcosa o forse per la foga della prima volta, ma arrivammo entrambi al massimo del piacere o meglio io ci arrivai sicuramente e solo qualche mese più tardi, quando la mia storia con Irene finì, mi disse che quel pomeriggio alla Capannina lei aveva finto di eccitarsi, per paura che io la lasciassi.
Anna nel frattempo faceva la sua vita, stava con un tizio di nome Leonardo di qualche anno più vecchio di lei. Ci incontravamo spesso sulla via, scambiavamo qualche parola ma nulla di più. E gli anni passavano.
Dopo le superiori mi iscrissi alla facoltà di Economia e terminai gli studi in tempi regolari. Anna invece si iscrisse a Lettere ma la sua costanza nello studio ben presto svanì, vuoi per via di quella voglia di indipendenza che da sempre la accompagnava, vuoi per chissà quale altro motivo, decise di buttarsi nel mondo del lavoro e divenne ben presto un’affermata assicuratrice. Finiti gli studi venni contattato da una società finanziaria a livello nazionale e iniziai a lavorare per loro impiegando tutte le mie energie per accaparrarmi il posto a tempo indeterminato.
Avevo ventotto anni quando decisi di andare a vivere a Milano avvicinandomi così alla sede della società per cui lavoravo, e lasciare che i miei si godessero la loro intimità di coppia, senza un figlio scapolo sempre in mezzo ai piedi. Presi in affitto un appartamentino poco lontano dalla stazione centrale e inizia una nuova vita. Mantenni i contatti solo con i miei genitori, ritornavo in paese molto di rado e quando un giorno mia madre mi disse che anche Anna si era trasferita nella mia stessa città nacque in me la voglia di cercarla, di chiederle dove abitava, cosa faceva, come viveva. Passarono i giorni ma non portai a termine il proposito di trovarla.
Il mio primo inverno nella nebbia di Milano passò senza particolari avvenimenti. Lavoravo, lavoravo e lavoravo, cercavo di farmi passare quelle giornate lontano da casa, cercavo di pensare alle feste vicine e a quanti manicaretti mi aspettavano al mio rientro in paese.
Strinsi amicizia solo con Stefano, un ragazzo milanese doc, molto cordiale che mi diede una mano ad integrarmi nella società per cui lavoravamo ed anche nella vita frenetica della città. La sera qualche volta veniva da me, mangiavamo una pizza o guardavamo qualche partita di calcio, sì insomma ci facevamo passare il tempo. E qualche volta Stefano mi portava con lui a casa di alcuni suoi amici, dove c’era sempre molta gente, si mangiava, si chiacchierava e si ballava.
Quella sera arrivai prima di Stefano, mi aveva dato l’indirizzo per raggiungere da solo la casa di questo suo conoscente. Pioveva e non si vedeva un palmo più in là del naso, erano giorni ormai che l’acqua riempiva le strade, camminare a piedi era impossibile, e l’ombrello serviva a poco. Scesi dal taxi e di corsa mi affrettai verso l’ingresso del condominio. Avevo fatto solo un paio di metri ma ero fradicio, le gocce sul mio capotto nero brillavano illuminate dalla luce del neon sopra la porta e davanti a me solo una ragazza che imprecava contro l’ombrello che sembrava non volersi chiudere. Identificai il campanello, suonai e una voce che mi vide dal videocitofono disse soltanto:
«Sali, siamo al quinto piano scala B».
Feci per entrate e notai ancora la ragazza alle prese con l’ombrello, contro voglia decisi di chiederle se le serviva una mano e lei gentilmente mi rispose
«Sì grazie, questo ombrello proprio non si vuole chiudere».
Si voltò ed entrambi rimanemmo lì fermi a fissarci come imbambolati. Io non potevo crederci e penso nemmeno lei. Scoppiammo a ridere e ci stringemmo in un lungo e fradicio abbraccio. Anche senza volerlo l’avevo trovata, Anna stava lì davanti a me con i sui occhioni scuri e i capelli neri raccolti in un berretto di lana blu, lo stesso blu delle nostre Atala.
Non avrei mai pensato che noi, cresciuti assieme in un paesino di montagna, potessimo ritrovarci proprio in una città grande come Milano.
Fu da quella sera che Anna ed io non ci perdemmo più di vista. Io mi trasferii da lei e iniziammo a vivere assieme. Un anno esatto dopo prendemmo la decisione di sposarci e dare sicurezza a quel rapporto che ci trascinavamo da anni.
Rimanemmo a vivere a Milano, lei continuava con il suo lavoro di assicuratrice ed io con il mio, sempre nella stessa società. Avrei voluto tanto un bimbo, un bel maschietto che assomigliasse tutto alla mamma ma Anna non toccava volentieri questo argomento, aveva scelto per entrambi e così doveva essere, così passarono i giorni ed io non diventai mai padre né Anna diventò mai madre.
Capitolo 2
Non credevo di poter rievocare gran parte della mia vita in così poco tempo, e invece ci ero riuscito. Quella mattina tanti pensieri mi erano passati per la mente, forse perché vedevo Anna sempre più staccata, forse perché non capivo o non volevo capire. Mi alzai anch’io, il caffè nella moka elettrica era venuto su già da un po’ e Anna era quasi pronta per uscire.
«Buongiorno tutto bene?» le chiesi.
E lei si rivolse a me con il suo solito sguardo assente.
«Sì grazie tutto bene.»
«Ah Luca, questa sera