Leonconi
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Anteprima del libro
Leonconi - Luigi G. Taverna
Leonconi
Premessa
Scusate la lunghezza di questa lettera, poiché non ho avuto modo di farla più breve.
Ho voluto raccontare in questo mio romanzo come a volte la vita ci fa percorrere strade a noi ignote, tenendoci in serbo avversità e casi incomprensibili, come presenze mistiche che vogliono in qualche modo farci capire qualcosa, e che noi purtroppo a volte non riusciamo a carpire.
Come a volte siamo portati involontariamente a ferire qualcuno che ci ama veramente.
Ho cercato di unire piccoli sunti di una vita, penso come tutte le altre cercando di rendere comprensibile il racconto suscitandone interesse, curiosità e riflessione.
Anche se non ho scritto il romanzo con la piena libertà di cui uno scrittore dovrebbe godere, voglio precisare nel dire che non vi è in esso, personaggio o fatto che abbia rispondenza, se non fortuita, con persone esistenti e fatti accaduti.
Ama la vita, amala adesso, perché se aspetti e tempo perso.
Ama il vento che t’avvolge, ama i suoi suoni… le sue canzoni.
Ama gli uccelli liberi in volo, ama le piante che nascono al suolo.
Ama il coraggio dei leoni, son predatori ma sono buoni.
Ama la vita, amala adesso, perché se aspetti e tempo perso.
Ama l’oceano immenso e infinito; lui sì, è davvero un grande amico.
Ama la luna, ama le stelle, ama la pioggia a catinelle.
Ama i poveri mendicanti forse tra loro ci sono dei Santi.
Ama gli stolti e l’ignoranti, tanto si sa son solo dei fanti.
Ama sto mondo bello e crudele.
Ma se qualcosa veramente vuoi odiare…
Odia le guerre che fanno solo del male.
Ama la vita, amala adesso.
Fallo sul serio con tutto te stesso.
Era il mio primo giorno di pensionato. Ero maresciallo dei carabinieri e prestavo servizio a San Leone, un piccolo villaggio sul lungo mare di Agrigento.
Era quasi la fine dell’estate, se non erro la prima settimana di Settembre, quasi chiaroscuro, si notavano gli ultimi riflessi del sole di quella stupenda giornata, che si rispecchiavano nel mare prima di andare a dormire, che mentre passeggiavo sul lungo mare avvolto dal pensiero di quando tornare a mio paese… non so il perché, gli occhi mi andarono involontariamente sulla statua di Padre Pio, posta alla mia sinistra, tra la passeggiata e il lungo mare, e alla destra della statua del Santo, vidi la sagoma di un uomo di media altezza dai capelli sparati di circa quarant’anni, che con passo lento, le mani in tasca, di tanto in tanto rannicchiava le spalle all’insù, come dire… "mbà…" allontanarsi, e recandosi verso gli scogli, scuoteva la testa come in segno di disaccordo su qualcosa, come se stesse parlando con qualcuno e ne disapprovava il dialogo, o forse ragionava con se stesso. La mia curiosità di uomo e di sbirro, mi indusse a seguirlo.
Facevo l’indifferente e ogni tanto dicevo a me stesso: perché lo seguo? È un uomo che vuol stare un po’ con se stesso, non ha l’aria di un poco di buono, è ben vestito, sì… la cravatta non è regolare. Ma con quest’afa!
.
Ma la mia curiosità anche se ingiustificata era troppo forte. Continuai a seguirlo senza farmene accorgere, con passo sicuro quell’uomo salì sugli scogli e si incamminò con altrettanta sicurezza fino al ciglio dell’ultimo scoglio, si fermò, e dopo qualche minuto fermo, immobile, in piedi a fissare l’orizzonte mentre il giorno dava spazio alla sera e poi alla notte, mise la mano destra nella tasca della giacca, e ne tirò fuori un pacchetto, poi fece scivolare l’altra mano nella tasca sinistra della stessa giacca e ne tirò fuori un altro pacchetto.
Dalla distanza che c’era tra me e lui, non riuscivo a vedere cosa potessero essere quei due pacchettini, cosa potevano contenere. Restai a guardare cosa facesse, notavo il movimento dei gomiti, ma non vedevo, gli ero dietro le spalle e un bel po’ di metri distante. Pensavo a come avvicinarmi senza farmi vedere, ma era impossibile che non mi vedesse se mi fossi avvicinato, volevo vedere, volevo sapere chi fosse quell’uomo e cosa stese facendo. Il perché? Non lo so. Forse, semplice curiosità, la curiosità di un uomo che per tutta la sua vita aveva fatto lo sbirro.
Finalmente mi decisi e salii sugli scogli (non son mica proprietà privata), dissi a me stesso. I due pacchettini erano semplicemente due pacchi: uno custodiva il tabacco, e l’altro i filtri con le cartine, l’occorrente per potersi costruire delle sigarette, me ne resi conto solo nel vederne una nuvoletta di fumo lasciarsi trascinare lentamente nell’aria dopo che se ne accese una.
Pensai che forse dopo aver fatto tanti anni il carabiniere, la mia mente era satura di malviventi, gente suicida o cos’altro, sentii innalzare le mie labbra a formare un sorriso silenzioso sul mio volto, ero a una decina di metri da quell’uomo a me sconosciuto ed ero convinto che non si fosse accorto di essere stato pedinato, mi girai scuotendo io la testa per andarmene pensando che forse il mio atteggiamento fosse stato ridicolo. Appena mi girai sentii una voce raggiungermi.
«Perché te ne vai marescià? Mi hai seguito fin qui e adesso te ne vai?».
Lui mi conosceva allora! Sapeva che ero il maresciallo dei carabinieri, aveva visto che lo seguivo, e io ero convinto dell’esatto contrario. L’andare in pensione per me non era prematuro allora!
«Ci conosciamo?». Dissi con tono rigido.
«Tu, forse no marescià, ma io sì. O meglio… so che sei il maresciallo dei carabinieri. Non passa inosservato un uomo in divisa con i gradi da maresciallo».
«Non sono più maresciallo. Sono in pensione, adesso sono un semplice abitante del mondo».
«Ah ah ah, abitante del mondo! Bella questa. Ma dimmi! Prima abitavi forse sulla Luna?».
Che imbecille
pensai tra me e me.
«No. Abitavo sul pianeta Giove. Ci sei mai stato?».
Ebbe così inizio una sorta di botta e risposta, pungente e provocatoria l’uno verso l’altro come se qualcuno di noi due volesse avere la meglio, si continuò fino a quando si cadde nell’infantile. Uno scambio di battute senza senso e intelletto, come fanno i bambini alle elementari.
«Ma… dimmi un po’, sei di qua? Cosa fai nella vita? E sei…».
«Non avevi detto che sei in pensione? Perché dovrei rispondere? Forse sono una faccia sospetta e allora vuoi sapere i fatti miei? Tu piuttosto, adesso che stai in pensione, cosa pensi di fare. Magari torni al tuo paese e ti godi i nipotini, li porti al parco, li vizi con i regali e… insomma come e giusto che faccino i nonni».
«Non sono un nonno. Non mi sono mai sposato, sì l’idea di tornare al mio paese c’è lì, al mio paese ho i miei fratelli, i miei parenti e affetti. Qui nonostante abbia prestato ventitré anni di servizio, ho i miei amici, e una bella cittadina, ma non è la mia. Non vi sono i luoghi della mia infanzia, e nient’altro che mi possa mettere nostalgia. E poi… penso di tornare qua come villeggiante nel periodo estivo».
Non avevo niente da fare, e decisi di iniziare a parlargli un po’ di me, del perché avevo scelto di fare quel mestiere, e del perché della scelta di essere un eterno scapolo. Non mi ero nemmeno preoccupato di chiedergli come si chiamasse né di presentarmi, continuai a parlare.
«Io mi chiamo Gioacchino, Gioacchino Cedro».
Mi tese la mano interrompendomi di colpo.
«E tu come ti chiami marescià? Vuoi del tabacco? Ti fai una sigaretta».
«No, non fumo. Arnaldo De Ciotiis».
Fece una piccola smorfia di sorriso e sedendosi sullo scoglio dopo l’avermi invitato a fare la stessa cosa, iniziò a parlarmi di sé. Mi sedetti vicino a lui, e notai che poggiò sullo scoglio dove sedeva, vicino alla sua coscia destra, una buona scorta di tabacco, cartine e filtri per potersi costruire le sigarette da fumare.
«Che ne dici se ordiniamo una pizza e delle birre, ce le facciamo portare qua, su questo scoglio».
«Al pizzaiolo gli sembrerà una presa in giro, devi riconoscere che altro non può sembrare che uno scherzo».
«Proviamo marescià… ordini lei, io pago. Se scherzo potesse sembrargli, gli dica di venire prima a pagarsi, che venga prima a prendere i soldi, poi ci porta le pizze e le birre».
Così feci, chiamai la pizzeria e dopo essermi telefonicamente presentato, il titolare della pizzeria riconobbe subito la mia voce e l’accento romanesco, senza darmi modo di proporre la verifica che non si trattasse di uno scherzo. Non sono proprio di Roma città, ma di un paesello in provincia, Guidonia per l’esattezza. Gli indicai precisamente dove eravamo, e come riferimento la statua di Padre Pio, non poté sbagliarsi. Neanche una scarsa ora e arrivò il ragazzo con le pizze e le birre.
«Dio ama la gente matta eh, caro maresciallo ecco le pizze e le birre».
«Quanto viene?».
«Diciassette euro».
«Ti avevo detto che pagavo io marescià. Tieni ragazzo. Tieni pure il resto, e dimmi. Fino a che ora siete aperti?».
«Solitamente non abbiamo un orario preciso. In teoria verso l’una, ma fino a che c’è gente rimaniamo aperti».
«Come ti chiami?».
«Vincenzo, signore…».
«Tieni dieci euro, e se prima che chiudi ti ricordi di portarci un po’ da bere, te ne guadagni altri venti. Che dici, ti ricorderai?».
«Certamente che mi ricorderò. Ma cosa vi porto?».
«Fai un po’ tu, basta che quello che porti sia ben fresco».
«Va bene signò. Corro a mettere delle bottiglie in frigo. A dopo».
«Ah, ah, ah… ci sai fare con i ragazzetti e Gioacchì?».
«Mi sembra un bravo ragazzo, e anche simpatico. Ha ragione a dire che Dio ama la gente matta».
«Perché, pensi anche tu che Dio ama i pazzi?».
«Non ho detto pazzi. Ho detto matti, i pazzi sono un’altra cosa. Penso che ama i matti, ne sono sicuro. Rifletti un po’. Tu, sei nato in provincia di Roma, e per lavoro vieni in provincia di Agrigento. Io sono nato in provincia di Agrigento e per lavoro o utopia sono andato a vivere a Roma. Siamo accovacciati sugli scogli in petto al mare, come due galline in un pollaio, mangiamo pizza già fredda e beviamo birra come due vecchi amici che si ritrovano dopo anni, mentre invece neanche ci conosciamo, non ti sembra che anche noi facciamo parte della tribù dei matti? E quanti altri matti ci stanno al mondo, ognuno la propria pazzia, dal barbone per scelta al milionario per caso. Hai visto che il ragazzo ha ragione, Dio ama i matti, se così non fosse non saremmo così tanti».
«Pensandoci bene…».
Sai, caro maresciallo. Io sono nato da una semplice famiglia, mio papà contadino, mia mamma casalinga, al mio paese ho un fratello più grande di me di quattro anni, lui non è sognatore come me. Mi ricordo che quando io avevo undici anni e mio padre, ci portava con lui per aiutarlo in campagna, mio fratello si portava dietro i libri di scuola per potere ripassare ciò che aveva studiato prima durante la pausa pranzo. Io invece mi inventavo sempre qualche scusa per non fare niente, pensavo alle ragazzine, mi piaceva essere al centro dell’attenzione, quelle ragazzette che mi guardavano in bocca e mi attorniavano per sentire le mie colorite barzellette, vecchie e ridette, ma io le modificavo, aggiungevo di mio e le recitavo in un modo… che quando mi ascoltavano neanche facevo in tempo a finirle che se la facevano sotto dalle risate.
Tutti mi dicevano che ero portato per fare il comico, ma il mio sogno più grande era quello di fare il