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Perché il reale, eternamente
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E-book76 pagine58 minuti

Perché il reale, eternamente

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Società e scienze sociali - saggio (59 pagine) - «Nella gioia possibile del divenire, il senso è la radicalità dell’esperienza che non ci abbarbica stupidamente alle presunte radici del nostro pensiero, ma che ci porta di comune accordo a fiorire, a fruttificare, a divenire ramificati, sporiferi»


Così chiosa Carmine Mangone in quello che possiamo vedere come una sorta di seguito ideale di E nondimeno l’anarchia. Qui, in particolare, l’autore affronta gli aspetti del nostro vivere legati al governo degli spazi vitali e alle dinamiche che vi s’instaurano, le quali, soprattutto quando si agganciano a pretese di durata e di potenziamenti illimitati dell’umano, divengono fatalmente delle dinamiche di potere, sottomissione e sopraffazione. Ancora una volta, filosofia e politica, necessità e desiderio, s’incontrano e scontrano su più piani d’intervento, rendendo questo libretto digitale una forma di ribellione fondata e istintiva, resa infine coerente da un approccio anarchico e “affettuoso” verso il sapere e le cose del mondo.


Agitatore poetico e punk anarchico, Carmine Mangone è nato incidentalmente a Salerno nel 1967 e vive solitario (ma non isolato) tra le colline del Cilento. Tra le sue ultime pubblicazioni: Nostra poesia dei lupi (Nautilus, 2022); Glisser une main entre les jambes du destin (Asinamali, 2019); L'insurrezione che è qui. Max Stirner e l'unione dei godimenti (Gwynplaine, 2017).

LinguaItaliano
Data di uscita27 giu 2023
ISBN9788825425314
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    Perché il reale, eternamente - Carmine Mangone

    Affrontando lo spazio in cui si muovono i nostri corpi, accade inevitabilmente che ci si ponga delle questioni: interpellanze sul movimento; domande di senso; istanze che convogliano cose, pensieri. Tali questioni giungono a ritmare il nostro stesso andamento e riguardano eminentemente le relazioni che abbiamo col mondo, nonché il territorio fisico e mentale che costruiamo intorno al nostro vivere.

    Esistendo, e dando un qualche senso alla nostra presenza, noi ci poniamo domande, non facciamo altro che pórci domande, e finiamo così per invitare, per indurre l’Altro a darci o suggerirci delle risposte, quando non addirittura a infittire le nostre stesse domande. È una dinamica costitutiva – e oserei quasi definire post naturale – del nostro incontro/scontro col mondo.

    In una tale dinamica, io mi chiedo: se la mia massa di carne, ossa e pensiero, muovendosi nello spazio urta contro di te, in modo deliberato o casuale, che cosa accade alla nostra materia e alla materia dei nostri pensieri? Quale reazione deve innescarsi per far sì che dal nostro cozzo abbia a prodursi un’intelligenza carnale comune? In che modo trasformiamo i nostri movimenti in un luogo di appartenenza? Con la semplice intenzione?… E cosa succede quando lo scontro non genera un vero incontro? Quali sarebbero, in ultima istanza, gli elementi e le dinamiche che rendono vero un incontro?

    Certo, la verità di una relazione non nasce banalmente dalla qualità dell’evento, ma già dall’esperienza comune dell’evento stesso. Io incontro l’Altro quando si riesce a sottrarre verità al nostro eventuale scontro. E ciò avviene cercando un’intesa a partire dalle nostre rispettive verità, procedendo a braccetto verso di esse oppure restando, più o meno consapevolmente, in un comune disaccordo, tale però da consentirci la costruzione di un luogo (fisico e mentale) abitabile da entrambi. La formula rimbaudiana Je est un autre,¹ a mio avviso, è proprio lo spazio in cui ci facciamo attraversare sia da una comune riduzione della distanza, sia da un’offerta reciproca (e anche tumultuosa) delle proprie contraddizioni, in modo così da stabilire un territorio comune, abitabile, nonché attraversabile autonomamente da tutti i nostri affetti, da tutte le nostre affezioni.

    Ogni posizionamento dell’umano ha a che fare inevitabilmente con la gestione sociale dell’ambiente e con le situazioni in cui evoluiamo insieme all’Altro, nell’incontro/scontro con l’Altro.

    In ogni momento della mia presenza, io mi colloco inevitabilmente prima o dopo qualcos’altro, qualcun altro. Il posizionarsi, l’avere una posizione, il ritrovarsi ogni volta nelle proprie collocazioni, porta con sé la produzione di un ordine, di una successione, di una sequenza. L’ordine si rivela allora l’emergenza della necessità, la dinamica ineliminabile di ogni disposizione topologica. I problemi sorgono però quando l’ordine s’irrigidisce in ordinamento, quando cioè da ripetizione della presenza, da idea di posizionamento, esso diviene struttura, cosa, qualità del potere che gestisce gli addensamenti spaziali delle forze. L’ordine è ineliminabile. Risulta infatti impensabile uno spazio in cui gli elementi che lo popolano siano in perenne movimento e senz’alcuna dipendenza tra di loro. Un ordinamento, invece, è sempre contrastabile e il contrasto, qui, pertiene la differenza tra l’ordine inteso come scelta e l’ordine imposto d’autorità, vale a dire: tra l’ordine accolto e quello subìto, tra lo spazio di una autonomia e il territorio di un assoggettamento.

    In àmbito strettamente biologico, il territorio è la risultante ambientale che deriva da una regolazione degli accessi alle risorse e alle dinamiche necessarie per la sopravvivenza: cibo, rifugi, riproduzione.

    Lungo lo spazio fisico in cui si trovano a vivere, gli individui di una determinata specie sviluppano funzionalmente una propria pertinenza – una territorialità – così da ritagliarsi e preservare un’area adeguata al soddisfacimento dei proprî bisogni vitali, dalla quale escludono, in via più o meno esclusiva, gli altri membri della specie.

    In un dato territorio, troviamo solitamente lo spazio abituale di dimora – la tana, il nido – che è dedicato al riposo, all’accudimento dei piccoli e all’eventuale stoccaggio delle risorse eccedenti, nonché una zona ulteriore, molto più vasta, la quale viene controllata e attraversata con una certa frequenza al fine di creare, sostanzialmente, una cintura di sicurezza intorno alla dimora principale.

    Per i mammiferi, la tana è generalmente una possibilità, un addensamento della propria presenza e delle proprie potenzialità in un determinato luogo fisico. Ha sempre una valenza tolemaica: per brevi o lunghi periodi, infatti, tutto ruota intorno a quel perno, a quel nodo. Ed è così anche per l’uomo, benché con una differenza essenziale, costituitasi storicamente: egli ha costruito delle rigide regole sociali per garantirsi l’esclusività e un possesso stabile sulla propria tana, sulle proprie mura, in modo da tenerne lontani gli altri esemplari della propria specie senza dover intervenire direttamente per difenderle (in sua vece, ci pensa lo Stato, interviene il diritto).

    Per gli uomini, la tana è divenuta un immobile, una patria, ossia uno spazio fisico e mentale intoccabile, sacro, rigidamente assicurato dalle regole sociali della specie e che va a costituire, in gran parte, il loro territorio materiale ed emozionale.

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