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Emoti(c)ons
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E-book242 pagine1 ora

Emoti(c)ons

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Per le nuove generazioni, scrivere e interloquire attraverso apparecchi elettronici sempre più sofisticati è diventata una squallida routine. Ci si conosce chattando, al riparo del freddo schermo di uno smartphone, non luogo dell’immaginario in cui basta inserire un’emoticon sorridente, una faccina gialla birichina, per far credere che tutto sia in ordine, che si stia bene, quando invece dentro si prova tutt’altro, e magari si ha l’anima in frantumi. Il non verbale, quello che può comunicare il corpo con lo sguardo, la postura, il movimento, rimane ormai avulso da una comunicazione sempre più mediata e dissociata, in cui il linguaggio viene svilito nel suo potere creativo, salvifico e rigenerativo.
E partirei proprio da questo concetto per cominciare a esprimere il valore e l’indispensabilità della silloge del Carnabuci: essa vuole rimettere al centro del discorso la parola, evocandola nella sua forza spirituale, nella sua autorevolezza graffiante e nel suo potere balsamico. […]

Nato in un quartiere popolare di Agrigento il giorno di Ognissanti del 1944, Leo Carnabuci ha fatto un regolare corso di studi – liceo classico, Università – conclusosi con una laurea in giurisprudenza presso l’università di Palermo. Ha lavorato, dal 1970 al 2006, come funzionario dell’INPS, prima a Venezia (dal 1970 al 1976), poi ad Agrigento. Ha cominciato a comporre versi per caso, in periodo di pandemia (2020), descrivendo le sue emozioni, le impressioni e i suoi ricordi in modo ironico e talvolta autoironico, per stemperare l’ansia e qualche dramma interiore.
Adesso vive da pensionato, con la moglie Giovanna, in un caseggiato situato fra la Valle dei templi e il mare, vicino ai suoi figli Gianmarco e Andrea e ai suoi nipotini Gabriele e Maria.
LinguaItaliano
Data di uscita31 ott 2022
ISBN9788830673007
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    Anteprima del libro

    Emoti(c)ons - Leo Carnabuci

    Prefazione

    Per le nuove generazioni, scrivere e interloquire attraverso apparecchi elettronici sempre più sofisticati è diventata una squallida routine. Ci si conosce chattando al riparo del freddo schermo di uno smartphone, non luogo dell’immaginario in cui basta inserire un’emoticon sorridente, una faccina gialla birichina, per far credere che tutto sia in ordine, che si stia bene, quando invece dentro si prova tutt’altro, e magari si ha l’anima in frantumi. Il non verbale, quello che può comunicare il corpo con lo sguardo, la postura, il movimento, rimane ormai avulso da una comunicazione sempre più mediata e dissociata, in cui il linguaggio viene svilito nel suo potere creativo, salvifico e rigenerativo.

    E partirei proprio da questo concetto per cominciare a esprimere il valore e l’indispensabilità della silloge del Carnabuci: essa vuole rimettere al centro del discorso la parola, evocandola nella sua forza spirituale, nella sua autorevolezza graffiante e nel suo potere balsamico. Tornare alla parola, in un certo senso, vuol dire fare un passo indietro, almeno nella memoria, per riandare a un mondo in cui le persone si guardavano ancora negli occhi, litigavano e facevano pace annusandosi come animali negli istinti, godevano dello stare assieme in compagnia di una chitarra e un bicchiere di vino, o si riunivano al calore del focolare nel rispetto sacro della famiglia. Un mondo analogico, libero dalla digitalizzazione ossessiva che, in questa folle contemporaneità, ha alzato invalicabili barriere di anaffettività fra le persone.

    Ma sarebbe limitante ridurre la silloge soltanto a questo, perché essa ha una portata tematica così ricca ed eterogenea da riempire il lettore di contenuti e idee, nutrendo la mente di sostanza più che di vuota forma. Il verso infatti è libero dal giogo retorico, non si lascia rinchiudere nelle gabbie dorate della metrica classica: seppure con una grande attenzione al suono – conferito dall’ampio uso della rima – e al ritmo – giustissima in tal senso la scelta dell’enjambement, per far vivere la lirica anche a livello ‘geografico’, dando risalto al bianco tipografico – il Carnabuci ama vagare senza freni né schemi prefissati, guidando per mano il lettore sugli assi cartesiani dello spazio-tempo.

    Perché Emoti(c)ons è anche e – forse soprattutto – un viaggio. Un viaggio nell’inconscio dell’autore, nella misura in cui la parola sgorga pura dai meandri dell’inconscio, senza il filtro compulsivo della ragione, che vorrebbe ‘normalizzarla’ nelle rassicuranti griglie del conformismo; un viaggio nei suoi affetti più cari, nelle tappe cruciali della sua vita; ma anche un viaggio nelle sue passioni: la natura, i libri, la cultura, lo sport… e altresì un viaggio fra le pagine ingiallite di un’Italia che non c’è più, e in questo la raccolta si colora di un valore antropologico inestimabile.

    Sullo sfondo di tutto, la pandemia da Covid-19, la paura del contagio, l’isolamento dagli affetti più cari, la manipolazione schizofrenica dell’informazione, l’incertezza sui vaccini, la polemica sul green pass. Perché il poeta deve avere una coscienza civica, deve essere – a suo modo – anche un faro per la società, un pilastro che, dalla sua altezza e integrità morale, possa invitare la gente a riflettere, a pensare in modo divergente, non cedendo con passività alla vulgata maggioritaria, e sviluppando, al contrario, con la propria testa, idee critiche che strutturino identità creative e latrici di cambiamento.

    Di concerto, le pagine più belle, a mio modesto avviso, sono quelle più intime, quelle dedicate alla sua Giovanna, la compagna di una vita, ai figli e agli adorati nipoti. Perché Emoti(c)ons è anche una poesia del quotidiano, che sa indugiare sulle piccole cose dell’esistenza e trarne godimento e insegnamento, svelandoci come spesso è nei piccoli gesti, nei dettagli, nei rituali che si cela il segreto di un vivere sereno, lontano dalla vuota mondanità o da rapporti basati su un principio di ‘economicità’ che è del tutto estraneo all’animo onesto del poeta.

    Sarebbe davvero impossibile concentrare in poche righe la portata emotiva e umana di una silloge che andrebbe riletta più volte, perché a ogni analisi rivela un sottotesto più pregnante, significati che a una prima visione potrebbero sfuggire. Non mi resta dunque che augurarvi una buona lettura, con il consiglio di abbandonarvi totalmente alla soave armonia delle parole, mettendovi in ascolto prima con il cuore, e poi col cervello.

    A cura di Giuseppe Palladino

    A Mario

    Non ti vedevo spesso

    ma sapevo che c’eri

    quando c’incontravamo

    fra spruzzi d’ironia e d’affettuosità

    ritornavano insieme

    gli anni di liceo e d’università

    ricordavamo come fosse ieri

    l’alta figura della Birritteri

    o il sadismo del voto

    che in greco ci affibbiava Paolo Noto

    – ti metto due –

    ci diceva con ira repressa

    e con la sua vocina un poco fessa

    ricordavamo Di Vincenzo

    e la sua commozione

    quando, da quasi pensionato,

    ci fece la sua ultima lezione

    o il professor Lauretta e il suo cappello,

    per il quale successe un gran macello

    o Padre Schembri, che insegnava religione

    ahinoi, con un senso di grande frustrazione

    l’ira furente di messer lo prevosto

    ci avrebbe messi al forno come arrosto!

    Chi era più bravo, chi più intelligente,

    qualcuno più volte ripetente

    ma eravamo una classe irriverente.

    Ricordi che andavamo

    pagando sempre a rate

    al Ragno d’oro a far le schiticchiate?

    Il proprietario, il signor Grassia,

    malgrado tutto ci aveva in simpatia

    e apprezzava la nostra compagnia!

    Una sera che eravamo una decina,

    piuttosto brilli e con la pancia piena

    dopo una cena con troppi bicchieri,

    fummo fermati dai carabinieri.

    Noi prendemmo le cose alla leggera,

    quelli, provavano a mandarci in galera.

    Allora ci difese, senza chiederci spese,

    quel galantuomo che fu Totò Marchese.

    Ci fu il processo, poi l’assoluzione;

    per festeggiare insieme la vittoria,

    e il lieto fine di tutta quella storia,

    l’avvocato ci offrì la colazione!

    L’occasione importante per vederci

    erano i decennali:

    ritornavano tutti liceali,

    ma con un filo di malinconia

    per qualcuno che era già andato via.

    Ora che anche tu te ne sei andato

    mi è doloroso ritornare al passato,

    o guardare al futuro,

    che al momento mi appare come un muro.

    Vivo un mesto presente,

    e mi aggrappo al tuo ricordo più recente.

    Natale

    È un Natale sabatico

    e, lasciatemelo dire,

    per me che son lunatico,

    è da dimenticare!

    Però non sarà facile,

    voi sarete d’accordo,

    perché, comunque vada,

    ci resterà il ricordo

    delle tante serate

    perdute, degli amici

    che stanno in solitudine

    e forse un po’ infelici.

    E quello che poteva

    essere un intervallo

    della nostra vecchiaia

    diventa invece un tarlo

    che ci rode nell’anima

    e dentro i nostri umori,

    che diventa pretesto

    per i vecchi rancori,

    per questioni passate

    che riemergono invece

    come liti sopite,

    come ricordi odiosi

    e quasi redivivi

    che ci rendono tutti

    anche un poco cattivi.

    Ma tant’è! Navighiamo

    un poco sottocosta,

    senza grandi orizzonti,

    e la sola proposta

    che facciamo a noi stessi

    è quella di aspettare

    che finisca al più presto,

    che questa pandemia

    ci lasci solo l’ombra

    della malinconia!

    Notte d’estate

    In una notte d’estate senza luna,

    rimiravo le stelle ad una ad una:

    guardavo Sirio, la più luminosa,

    poi l’Orsa, il Carro e la nebulosa.

    Osservando ad oriente, mi sorprese

    una scia luminosa, incandescente

    che attraversava assai velocemente

    il cielo buio, come corda tesa.

    Pensai con ansia ad alieni che, volando,

    fossero qui arrivati, curiosando,

    per cercare nuovi mondi da scoprire,

    o gente ancora da civilizzare.

    Ma subito mi son tranquillizzato,

    perché, a pensarci bene, ho ragionato,

    che non appena, sulla loro via,

    incontreranno deserti e inquinamento,

    con un contorno di grande pandemia,

    di sicuro andranno via dopo un momento.

    Purtroppo qui oggi siam senza domani,

    non siamo buoni neanche per gli alieni,

    o, come diciam qui, mancu p’i cani!

    Un sogno

    Stregato dalle note di Modugno,

    ho fatto un sogno

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