Coaching, maneggiare con cura
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Info su questo ebook
Carlo Bisi, coach di lungo corso certificato con la Federazione Internazionale ICF, 30 anni di esperienza in aziende piccole e grandi, imprenditore e formatore di reti di vendita, è l'autore di questo libro che non ha la pretesa di vendere il metodo migliore per raggiungere straordinari obiettivi personali e di lavoro, bensì una lettura utile a orientarsi nella giungla dei corsi e del "sentito dire", lontano da formule facili per avere successo.
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Anteprima del libro
Coaching, maneggiare con cura - Carlo Alberto Bisi
Coaching, maneggiare con cura
Carlo Alberto Bisi
Coaching, maneggiare con cura
Associazione FiordiRisorse
Via di Terranuova, 50 - 52025 Montevarchi (AR)
www.fiordirisorse.eu
ISBN 978-88-947486-1-1
Prima edizione: maggio 2023
Curatrice editoriale: Stefania Zolotti, giornalista e direttrice responsabile di SenzaFiltro
Progetto grafico e impaginazione: CNM Comunicazione
Illustrazioni interne: Elena Brugnerotto (Rebelhands)
lllustrazione di copertina: Doriano Strologo
Versione digitale realizzata da Streetlib srl
SOMMARIO
PREFAZIONE
PREMESSA DELL’AUTORE
C’e sempre una genesi
Mai più in azienda. Perché?
Mai più un team di collaboratori. Perché?
PARTE PRIMA
IL COACHING
cos’è, come maneggiarlo, il mio stile
Ero carlocentrico, poi sono diventato coach
Bucce di banana
Piangi pure
L’obiettivo passivo, l’obiettivo via da
Il metro è del cliente
Quello che dice il coachee lo deve gestire il coachee
Il buon coach non si vede dal mattino
Scalare il monte bianco in infradito
Cambiamento o evoluzione?
Tutto merito tuo: il piano di azione nel coaching
Oltre la vision c’è di più
Il pellegrino e la cattedrale
Compito
Obiettivo
Visione strategica e contributo agli altri
Ti dico come sono fatto
L’ho capito: ora cosa me ne faccio?
La fiducia: o c’è o non c’è
Se vuoi diventare coach
I primi passi da coach professionista
Un esempio di parola
Narcisi travestiti da coach
Due faq su tutte: quanto costa diventare coach e quanto si guadagna?
Come si vende il coaching?
Come trovare i clienti
Cosa dire e come dirlo
Come ottenere l’incarico
Come organizzare l’attività
Chi può diventare coach
A chi si rivolge il coaching
Quando si usa e a cosa serve
I ruoli nel coaching
Coach e coachee
Le competenze chiave del coaching
Come lavora il coach
PARTE SECONDA
COSA NON È IL COACHING
La parola coaching usata a sproposito
Uno, nessuno e centomila coach
Coach depliant
Coach quattro stagioni
Coach attapirato
Coach motivatore
Coach ciclostile
Coach aziendalista
Coach, pseudocoach e tutti gli altri
Il consulente
Il mentor
Il counselor
Lo psicologo, lo psicoterapeuta
PARTE TERZA
IL COACHING
come farlo funzionare
E quindi che si fa coi clienti?
Il team coaching
Le verità degli imprenditori, i no inevitabili
Il tempo del coach
Imprese familiari e macigni relazionali
I successi, gli insuccessi, le sorprese
Successi
Insuccessi
Sorprese
Il piccolo principe, il grande coach
La solitudine nel coaching
Conclusioni
Coach per dieci minuti
PREFAZIONE
di Osvaldo Danzi
Al 2008, anno della prima grande crisi, imputo l’esplosione del coaching in Italia. Quell’anno molti manager uscirono dalle aziende, più o meno volontariamente: per la maggior parte di loro il passato non si sarebbe più rivisto, certi stipendi altisonanti avevano girato l’angolo per sempre, il mercato facile si era fatto complesso e non era ancora chiaro a nessuno che il destino aveva cambiato sguardo.
C’è da ricordarsi bene che, piuttosto che licenziare, si preferiva spostare in posizioni più strategiche
quei manager meno adatti all’operatività, quelli più restii al cambiamento, alla rivoluzione digitale che stava prendendo il sopravvento nelle aziende. Si venne a creare un vero e proprio esercito di quadri e dirigenti lontani dal business ma con stipendi fuori mercato che, una volta accompagnati all’uscita
, si rivelarono irricevibili dal mercato stesso. Irricevibili un po’ a causa di quelle retribuzioni e un po’ perché in Italia, dopo i 50, sei considerato già scaduto
.
Il coaching arrivò come lo scivolo perfetto verso uno speranzoso quanto illusorio futuro.
Erano convinti che l’esperienza maturata come manager in aziende più o meno strutturate comprendesse in sé grandi capacità di analisi e di problem solving: difficile ammettere, invece, che non avevano capitalizzato competenze sufficienti e di essersi sovrastimati.
Da almeno quindici anni Linkedin ci propone business coach, life coach, mental coach, vocal coach (ho anche un amico che è spiritual coach: lui, almeno, è un monaco). C’è un coach ormai per tutto e, sempre più spesso, c’è un coach a sproposito che inquina le acque di aziende e persone.
Un ruolo troppo spesso affidato all’improvvisazione o a scuole di formazione che in soli tre o sei mesi garantiscono percorsi di instradamento alla carriera, con l’inevitabile conseguenza di non riuscire a coronare i sogni da liberi professionisti, se non grazie al supporto di amicizie e clientele.
Il coaching è materia da maneggiare con cura. Se affidato a narcisi o a irrisolti in cerca di una propria realizzazione personale, il rischio è molto più alto della spesa.
Come fare a riconoscere le condizioni necessarie e il momento giusto per capire se affidarsi al coaching? Questa è la domanda, prima ancora del chiedersi a chi affidare il coaching.
Ho deciso di dare ancora più spazio alla spinta editoriale di FiordiRisorse - inaugurando una prima collana di libri che ha alle spalle tutta la reputazione della nostra community, quindici anni di networking di qualità e la cura di decine di progetti ispirati all’etica e a una sana cultura del lavoro - perché volevo rimarcare quanto sia urgente parlare di persone e stimolarle a comprendere meglio il mercato e la società in cui si muovono.
Se c’è una cosa che davvero manca in questa epoca piena di parole sfibrate e maltrattate (la resilienza, la leadership, la vision), quella cosa è la cultura che tradurrei in: curiosità, approfondimento, ricerca di temi e di punti di vista divergenti e che non siano già stati percorsi migliaia di volte, sempre con lo stesso tono di voce, la stessa retorica, le stesse conclusioni che piacciono a tutti nella necessità di non mettere in crisi nessuno per accattivarsi il favore del pubblico. Oggi quel favore si misura in aridi like.
Ho scelto questo autore e questo tema con un intento ben preciso.
Conosco Carlo da quindici anni, ci ho lavorato, è stato un mio capo, l’ho visto lavorare.
Ho condiviso con lui il prezioso senso dell’ironia (da due paralleli diversi: lui emiliano, io napoletano, e sono convinto che siano due pianeti molto più vicini di quanto non si creda), della trasparenza e della concretezza.
Carlo è una persona sana, è solido. È un vero coach e lo è ormai da vent’anni, certificato da una Federazione Internazionale e, a sua volta, insegna come docente e tutor per altri coach: insomma, sa di cosa parla e ci ha investito tutto sé stesso.
Ero certo che avrebbe trattato il coaching con onestà intellettuale e senza autoreferenze, raccontando molto di più cosa non sia il coaching e quando sia il caso di evitarlo.
Non aspettatevi dunque un manuale; questo è un libro che non ha la pretesa di vendere il metodo migliore per raggiungere straordinari obiettivi personali e di lavoro. Di quelli ce ne sono già troppi, così come le inevitabili delusioni che ne conseguono.
Questo libro è una conversazione utile a orientarsi nella giungla dei corsi e del sentito dire, lontano dalle formule facili per avere successo e dai diplomifici.
State per aprire le pagine più oneste che potevate leggere sul coaching.
PREMESSA DELL’AUTORE
C’E SEMPRE UNA GENESI
Gennaio 2004, alla fine la conferma è arrivata. Brutta. Ormai me lo sentivo, non ci volevo credere, ma me lo sentivo. E pensare che pochi giorni prima, il 12 gennaio per la precisione, ero andato dal notaio per costituire la mia società, Carriere Italia, una compagine sociale snella, oppure banale, scegliete voi, eravamo io e mia moglie. Alla domanda del notaio - Quale sarà la prima cosa che farete ora che siete soci?
- avevo risposto: la spesa. Lo studio del notaio era sopra il Conad.
Ero contento, incosciente ma contento: non avevo idea di cosa significasse lavorare in proprio in una società di consulenza, ero sempre stato in azienda, con tutti i supporti e i benefit del ruolo, non avevo mai gestito un’aula come trainer, non avevo mai fatto vere consulenze, solo consigli ad amici e conoscenti. Dovevo partire da zero, come il comprare un’auto perché nei diciotto anni precedenti avevo solo avuto auto aziendali.
Immaginando alcune complessità pratico-economiche della mia nuova professione, diciotto mesi prima, quando avevo concordato l’uscita dall’azienda, avevo fatto in modo di definire una buonuscita che mi avrebbe garantito tra o quattro anni di relativa tranquillità; occhio ai termini: ho detto buonuscita, non tfr.
Ecco perché la notizia arrivata a fine gennaio era davvero brutta: azienda in forte difficoltà, rischio fallimento - cosa poi successa qualche tempo dopo - e, visto che non ero un dipendente, nessuna buonuscita e nessun tfr; Per riassumere: da amministratore delegato di un’azienda del gruppo, e al tempo stesso direttore commerciale di tutto il gruppo a niente; da retribuzioni e benefit coerenti con la posizione a niente. Niente è una parola che finché non ce l’hai davanti, in carne e ossa, quelle sei lettere non te le immagini nemmeno. In una situazione simile può capitare di sentirsi un coglione e, infatti, è andata esattamente così. In più ti senti così perso, e senza una direzione, che non sei nemmeno consapevole di tutto ciò che hai imparato nei diciotto anni precedenti, e all’età di 43 anni ti ritrovi di fatto senza lavoro, senza una copertura economica, con una famigliola fatta da moglie e tre figli, e sei sicuro di non saper combinare niente di serio al mondo. Qualcuno dirà: potevi trovarti un lavoro in azienda, come amministratore o come direttore commerciale. Giusto. Peccato che, uscendo dall’azienda, mi ero fatto due promesse: non sarei mai più rientrato in un’azienda e non avrei mai più gestito un team di miei collaboratori.
MAI PIÙ IN AZIENDA. PERCHÉ?
Ho partecipato a una galoppata di dodici anni nello stesso gruppo di aziende crescendo fortemente come carico di responsabilità: ero partito come venditore per poi diventare area manager, responsabile commerciale, direttore vendite, direttore commerciale, amministratore delegato. Un buon percorso, peccato che fossi completamente snaturato come persona. La cultura organizzativa dell’azienda era basata sui risultati, che erano sempre davanti a tutto il resto: si lavorava quattordici ore al giorno, si facevano settantamila chilometri l’anno, si raccontavano balle alle persone per assumerle, per illuderle e per licenziarle, si facevano consigli di amministrazione solo per decidere come ottenere vantaggi più o meno etici da clienti e fornitori. C’erano anche cose positive, certo: tipo imparare dal nulla a gestire prima dieci, poi trenta, poi cento fino a duecentoventi persone, negoziare con i capi dei grandi produttori di computer, sviluppare contratti particolari come il franchising in un mondo che non sapeva cosa fosse il franchising, aprire da zero mercati nuovi, uno su tutti portare l’informatica in grande distribuzione.
Ma tutto era fatto senza etica, senza rispetto per le persone, senza divertimento