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Un album di storie
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E-book239 pagine3 ore

Un album di storie

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Seguendo le voci di gente senza nome che si mescolano e si intrecciano in un perfetto racconto corale, Andonis Gheorghìu accompagna il lettore di Un album di storie nella sua Cipro. Attraverso questi racconti, tra situazioni intime e private e fatti pubblici, conosciamo la realtà dell’isola, della sua gente, a partire dalla dolorosa vicenda dell’invasione turca del 1974, le cui stragi e i cui dispersi sono, nella memoria dei ciprioti, una ferita ancora profonda e viva – che l’autore affronta in un’ottica libera da stereotipi e pregiudizi –, per arrivare ad alcuni aspetti della società cipriota contemporanea, come la condizione degli immigrati e l’omofobia. Testimonianze dirette, articoli di giornale, reportages, pagine web, citazioni da detti popolari, poesie, rendono la polifonia del libro particolarmente ricca e variegata.
LinguaItaliano
Data di uscita10 mag 2018
ISBN9788864792095
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    Un album di storie - Andonis Gheorghìu

    un gomitolo di storie

    «vieni che tua nonna non sta bene», gli telefonò sua madre un giovedì pomeriggio, «l’hanno portata in ospedale, ha vomitato sangue, un sangue scuro, quasi nero, sembra una cosa grave, e a quell’età…» non concluse la frase, ma era chiarissimo quello che ebbe paura di dire, «vengo subito», le promise, invece riuscì ad andarci solo il venerdì sera; trovò la madre e la zia fuori della terapia intensiva, non era permesso stare sempre nella stanza della malata, erano lì sedute in silenzio, rimase a guardarle per un po’ finché non si accorsero di lui, con gli anni sua madre veniva somigliando sempre di più alla nonna, erano quasi uguali, appena lo vide le spuntò un sorriso stanco, forse era la situazione; ma gli parve che lo guardasse commossa; ogni tanto ha l’impressione che sua madre veda dentro di lui nel profondo, molto nel profondo, forse più di quanto lui vorrebbe, forse tutte le mamme sono così, come se ci fosse un contatto particolare con i figli che hanno partorito: chissà in quei nove mesi di gravidanza quali alchimie e quali legami nascono e continuano per anni; disse che voleva vedere la nonna, sua madre entrò con lui; la vide immobile nel letto, attaccata alle macchine con i tubi, le facevano continuamente trasfusioni, aveva gli occhi aperti, si accorse di loro? sentiva qualcosa? aveva paura, tutta sola in quel letto, sola nella morte? un giorno tutti le staremo davanti da soli, chissà che cosa sentiva la signora Dèspina, lei che un tempo era così forte, lei che era stata la colonna della famiglia, una vera dragonessa

    lui lasciò l’ospedale per andare al paese: doveva radunare un po’ di cose e portare giù la ragazza che curava la nonna, poi sarebbe passato da casa, la mamma e la zia non sarebbero venute via, anche se i medici avevano detto loro che non era necessario restassero, tanto più che erano fuori della stanza, «è nostra madre, come facciamo ad abbandonarla?», avevano detto a lui, se ne stavano lì sedute per ore senza parlare, in quali pensieri saranno state immerse? passò una o due volte il medico, uno simpatico che spiegava bene tutto; in realtà non aveva molto da dire, nessuna novità, «un’emorragia allo stomaco» per questo ultimamente aveva dolore, ma «a causa dell’età non si può operare», lasciò intendere che cosa dovevano aspettarsi, «non soffre, non preoccupatevi» disse un’infermiera, forse per lenire la loro angoscia; stavano sedute e non parlavano, c’erano soltanto i pensieri, un gomitolo aggrovigliato, lei se ne stava andando e, come accade in quei momenti, loro rivedevano la vita di tutta la famiglia

    rimasero lì fino a tardi, quando lasciarono l’ospedale tutte e due insieme; la zia dormì a casa loro e lui, dopo avere sbrigato diverse commissioni, rientrò e non uscì più, la mattina del sabato si svegliò presto ma le trovò che erano già tornate dal supermercato e si stavano preparando per andare di nuovo in ospedale, vide che avevano comprato olive, chalùmi, vino; capì che era per il rinfresco che sarebbe seguito al funerale: se ce ne fosse stato bisogno, c’era tutto, «l’avete fatta morire prima del tempo» gli venne da dire scherzando, ma si accorse che non era il caso; «è arrivata la sua ora» gli parve di leggere nei loro occhi tristi; nel pomeriggio decise che sarebbe andato a Lefkosìa e sarebbe tornato lì nel caso in cui, Dio non volesse, fosse accaduto qualcosa; passò in ospedale per un saluto, le trovò tutte e due allo stesso posto ma più agitate, la nonna aveva avuto un arresto cardiaco, l’avevano fatta riprendere ma la situazione era grave, glielo aveva detto il medico poco prima, e mentre loro lo spiegavano a lui uscì l’infermiera, quella simpatica, «purtroppo se n’è andata», disse, soltanto questo; era avvenuto ciò che si aspettavano; gli sembrò inconcepibile che la morte di una persona venisse comunicata in modo così diretto, con tanta semplicità, d’altro canto era anche consolante, pensò, se la morte è vista come una cosa comune, forse cessa di essere tanto spaventosa; ad ogni modo, con un «purtroppo se n’è andata» la nonna Dèspina non c’è più e piano piano con il tempo sarà come se non fosse mai esistita, che strano!

    la zia non volle entrare, lo fecero solo loro: era ancora lì con i tubi e i liquidi, gli occhi chiusi come se dormisse; sua madre la abbracciò e si mise a piangere sommessamente, lui le toccò semplicemente la mano, perfino da sopra la coperta era gelida; si ricordò di quella volta in cui sua mamma gli aveva raccontato che quando aveva trovato il marito assassinato – il padre che lui non aveva mai conosciuto –, prima di realizzare che era morto lo aveva toccato e si era sentita trapassare da un gelo, si era sentita gelare il sangue, il respiro, il cuore, il cervello, tutto; «andiamo», le disse poco dopo, «andiamo»

    il funerale sarebbe stato il giorno dopo al paese, fin dalla sera presto si erano radunati tutti in casa loro, la mamma, i fratelli di lui, gli zii e la ragazza filippina, non avevano portato la morta per vegliarla come si usava un tempo, erano epoche diverse e diversi erano i rapporti tra vivi e morti, non l’avrebbero neanche fatta passare da casa, né lì né al paese; «credo che non serva e ho paura che poi in casa non riuscirei…», confessò la zia e la madre fu d’accordo, però la vegliarono in un altro modo, parlando di lei per tutta la notte, erano seduti in cucina, dove avevano mangiato qualcosa di veloce, prepararono anche il caffè e all’inizio sistemarono tutte le faccende indispensabili: l’agenzia di pompe funebri, l’automobile, l’olio, le offerte, il grano, i vestiti, «non avete un sudario? non si può fare senza, allora vi do quello che ho portato dal Santo Sepolcro» propose la moglie dello zio, non lo consideravano indispensabile, ma visto che lei insisteva lo avrebbero accettato! poi restarono per un po’ in silenzio, qualcuno fece per accendere la televisione, «stasera no», intervenne categorica sua madre, «è da tanto tempo che non ci troviamo tutti insieme, non rimbambiamoci davanti alla televisione», e, piano piano, senza la televisione, ora l’uno ora l’altro, ricordarono vecchie storie, della nonna, di tutti loro e non soltanto; pettegolezzi su gente del paese e su altri parenti, fatti divertenti ma anche lutti, amarezze, dolori di un tempo che a ripensarci adesso, dopo anni, seduti tutti insieme in cerchio, non facevano tanto male, sembravano più lievi di quando erano accaduti, un gomitolo aggrovigliato di storie che veniva dipanato, qualcuno cominciava, a un altro veniva in mente qualcosa, i racconti si mescolavano con il presente, ogni tanto anche con notizie dei giornali o della televisione, rimasero a chiacchierare fino a tardi benché si dovessero svegliare presto per andare al paese a prepararsi, dovevano anche scavare e aprire la tomba da soli

    avrebbero seppellito la nonna con il nonno, morto ormai da quindici anni, la tomba era al cimitero vecchio, là dove la ruspa non poteva entrare, «andate voi», disse sua madre, «non dovete avere paura», proseguì, «i morti non fanno niente, sono i vivi che mordono», avrebbero sollevato la lastra, avrebbero scavato e, quando avessero trovato le prime ossa, «chiamate me, se avete paura», le avrebbero raccolte in una federa e le avrebbero messe da parte per seppellirle di nuovo poi con la nonna, uno soltanto a pensarci si immagina che sia raccapricciante, invece non lo fu; alle sette del mattino andarono nel piccolo cimitero del villaggio, albeggiava e tutt’intorno si diffondeva una quiete, una pace strana, così forte che lui ne fu turbato, erano lui, suo fratello, il cugino e i due zii, in definitiva non fu per niente semplice, la terra era dura, faticarono, «staresti scavando?», lo prese in giro benevolmente sua mamma, «eh, scusa, non scavo mica forse ogni giorno!» le disse, sua madre era venuta senza che l’avessero chiamata, forse non si fidava troppo di loro, «voi uomini siete dei fifoni», li stuzzicò affettuosamente, ma loro non risposero; piano piano prendeva ufficialmente le redini della famiglia, che a dire il vero teneva da quando la nonna si era ammalata di Alzheimer, e a buon diritto, dato quello che aveva passato e sopportato, era la più forte o almeno così sembrava, comunque quando vide il teschio del nonno sembrò avere anche lei un cedimento «su, su, avanti!», dovevano ancora tornare a Lemessòl per accompagnare lì l’automobile che avrebbe trasportato la nonna; la fossa in definitiva non era abbastanza profonda e nel momento del funerale ci fu bisogno che suo fratello scendesse a scavare ancora un poco, in quel momento la mamma gli disse «voglio rivederla» e lui rimase con lei a guardare la nonna morta; era la prima volta che si trovava così vicino alla morte, e per fortuna non era tanto spaventosa quanto aveva immaginato; forse perché se lo aspettavano e, inconsciamente, da tempo si erano preparati alla perdita, non era successo come con il nonno, che era morto all’improvviso, forse perché negli ultimi anni la nonna, a causa della malattia, aveva richiesto molte attenzioni, cure e affetto, e loro le si erano stretti attorno tutti, gli antichi rancori si erano placati, le ferite si erano rimarginate, erano state dette per tempo parole d’amore; in ogni caso, di quei giorni gli rimasero impresse la dolcezza della riunione familiare e le storie che furono raccontate sulla nonna e su tante altre persone; in seguito lui le raccontò a un amico il quale ne ricordò e ne aggiunse altre, sue e non: storie vecchie e nuove, personaggi vari, varie le età, le epoche e i luoghi, un gomitolo che venne dipanato e viene dipanato tuttora; ogni tanto le storie si confondono, ti confondi anche tu: quale storia è tua, quale dell’altro, qual è il seguito, quale la fine, che importa? è un gomitolo di storie; all’inizio inizio c’è la storia di lui, della sua nascita o piuttosto della morte di suo padre: prima che lui nascesse lo uccisero in Sudafrica, dove…

    «tuo padre era al supermercato, io e tuo zio eravamo andati ad accompagnare all’aeroporto un nostro nipote che partiva per Cipro, quando tornai lo trovai a terra al centro del negozio, supino, pensai che avesse avuto un capogiro e che fosse svenuto, gli era già successo una volta davanti a me, quando si era tagliato un dito, appena aveva visto il sangue era svenuto, era un uomo sensibile, come te; ‘Andros’ lo chiamai, ‘Andros!’, lo scossi e mi spaventai, era gelido, di ghiaccio, mi sentii gelare anch’io e poi cominciai a tremare; da quel momento, finché non arrivò tua nonna da Cipro per stare con me fino a che avessi partorito e fossimo potute partire, la sera mi coricavo con le luci accese perché avevo paura, e da tuo zio, dove andai a stare per qualche tempo all’inizio, riuscivo a dormire soltanto così, con tutte le luci accese, sembrava che non avessimo un lutto ma una festa, una sagra»

    mi disse che in seguito le capitò ancora di toccare dei morti, una nonna, una zia, una amica morta giovane, ma nessuno era gelido quanto suo padre; quando lo aveva trovato a terra, all’inizio non aveva capito che cosa fosse successo, aveva pensato a uno svenimento, dovevano avergli sparato alle spalle e la ferita non si vedeva, può darsi che fossero stati i neri a ucciderlo, può darsi di no, non so esattamente, in quel periodo in Sudafrica c’erano continuamente disordini, erano stati dei rapinatori, allora? non faccio domande, non voglio sapere i particolari, lo evito; sono nato sei mesi dopo e ho preso il nome di mio padre, Andreas

    «vostra nonna aveva paura dell’aereo, ma quando uccisero Andros prese il primo volo e venne a Johannesburg, non pianse quando mi vide incinta e vestita di nero, né mi consolò quando scoppiai a piangere, ‘stai attenta a non perdere il bambino’, fu la prima cosa che mi disse, ‘il bambino non devi perderlo’; in effetti tra noi non parlavamo molto, eppure in quel momento avevo bisogno che mi dicesse qualcosa, una parola dolce di conforto, certo, adesso la capisco; che altro mi poteva dire, aveva ragione, ‘il bambino vale quanto i tuoi occhi!’»

    «non aveva torto, la morte passa soltanto con la vita»

    «vostra nonna era saggia»

    «è sempre stata così, ci metteva in riga tutti, finché non ha cominciato a perdere la memoria»

    negli ultimi anni aveva cominciato a perdere la memoria, quando il problema diventò serio e dovemmo decidere che cosa fare, ci domandammo se non sarebbe stato meglio portarla al Ricovero dei Combattenti, in quanto membro dell’Organizzazione Nazionale dei Combattenti Ciprioti avrebbe avuto tutte le cure mediche necessarie gratuitamente, però non ne avemmo il coraggio, nemmeno lei fu d’accordo, ovvio, nei momenti di lucidità lo diceva «io non me ne vado da casa mia, sto bene, io, non ho niente», alla fine le prendemmo una ragazza bulgara, Dana, ma non voleva nemmeno lei, «chi sei, chi? via da casa mia», le gridava a ogni piè sospinto, «smettila, chiudi la porta a chiave e andiamo a dormire, spegni la luce, perché frughi nelle mie cose, chi sei?», all’inizio cercò addirittura di picchiarla, «madame, la nonna vuole picchiarmi», la poveretta ogni tanto telefonava a mia mamma; fu necessario riportare la nonna dal medico, che le prescrisse delle pastiglie, e in qualche modo si calmò, fece pace anche con Dana, che le lavava i capelli e l’agghindava; un giorno, impiegandoci ore, le pulì le unghie e gliele dipinse, era la prima volta in vita sua che la nonna aveva le unghie dipinte, luccicavano anche se lo smalto era incolore, «tesoro, non portarla in chiesa così, in paese riderebbero di noi»

    «telefoniamo a Dana per dirle della nonna»

    a me invece capitò che, quando la nonna aveva cominciato a perdere la memoria, mia mamma per un bel po’ di tempo non le credette, era sicura che fosse un modo per attirare l’attenzione e che ci prendesse in giro, tanto che a volte la sgridava, «parli sul serio? non ti ricordi? che cosa sono queste trovate?», sembrava non volesse ammettere la cosa, come se ne avesse paura e la negasse, fino al giorno in cui all’improvviso la nonna, fuori di sé, cominciò a gridare «ma dove sono? dove sono? mi sono persa, tesoro, dove sono? portatemi a casa mia, a casa mia», e si trovava fuori della casa; mia mamma scoppiò a piangere, l’abbracciò e intanto le indicava la casa, «mamma, mammina, eccola la tua casa, la nostra casa, non te la ricordi, mamma? che cosa ti è successo?», la nonna niente, continuava a ripetere «portatemi a casa mia, tesoro, a casa mia»

    uno zio di mia mamma, che io chiamavo nonno, non si era sposato, non aveva avuto figli, era sempre vissuto da solo, lontano da tutti e selvatico, alcuni vicini ci avvisarono che non stava bene, ci andai io, non lo riconobbi, non era da molto che lo avevo visto, eppure mi parve fosse invecchiato anche in quel poco tempo, la casa era in condizioni miserande, lui puzzava, era trascurato, «che cosa vuole?», all’inizio fu aggressivo, poi si calmò, sembrò capire chi fossi, «ah, sei tu», mi commossi, credetti mi avesse riconosciuta… «sono anni che non la vedo», disse a una vicina che era lì: «è mia mamma Eleni»; così disse, che ero sua mamma

    e cominciò la militanza della nonna nell’Alzheimer, ricordava solo i fatti vecchi, molto vecchi, e dimenticava quelli recenti, le faccende quotidiane fondamentali; la Pasqua scorsa, mentre eravamo tutti insieme al paese, tutti nel cortile, «Marùla, di chi abbiamo detto che è la casa in cui siamo venuti? quando andiamo a casa nostra, figlia mia?», domandava a mia mamma di tanto in tanto; eravamo nella sua casa paterna ma non la riconosceva più, forse anche perché l’avevamo sistemata; se le citavano matrimoni e lutti di gente del paese o di parenti, fatti accaduti anni addietro, li ricordava, ma dimenticava quello che aveva fatto un minuto prima, «Marùla, non hai preparato il machlèpi? portamene un po’ da assaggiare», diceva, e aveva in mano il piatto e il cucchiaio con cui lo aveva appena mangiato, «chi sono questi qui, abbiamo detto?», domandava a bassa voce di tanto in tanto cercando di essere discreta, e si riferiva ai miei testimoni di nozze che erano ospiti «sono i testimoni di nozze di Andros, abbiamo detto, Andros lo conosci?», la provocavano «ma cosa mi dici tesoro, vuoi che non conosca il nostro Andros!», soltanto sul nonno non le facevano domande, chissà se lo ricordava

    «mi ricordo il giorno che vostro nonno morì e mi telefonarono per dirmelo, rispose Michalis, ‘Maria, vieni che tuo papà non sta bene’, solo questo mi disse, ma qualcosa nella sua voce mi allarmò e gli strappai di mano la cornetta»

    a quel tempo vivevamo a Mitilene, era l’ora del pranzo, eravamo tutti seduti a tavola a mangiare, quando squillò il telefono, rispose il mio patrigno, «Maria, è per te, tuo padre non sta bene», così le disse, ma dalla sua faccia si capiva benissimo che era una cosa più seria. Mia mamma prese la cornetta e diventò pallidissima, bianca come la camicia che indossava, il nonno era morto, così, all’improvviso, stava benissimo, non si era ammalato né aveva avuto un incidente; era andato nei campi a lavorare, ma siccome non tornava, la nonna aveva mandato lo zio a cercarlo, non so, magari se lo avessero cercato prima lo avrebbero

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