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Ci sono più uomini sulla terra o stelle nel cielo?
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Ci sono più uomini sulla terra o stelle nel cielo?
E-book182 pagine1 ora

Ci sono più uomini sulla terra o stelle nel cielo?

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Info su questo ebook

Un incidente svela la doppia vita di un uomo.
Due giovani donne compiono un viaggio alla ricerca di un luogo e un tempo dove tutto è cominciato.
Pagine di diario raccontano.
LinguaItaliano
Data di uscita5 feb 2017
ISBN9788826016320
Ci sono più uomini sulla terra o stelle nel cielo?

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    Anteprima del libro

    Ci sono più uomini sulla terra o stelle nel cielo? - Rita Narduzzi

    Rita Narduzzi

    Ci sono più uomini sulla terra o stelle nel cielo?

    UUID: 63af5762-ebaf-11e6-b80d-0f7870795abd

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    http://write.streetlib.com

    In copertina Lo sguardo, per gentile concessione dell’autrice Anna Maria Pacelli.

    A Bruno

    LA GENTE

    -Buongiorno commare Marì, ha’ saputo de compare ?

    -Compare chi?

    -Compare maresciallo, ‘na cosa incredibile! n’incidente con la macchina. Sta in coma. Ma la cosa peggio è che cià avuto n’ incidente co la macchina ‘nsieme a una femmina straniera che nissuno conosce. Dice che pure essa sta in coma. La famija non sapea gniente, pensaa ch’era ‘nnato al lavoro,come tutte le mattine. Che disgrazia! Eppure parea tanto ‘na brava persona. È proprio vero che l’apparenza ‘nganna!

    -E la moglie e la fija?

    -La moglie ha preso n'aspettativa al lavoro e la fija nun so manco si lavora. Cià ‘l tempo de mi fijo, so’ nnati a scola ‘nsieme: essa era brava, ma mi fijo ‘n caprone. Se vedono poco al paese. Zitta, me raccomanno.

    -’rriva gente, commà.

    -Ce se vede.

    LA FIGLIA

    4/5/1998

    Odore acuto di sangue, urina e alcool. È un pugno allo stomaco l’immagine del padre in ospedale, sballottato. E la madre abbandonata su una sedia di plastica lo aspetta.

    È l’uomo di cui porta impresse le labbra, la forma del viso.

    L’ unico che sia riuscito a farsi amare per così tanto tempo.

    I sapori di momenti già vissuti siedono alla mensa della sua memoria affettiva.

    Un rettilineo lungo qualche chilometro corre tra i campi fioriti di giallo.

    L’orizzonte si distende allo sguardo bugiardo, raccogliendo luce e asfalto.

    E le pesa sulla fronte questo cielo bluviola, gravido di profumo di terra e tempesta.

    LA MOGLIE

    Piove… e piove notte.

    La moglie siede accanto al letto e prega assorta e lontana.

    Pensando a lei, riesco facilmente a immaginarla con la corona in mano. Ancora oggi, all’età di ottantacinque anni, è convinta che niente nella vita succeda per caso e, soprattutto, che da ogni situazione, anche la più difficile, possa scaturire un bene più grande.

    Quando l’ho conosciuta, aveva i capelli bianchi e questa esperienza era solo un ricordo. Ma, quel 4 maggio del 1998, la sua vita subì una brusca frenata e si rallentò per molto tempo.

    Le sarà sembrato di impazzire dal dolore non riuscendo a credere a una doppia vita del marito e il pensiero buio del tradimento si sarà insinuato nella sua mente come un veleno. Avrà pensato allora a quella volta e a quell’altra. Avrà avuto paura, paura di perderlo per sempre, così senza un saluto, senza una parola di chiarimento. Paura di aver perduto l’amore.

    LA SORELLA

    "Commà t’è calata la befana! Me ricordo le femmine, madonna mia, che trotolaono sto ritornello quanno ‘ncontraono pe strada la mamma gravida che carreggiàa l’acqua.

    Quanno si nato tu, il 27 febbraio, nevicatte".

    Il padre la sera era teso come una corda di violino, quando il figlio pianse. I fratelli stavano davanti al grande camino dove bolliva la callara dei fagioli per la cena e avevano scordato anche la fame per la contentezza.

    Se pò sapé ch’hai combinato, madonna mia?! Quanno eri ciuco una ne facevi e cento ne pensavi; però, crescenno sperao che miglioravi. Te ricordi quanno te coprìo pe nun fatte pija le pera da babbo? Nun sentia ragione. Tò tirato su io da quanno la mamma è morta.

    Aveva tredici anni la sorella quando vide morire la madre. La portarono all’ospedale incinta di otto mesi, partorì e poi una broncopolmonite… I figli li avevano chiusi in casa pe nun facce vedé gniente.

    Eri bello, eccome s’eri bello coi ricci biondi, ripetevi ingrugnito: tutti me vojono, tutti mi vojono, ma che sò pappa e ciccia pe cane?.

    Uno di Roma che veniva in villeggiatura al paese d’estate, voleva affigliarlo. Faceva l’orologiaio e mandò il compare a casa loro per contrattare, ma il padre non fu contento: I figli io non li mando in giro, come so sette so otto de bocche da sfamà. Il babbo ci voleva bene.

    Dopo due anni il padre ha sposato una brava femmina di casa con cui ha avuto altri tre figli.

    Erano una bella famiglia unita e allegra.

    Che è ‘sta storia in cui te sei ficcato? Nun famo le fregne, madonna mia, smetti de facce penà.

    IL PADRE

    Sento i miei cari sfilare, come ombre, davanti al mio letto, le loro voci mi raggiungono da una lontananza indecifrabile. Provo a muovermi, a parlare, ad aprire gli occhi, ma è come se una forza sconosciuta e oscura mi trattenesse. Sfinito smetto di lottare e mi abbandono a questa notte senza tempo. Nel buio filtrano i ricordi.

    Da lontano la vedo arrivare col cirigno in testa appoggiato sul coroglio, nell’arsura assolata di mezzogiorno. I capelli neri ricci e il vestito grigio, stanca ma allegra: la mia mamma: Nun lo fate vanga’ ‘sto fijo ch’è ciuco e mi spettina i capelli biondi ricci, orgoglio della mia infanzia. Intanto, ho scoperto il cirigno appoggiato a terra all’ombra del gelso e incautamente incustodito. Prendo dalle mani della mamma la mia razione di fave e verdura strascinata e seduto sul cicciolo spolvero il tutto fulmineamente per poi tornare a guardare gli altri con occhi imploranti.

    -Vabbè ch’è ciuco, ma magna come uno granne - borbotta mio fratello Orfeo nell’atto di tirare a sé la scodella in cui sta mangiando. Il babbo ride e tartaglia un:

    -Boni, ce penso io!- e travasa le fave rimaste dalla sua ciotola di legno alla mia. Non dico grazie, a quell’epoca non usava ringraziare, ci si mandava volentieri a quel paese per dirci che ci volevamo bene. Oggi è cambiato tutto: se non abbracciamo i nostri figli e non diciamo loro che li amiamo siamo dei padri snaturati che creiamo in loro traumi per tutta la vita. Ma! E i sacrifici che facciamo per loro? eh no, caro mio, quelli sono dovuti. Bel cavolo di lavoro! Non c’era tempo allora per le svenevolezze, si doveva lavorare e io ho imparato a lavorare. Andavo in campagna col babbo e i fratelli grandi dall’età di quattro anni. Mia madre se n’è andata in Cielo troppo presto e credo di non averla mai abbracciata. Questo è uno dei pochi ricordi di lei: un’immagine in controluce.

    Ma la fame la ricordo bene! Avevo sempre fame e non mi saziavo mai, facevo il giro delle case del vicinato e rimediavo sempre qualche cosa; soprattutto, dopo che ero rimasto orfano: le mosciarelle, qualche fricciolosa, magari senza cacio, perché il pecorino si vendeva ai signori insieme alle parti più buone del maiale, un tozzo di pane ammollato nell’acqua del testo. Le femmine tenevano sempre la porta di casa aperta: era un viavai continuo. Si viveva tutti insieme e i segreti erano quelli di pulcinella: tutti sapevano tutto di chiunque. I monelli scalzi e sporchi erano un po’ i figli di tutti. Eravamo sempre in giro, quando non lavoravamo in campagna col babbo. Ma anche i problemi di uno erano i problemi di tutti. Mi ricordo di quando mio fratello Orfeo doveva andare all’accademia, tutti gli abitanti più facoltosi del paese, altrimenti detti signori, ma anche gli altri, secondo le loro possibilità, fecero una colletta per pagargli il corredo e lo strumento.

    LA FIGLIA

    6/5/1998

    -Dottore quali sono le condizioni di mio pare?

    -Lo stato di coma persiste, dobbiamo soltanto aspettare.

    Sente gli occhi brucianti riempirsi di lacrime.

    -Coraggio signorina! – in tono amichevole battendole una mano sulla spalla.

    Lo guarda dal vetro suo padre: i colori del viso rubicondo e gli occhi grigioverdi muti; sembra dormire. Sono tutti lì davanti a quel vetro a sperare che il loro amore possa ricondurlo indietro.

    I giorni si succedono pesanti come pietre e lei che sembra non avere più un altrove è ancora lì a scacciare la morte con le mani, come le mosche d’estate.

    La vita si è come rallentata dentro di lei; attorno, l’aria calda, pesante e soffocante dell’ospedale.

    Gli infermieri si inseguono con la disinvoltura di chi è ben corazzato emotivamente, i portantini e il personale delle pulizie con l’aria di sufficienza di chi non ha voce in capitolo. I medici, ora in verde ora in bianco, corrono sempre distanti e irraggiungibili.

    Cerca una via di fuga al diluvio verbale di una brava donnina che, persa in una delle interminabili attese ospedaliere, le ha già raccontato buona parte della sua settantennale vita. La saluta proprio con la scusa di dover parlare col dottore e poi svicola nel corridoio per non incontrarlo. Ha paura di ciò che possa rivelarle sulle reali condizioni del padre. La paura la paralizza, non riesce a pensare di perderlo. Non vuole proprio pensare. Vorrebbe stordirsi, urlare, fuggire; ma non si scappa da se stessi, lo imparerà col tempo. Una paura del genere la proverà tanti anni dopo, in un’altra occasione in cui la vita la porterà dentro di sé, ma questa è un’altra storia.

    LA MOGLIE

    Sulla porta della casa paterna lei lo guardava e gli parlava di come si sentiva quel giorno. Non è mai stata brava a esprimere i sentimenti per quella riservatezza a cui è stata educata. Era felice, perché lui era venuto a cercarla; non erano ancora fidanzati, ma si frequentavano da un po’ e lui non perdeva occasione per esprimere interesse nei suoi confronti. Teneva la mano destra nella tasca dei pantaloni grigi, la camicia bianca arrotolata fin sugli avambracci e la giacca del vestito appoggiata sulla spalla sinistra, era calmo e sicuro e straordinariamente bello nella sua magrezza con gli occhi verdi arrossati. Lo sguardo si spostò lentamente verso una donna che, ad alta voce parlando con altri dal fondo della via, sembrava conoscerlo e voler richiamare la sua attenzione, ammiccante. Quello sguardo, il suo sguardo, che mentre era lì per lei diceva ad un’altra: Io prima di essere aceto ero vino, la attraversò come una lama fredda tanto

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