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La mia vita in due continenti
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E-book333 pagine6 ore

La mia vita in due continenti

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La mia vita in due continenti di Amelia Giovinazzo Agostino è l’intenso racconta della vita dell’autrice, partendo dalla sua difficile infanzia in Calabria fino a raggiungere il riscatto e il benessere tanto agognati in un nuovo paese, il Canada, che imparerà ad amare come la sua terra d’origine. La tenacia e la forza nel non arrendersi mai sono le doti che caratterizzano una ragazza che fin da subito imparerà a rimboccarsi le mani per raggiungere i suoi obiettivi, serenità e felicità, che rincorrerà per tutta la vita. Il romanzo mantiene tutta la veridicità di un linguaggio semplice, influenzato da una lingua completamente nuova imparata da autodidatta. Il risultato è un coinvolgimento per il lettore unico, rapito da un’intensità di vita quasi impossibile da immaginare.


Nata in un piccolo paese della Calabria nel 1938, Amelia Giovinazzo è la seconda di otto figli di genitori umili e onesti. Cresciuta durante la Seconda Guerra Mondiale, i suoi ricordi della prima infanzia sono di miseria e fame, ma è spesso confortata dalla bellezza della terra che abita nonostante le difficoltà. Troppo timida per chiedere a sua madre un taccuino a causa della loro povertà, cercava pezzi di carta per scrivere storie e poesie che catturassero le storie della sua città. Nell’aprile del 1962 Amelia lascia l’Italia e non vi fece più ritorno: la sua nave partiva da Napoli per il Canada, dove vive da allora. Oggi ha 85 anni e vive con suo marito ed è circondata dai suoi figli e da molti nipoti. Continua a divertirsi scrivendo e condividendo i suoi ricordi e le esperienze del bellissimo paese che ha lasciato e del bellissimo paese in cui risiede attualmente.
LinguaItaliano
Data di uscita11 lug 2023
ISBN9788830686809
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    La mia vita in due continenti - Amelia Giovinazzo Agostino

    cover01.jpg

    Amelia Giovinazzo Agostino

    La mia vita in

    due continenti

    © 2023 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l., Roma

    www.gruppoalbatros.com - info@gruppoalbatros.com

    ISBN 978-88-306-7779-1

    I edizione aprile 2023

    Finito di stampare nel mese di aprile 2023

    presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)

    Distribuzione per le librerie Messaggerie Libri Spa

    La mia vita in due continenti

    Per mio papa che non ha mai visto l’abbondanza

    Introduzione

    di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: «Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere».

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi:

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi, ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei Santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterley. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i quattro volumi di Guerra e pace, e mi disse: «Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov».

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre, è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi, potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    La mia vita in due continenti

    Nata in un piccolo paese in Calabria, San Giorgio Morgeto, ai principi della Seconda Guerra Mondiale, i ricordi della mia fanciullezza e parte della mia giovinezza sono ricordi di fame, paure e tante cose tristi.

    Voglio precisare un fatto, che la fame di cui parlo non era solo nella mia famiglia, ma era generale, io credo che la Guerra abbia distrutto i viveri non soltanto in Calabria, ma in tutta l’Italia, addirittura in tutto il mondo, perché di guerra mondiale si parlava.

    Incomincio a ricordare la famiglia in cui sono nata e la casa dove sono cresciuta. Essendo la seconda di otto figli, in me ci sono tanti ricordi di sofferenze e dolore.

    Ricordando parte della guerra, affiorano in me tutte le paure che una bambina poteva provare, quando sentivo le persone che nei loro ragionamenti dicevano che ormai per noi era la fine, che i tedeschi alle donne ci tagliano il seno e dopo aver ucciso i bambini si mangiano il loro fegato; erano paure immense, difficili da raccontare, paure che si portano appresso per il resto della vita senza mai poterle dimenticare.

    A quell’età credevo a tutto quello che sentivo e a quello che vedevo, magari vedendo cose piccole che poi nella mia immaginazione si facevano giganti, bastava sentire la sirena per pensare che il mondo finisse da un momento all’altro.

    Oggi capisco che quei discorsi che le persone adulte facevano erano fondate sulle loro paure, ma nelle loro paure non capivano il male mentale che causavano a tutti i bambini, oppure alle mamme.

    Quante volte ho visto mia madre piangere, povera donna, a quei tempi aveva tre bambini piccoli e il solo pensiero che da un momento all’altro potevamo finire sotto le bombe per lei era un dolore grande; mio papà era richiamato alle armi, mia madre ci rassicurava, diceva che papà non faceva la guerra, ma che aggiustava i ponti bombardati dai nemici.

    Non ricordo che giorno era, solo ricordo una mattinata piena di sole, sentivo tanta fame, quella mattina non avevamo mangiato niente, nemmeno pane, perché non ne avevamo, ma non era la prima mattina che non facevamo colazione, alle paure e alla fame eravamo abituati fin da piccolissimi, era di sicuro una mattinata d’estate però, perché la finestra del balcone dalla stanza da letto dei miei genitori era aperta; ad un tratto, lontano si vede un polverone e si sentono le bombe esplodere, mia madre incomincia a gridare chiamando il nome di mio papà, Michele, noi figli incominciammo a piangere e gridare, ma io non sapevo perché piangevo, Sofia, mia sorella, sapeva che io ero paurosa e mi disse «La mamma piange perché stanno arrivando i tedeschi per mangiarci il fegato».

    Sofia aveva ventun mesi più di me, ma aveva un diavolo per capello, la mamma aveva ragione di gridare, gli apparecchi a bassa quota stavano bombardando il ponte di Petrace vicino a dove era papà, ma per grazia di Dio papà si salvò.

    I nonni materni, ai piedi del paese, avevano un pezzo di terra, in quella terra avevano una piccola casetta composta da una stanza, quel pezzo di terra a me sembrava un paradiso, c’erano tutte le qualità di frutta, mia nonna, appassionata di fiori, li coltivava tutti, poi a primavera quando incominciavano a sbocciare le violette e tutti gli altri fiori si sentiva un profumo da lontano, ma quel profumo non era niente in confronto alla fioritura degli agrumeti. Pensavo a quel posto come ad un paradiso, ma non era così: col passar degli anni capii il perché, in quel posto la nonna versava tante lagrime, nella casetta in un angolo c’era un piccolo tavolino, su quel tavolino c’erano due foto, una era di una piccola bimba e l’altra di un giovane uomo, accanto a quelle foto c’era una lampada ad olio che stava sempre accesa e tanti fiori freschi, io ero troppo piccola per poter capire il significato di tutto, ma come il tempo passava ho domandato a mia madre il perché di quelle due foto e della lampada accesa.

    Con lagrime agli occhi, mia madre mi ha spiegato che la foto della bimba era di sua sorella, che all’età di sei anni nel Quaranta era morta per una intossicazione, si era alzata sana una mattina di luglio, tutto sembrava normale, ma ad un tratto la bambina disse che si sentiva male, «Ci siamo accorti che aveva una forte febbre, subito l’abbiamo portata al dottore, e con grande sorpresa il dottore ha detto che gli dispiaceva ma che lui non poteva fare niente, che aveva una forte intossicazione, la medicina esisteva, ma non al nostro paese. L’abbiamo portata a casa e l’abbiamo messa a letto e dopo poche ore, cantando Campagnola bella, spirò. L’altra foto è di mio fratello Giuseppe che si trova in guerra, sono più di due anni che non abbiamo notizie, non sappiamo né se è vivo né se è morto».

    Con vivo ricordo, quel giorno una tristezza immensa scese in me, adesso capivo perché la povera nonna piangeva sempre le sventure della sua vita.

    I giorni passavano pieni di tristezza, malinconia e fame, quanta fame, la guerra continuava e i viveri diventavano sempre di meno.

    Non si trovava da comprare niente, né pane né altri viveri, le persone erano costrette a mangiare le erbe che si trovavano nei prati, ma col passare del tempo pure quelle scarseggiarono.

    Io e Sofia eravamo piccole e non potevamo dare aiuto a nessuno, l’unica cosa che potevamo fare era raccogliere fiori e portarli alla nonna per metterli di fronte alle foto.

    Di quel periodo ricordo il pane tesserato, il governo ci dava duecento grammi di pane al giorno, io e Sofia tutte le mattine andavamo assieme alla mamma a questa bottega a prendere il pane, mia madre al braccio portava un cestino coperto con una salvietta, ma una mattina successe un fatto strano, entrando nella bottega non c’era nessuno, sopra un tavolo c’era un contenitore pieno di pane, mia madre guarda dappertutto e visto che non c’era nessuno prende un pane e lo nasconde nel cestino, ci fa segno a me e Sofia di stare zitte e aspetta; quando è venuta la proprietaria di quella bottega, la mamma le diede la tessera, lei ci pesò la nostra parte e poi siamo andate via dirigendoci verso la campagna dei nonni. Sofia ed io eravamo contente, credevamo che quel giorno la porzione del nostro pane fosse più grande, ma non fu così, la mamma ci disse che quel pane lo conservava per Simone, perché lui è piccolo e la fame non la resiste, a quei tempi, nemmeno capivo che la mamma aveva rubato quel pane, ma poi col passare degli anni capii che una mamma per amore dei propri figli può diventare anche una ladra.

    Non si possono dimenticare le cose passate, più gli anni passano più riaffiorano alla mente, forse è vero che ad una certa età dopo che i figli si sposano e si finisce di lavorare hai più tempo per ricordare il passato della tua vita; pensi che se la vita si vivesse due volte quante cose cambierei, ma ci sono cose che non si possono cambiare, come la guerra, la guerra non la fai tu ma i governi diabolici che non sanno ragionare mettendo la vita di nazioni intere in pericolo. Quanti giovani sono morti, quante mamme hanno pianto e piangono ancora, io capivo da bambina che dolore grande era perdere qualcuno caro, perdere un marito o un figlio, ma oggi che sono sposa e mamma comprendo di più che cosa significava quando le donne del paese avevano notizia che un proprio caro era morto in guerra, si scioglievano i capelli in segno di dolore.

    Durante la guerra, vicino la campagna di mia nonna, si accamparono due battaglione di soldati italiani, i soldati erano tanti, ma tutti giovanissimi, ragazzi che ancora avevano bisogno delle carezze della mamma, ragazzi che dovevano essere tra i banchi di scuola e non con il fucile tra le mani pronti ad uccidere il nemico, che poi il nemico era anche lui, un ragazzo figlio di una mamma e a pensare che i capi di governi, quelli che decidono di fare guerra, passano la loro vita e la vita dei loro cari al sicuro e ogni fine settimana vanno a divertirsi in posti di villeggiatura ignorando quanto sangue innocente cade per terra, quante persone muoiono, quante persone rimangono invalide per il resto della loro vita e quanti occhi piangono.

    Di questi soldati che erano accampati ne ricordo tanti, ma due di loro li ricordo con particolarità, uno si chiamava de Masi, l’altro Baldasi, nome che non dimenticherò mai, quando potevano ci portavano a noi bambini del pane e alla nonna del sale, noi bambini eravamo affezionati a loro.

    La nonna li trattava come figli, ma una mattina all’improvviso partirono senza un saluto, senza un addio, andavano a Monte Cassino, dopo pochi giorni la notizia sui giornali che ci fece agghiacciare il sangue: quei battaglioni di soldati furono tutti uccisi proprio a Monte Cassino; piccolina com’ero mi domandavo il perché.

    Quante sofferenze e quanti disastri si vedevano e si sentivano raccontare, cose che se oggi li racconti ai figli non credono e hanno ragione, perché certe cose se non si vedono sono difficili da credere.

    Sempre in campagna dai nonni fuori all’aperto avevano il forno dove facevano il pane, sotto quel forno c’era un vuoto dove la notte dormiva il maiale. Era una mattina d’autunno, non era freddo ma pioveva, il cielo era scuro sembrava che fosse in lutto, nelle strade la gente correva, sembrava impazzita, grida e pianti si udivano da ogni parte, vediamo quest’uomo che va verso mia nonna e le dice: «Maria Concetta, se avete roba nascondetela, perché stanno arrivando i nemici e si prenderanno tutto, nascondetevi pure voi, che come passano uccidono tutti, grandi e piccoli».

    Si sono messi tutti al lavoro nascondendo tutto quello che possedevano in quel ripostiglio sotto il forno.

    Tutti eravamo pronti in caso avessimo sentito la sirena a scappare dentro i ricoveri, tane che avevano costruito quando era cominciata la guerra; quante volte quando si sentiva la sirena e gli aerei venivano verso di noi siamo scappati dentro quei ricoveri, ma San Giorgio Morgeto non fu mai bombardato, tutti quei piccoli paesi intorno a noi invece hanno visto bombardamenti e morti. Cittanova, che dista nemmeno dieci chilometri da noi, fu quasi resa al suolo e così tanti altri paesi in Calabria; noi non abbiamo visto nemmeno una bomba esplodere sul nostro paese, quelle che sono cadute non sono mai esplose, era forse vero, come dicevano tutti, che San Giorgio ci proteggeva?

    San Giorgio Morgeto è piazzato sopra una collina, con in cima un castello; la storia racconta che fu costruito dai Saraceni. Vi regna la bellezza naturale, l’aria e l’acqua più pulite e umiltà tra paesani; poi c’è una bella chiesa, un convento dove vivono i frati domenicani e le suore che dirigevano anche l’asilo infantile; le strade del paese erano tutte a gradini e le case attaccate una all’altra. In ogni pezzo di strada c’era una fontana, acqua naturale di sorgente che veniva dalle nostre montagne, a quei tempi nessuno aveva l’acqua dentro le case, le persone andavano a prendere l’acqua a quelle fontane per tutte le necessità, ma pure per andare a prendere l’acqua in quei brutti tempi di guerra la gente aveva paura.

    Nel paese c’era la luce elettrica, ma nelle campagne la sera si accendeva il lume, quante sere quando suonava la sirena del coprifuoco in un batter d’occhio il paese e le campagne diventavano scure; seduti in quel buio nessuno parlava, quello che ognuno sentiva era il battito del proprio cuore che per la tanta paura sembrava impazzito.

    Spesso nel paese era lutto generale, quando le famiglie avevano notizie che i loro figli non sarebbero più tornati perché erano morti in guerra, vedere quelle mamme gridare e piangere con i capelli sciolti sul viso era davvero straziante, ma non piangevano da sole, tutto il popolo del paese piangeva con loro, sono ricordi incancellabile che come gli anni passano nella mia mente ma non si spengono, anzi si fanno più vivi.

    Al castello c’è un lungo monumento che onora tutti i caduti in guerra, lì si può notare quanti centinaia di giovani paesani hanno perso la vita e quanti mamme per anni hanno pianto portando il lutto nei loro cuori fino alla loro morte, guerra per me è la parola più brutta che ci sta in tutti i vocabolari.

    Mio papà di tanto in tanto ritornava, lo vedevamo per pochi giorni e poi ripartiva, il 12 dicembre 1943 è nato mio fratello Dario; in tutta quella miseria e fame si aggiungeva un’altra bocca da sfamare, ma al problema della fame si aggiungeva anche quello del posto per dormire, la casa era troppo piccola, ma i genitori vedevano la cosa differentemente, loro dicevano, figli e salute, altro non serviva.

    La casa in cui vivevamo era piccola, ma per fortuna era a due piani, al primo piano c’era la porta d’entrata, a fianco della porta c’era un cesso di cemento con un buco nel mezzo e un coperchio di legno, questo era un lusso, perché tante case non ce l’avevano; poi c’era una stanza con un armadio, un bel tavolo e una vetrina, questi mobile li aveva fatti mio papà, falegname specializzato, lavorava per la signoria del paese: da un pezzo di legno dalle sue mani uscivano capolavori di mobili stupendi, mio papà era un uomo intelligente e acculturato.

    Poi al piano di sopra c’era un’altra stanza e una piccola cucina, la stanza di sopra vantava due balconi, da uno si vedeva l’Aspromonte, l’Etna e lo Stromboli, che quando mandava fumo e cenere sembrava che li potevi toccare con le mani, era qualcosa di incantevole da guardare, si vedeva il mare con centinaia di barche e decine di piccoli paesi che la sera quando erano illuminati sembravano il mondo delle fiabe; dall’altro balcone invece si vedevano le montagne della Sila, vedute di montagne pittoresche ed incantevoli.

    Nella stanza al piano di sopra c’era il letto matrimoniale dei genitori, un lettino dove dormivamo io e Sofia; c’era pure un tavolo da cucina dove mangiavamo; nella cucina c’era un focolaio e un forno, il focolaio serviva per cucinare, a quei tempi, non avendo altre possibilità, era quello l’unico mezzo, poi nel forno si faceva il pane, quando c’era la farina.

    Né acqua fredda né calda c’erano, se pure in Calabria il freddo non fosse paragonabile a quello canadese, da dicembre a febbraio faceva freddo vero, l’unico modo per riscaldarci era accendere il fuoco, di giorno al focolaio e di sera con il carbone. Chi più chi meno queste erano le usanze del paese.

    Ricordo un giorno, forse era il ’41 o il ’42, non ricordo con esattezza ma era in piena guerra; mia madre a me e a Sofia ci porta all’asilo dalle suore per fare l’iscrizione, le suore le dicono che all’asilo dobbiamo andare con il grembiule blu ed il collettino bianco, questo turba mia madre, dove può prendere questa stoffa per fare questi grembiuli? Pure che ci fossero stati i soldi era la stoffa che non si trovava. Arrivammo in campagna, quel giorno pioveva a dirotto, lampi e tuoni, un forte vento, era una tipica tempesta autunnale; mia madre racconta alla nonna quanto le suore le hanno detto, mia nonna era una donna analfabeta ma piena d’ingegno e risorse, ha detto a mia madre: «Vai alla bottega che vende bustine di colorante, comprale e portale qui».

    Quando mia madre tornò con quelle bustine, mia nonna prese una caldaia, la riempì d’acqua e la mise sul fuoco, quando bollì, mia nonna ci gettò quelle bustine di colorante e ci aggiunse delle lenzuola bianche, io vedendo che l’acqua si faceva blu e pure le lenzuola mi sembrò di vedere una cosa magica.

    Quante cose si imparano quando c’è necessità, la miseria, la fame, le sofferenze forse col passare degli anni ti preparano ad accettare e superare tante cose; se nel corso della vita si soffre, non hai paura, perché alle sofferenze ci sei abituata.

    Da quella stoffa mia madre ha cucito due grembiulini, uno per me e l’altro per Sofia, si poteva dire che eravamo pronte, ma non ancora, per andare all’asilo ci servivano le mutante, ma girando tutte le botteghe di due paesi, San Giorgio e Polistena, non trovarono l’elastico che serviva per queste mutande, allora mia madre pure lei da buona donna ingegnosa cucì queste mutante con una spaccatura ai fianchi e per ogni paio cucì quattro cinte, due le mise nella metà davanti e due in quella di dietro e ci insegnò come usarle: «Per primo legate la metà davanti sulla vostra schiena e la metà di dietro sulla vostra pancia, quando dovete andare al gabinetto, sciogliete le due cinture che avete sulla pancia, facendo questo la metà di dietro si apre, fate i vostri comodi e quando avete finito prendete la metà di dietro e la legate di nuovo sulla vostra pancia».

    Non potrò dimenticare quella mattina dal primo giorno d’asilo, Sofia piangeva che non voleva andare, io mi sentivo come una principessa, la prima volta che avevo le mutande e il grembiulino nuovo con il collettino bianco, pensavo: «Se non ci fosse la guerra, come sarebbe bello!».

    Io e Sofia, sorelle ma differenti l’una dall’altra come la notte dal giorno, lei cresceva forte, non aveva paura di niente o di nessuno, io crescevo debole e avevo paura di tutto, lei era egoista, incontentabile, voleva tutto per lei, io ero altruista tante volte la mia porzione di pane la dividevo con lei e con Simone: da questo fatto che raccontava mia nonna si può capire che Sofia era nata con un carattere arrogante, autoritario e malvagio.

    Mia nonna raccontava che il giorno che io ero nata, Sofia aveva ventuno mesi, la nonna l’ha presa in braccio e ha detto: «Guarda Sofia che bella sorellina la mamma ti ha regalato, toccala, dalle una carezza» ma la risposta di Sofia ghiacciò il sangue della nonna; guardando mia nonna negli occhi ha detto: «O la prendete e la buttate dalla finestra, o se no, con la scopa l’ammazzo». Mia nonna quando raccontava questo fatto diceva: «Se io non la sentivo con le miei orecchie, non ci avrei mai creduto che una bimba a ventuno mesi poteva dire queste parole».

    Sofia è nata nel ’36, io che mi chiamo Daniela sono nata nel ’38, Simone nel ’41 e Dario nel ’43, anni durissimi di fame e guerra. Io quando è nato Dario avevo cinque anni e mi ricordo come se fosse adesso, quel giorno avevamo mangiato cavoli, non si buttava quasi niente, ma quel poco di fogli vecchi che hanno buttato sono andati nella spazzatura, verso le sei di sera a casa nostra è venuto lo zio Mommo, il secondo fratello di mia madre, dopo aver visto il bambino domanda se c’era qualcosa da mangiare; mia madre risponde che non c’è niente, povero zio Mommo, chissà quanto fame aveva, guardando dentro la spazzatura ha notato quei rifiuti di cavoli, si avvicina e a uno a uno li raccoglie dopo averli lavati, tagliandoli a pezzettini li mette dentro una pentola e li cucina, quando li mangiava sembravano chissà cosa, si dovette accontentare, perché non c’era niente altro, nemmeno pane.

    Giorno dopo giorno, la fame si sentiva sempre di più, mia madre si sacrificava dalla sua porzione per darlo a noi figli, non aveva ancora trent’anni e sembrava una vecchia, mia madre ch’era cresciuta in una famiglia benestante, finché non si era sposata non aveva passato mai una giornata di fame, lei non sapeva la miseria com’era. Era la prima di cinque figli, i miei nonni materni soldi ne avevano, mio nonno dopo ch’era tornato dalla Prima Guerra Mondiale era emigrato negli Stati Uniti d’America, ogni cinque anni tornava in Italia e con i soldi che portava ogni volta compravano proprietà poi verso il 1938 non è più partito ed è rimasto in Italia con la sua famiglia

    Il nonno, un uomo pieno di bontà e pazienza, a noi nipotini voleva tanto bene, la nonna era piccola di statura, ma aveva un diavolo per capello, non sapeva né leggere né scrivere, però la contabilità dei soldi la sapeva tenere, con tutti quei viaggi che aveva fatto il marito negli Stati Uniti d’America aveva accumulato tanti soldi che la nonna diceva che con i soldi che aveva poteva riscaldare il forno e cuocere il pane, ma quando i figli diventarono grandi, la storia cambiò.

    Nessuno nella vita si può vantare di niente, perché nessuno sa quello che il domani porta, bisogna pregare, bisogna accettare con rassegnazione tutto, tra grida, pianti, paure, morti in guerra.

    Non c’era giorno che non si sentivano brutte notizie e all’asilo le suore ci facevano pregare tutti i giorni affinché il buon Dio ci salvasse dalle bombe, ma nel frattempo ci preparavano in caso di bombardamenti su come metterci in salvo, ma il mio pensiero correva alla mamma, dicevo «E se la mamma non si salva a che cosa serve la mia vita?» ricordo che incominciavo a sudare e a tremare poi il mio pensiero si rivolgeva a Dio. Le suore ci insegnavano quando avevamo paura e credevamo che per noi non ci fosse via d’uscita ad avere fede in Dio e nella Madonna, noi siamo figli suoi, le suore dicevano, Dio e la Madonna non permettono a nessuno che ci si faccia del male. Forse è stata questa grande fede che mi ha fatto superare tante cose nel corso della vita.

    Giorno dopo giorno la vita continuava tra paure e fame, la nonna piangeva sempre le sventure della sua vita, perdere una figlia era un dolore grande, ma perderne due era insopportabile, più i mesi passavano e più le speranze che suo figlio fosse vivo sbiadivano, ma un giorno tutto è cambiato, quel giorno faceva caldo, troppo caldo, il cielo era azzurro si sentiva un canto di uccelli, di grilli, le cicale gridavano a squarcia gola, sembrava che nell’aria ci fosse festa. Il cancello si apre, entra un ragazzo, di corsa, si dirige verso la nonna, a fiato mozzo dice «Maria Concetta, ha detto mia madre di venire subito da noi, che vostro figlio Giuseppe si trova a casa nostra, ch’è tornato dalla guerra».

    Urla di gioia uscirono dalla bocca di tutti, piccoli e grandi, ci siamo messi in cammino per vedere se la notizia era vera, quando siamo arrivati, abbiamo visto questi due uomini con la barba lunga, i loro vestiti a brandelli, per come erano ridotti non sembravano essere umani ma animali selvaggi, a me la cosa che mi colpì di più furono i loro piedi, da quelle che una volta dovevano essere scarpe spuntavano le loro dita, tutte bianche, io mi avvicino allo zio Giuseppe, che fino a quel momento conoscevo solo di nome e dico «Zio Giuseppe, ma perché i diti dei piedi ce li avete bianchi?»; lui risponde e mi dice che quando era prigioniero in Montenegro faceva freddo e le scarpe che avevano ai piedi erano consumate, avendo scarpe rotte le dita si erano congelate. Provai una pena immensa, mi sedetti per terra e con le miei mani cercai di riscaldare quelle dita, piccolina come ero sentivo che dovevo fare qualcosa per aiutare lo zio.

    Oggi penso che quando i governi di tutto il mondo decidono di fare guerra per primi a combattere dovrebbero andare loro, i politici, perché se questa fosse la legge, prima di dichiarare guerra ci penserebbero due volte e così si risparmierebbe tanto sangue innocente e si risparmierebbero fiumi di lagrime versate dalle famiglie di chi in guerra ha perso qualche caro.

    Arrivati alla casetta di campagna, la nonna continuava a piangere, ma erano lagrime di gioia, perché in mezzo alle lagrime per la prima volta in vita mia ho visto la nonna ridere, io ero contenta, primo perché lo zio era ritornato dalla guerra, secondo perché pensavo che la guerra fosse finita, ma non era così, la guerra ancora continuava, ma per qualche giorno la vita sembrava cambiata, almeno per la nonna che non piangeva più tanto.

    A quella età capii che esistevano tanti tipi di guerra, la guerra mondiale e quella famigliare, mi domandavo come mai i genitori di mia madre li vedevamo tutti i giorni e i genitori di mio papà non li vedevamo mai, ma una ragione c’era, mio papà veniva da una famiglia di cinque figli, lui era il solo maschio, in quei tempi in Calabria era quasi obbligatorio, quando i figli maschi si sposavano, i primi due figli che avevano di metterci il nome dei genitori, ma quando Sofia è nata mia madre non ha voluto metterci il nome della suocera e nemmeno quando sono nata io, mi ha chiamato come sua madre, fino a questo punto i problemi ci stavano ma non tanto. Raccontavano che quando mia madre era incinta del terzo figlio, mio nonno paterno aveva parlato con lei dicendole: «Vedete, fino adesso non mi è interessato molto il fatto che non avete chiamato le bambine come la nonna, ma state attenta, che se questa volta nasce un maschio e non lo chiamate come me, fate conto che io per la vostra famiglia sono morto; se poi chiamate il bambino come me, dato che lui è il mio solo erede che porta nome e cognome come me, il giorno che nasce, per regalo, ci faccio le carte dell’orto».

    L’orto era un pezzo di giardino pieno di alberi da frutta e una piccola casetta distante 15 minuti da casa mia; se mia madre avesse accontentato il nonno, forse negli anni che seguirono non avremmo patito tanta fame, in quel pezzo di terra potevamo produrre tanta roba e con quegli alberi da frutta ci potevamo saziare, ma non con mia madre... la sua risposta fu dura, ha risposto al nonno che nemmeno se lui ci dava l’oro di tutto il mondo il figlio che doveva nascere lo avrebbe chiamato come lui. Io ho sempre creduto nella libertà e nell’indipendenza della donna, è stata mia madre ad iniziarle, perché eravamo nel 1936, anni in cui la donna ancora era schiava dell’uomo. Inutili furono le parole di mio papà, con mia madre non vinceva nessuno.

    Quando mia madre ha partorito e ha dato alla luce un maschietto, ha mantenuta la parola che aveva dato al suocero, non l’ha chiamato Salvatore come il suocero, ma Simone.

    La famiglia di mio papà era una buona famiglia, il nonno era guardia municipale, due sorelle erano sposate e le altre due erano signorine, una dopo che il fidanzato era morto in guerra non si era voluta più sposare e l’altra aveva un brutto male ad una gamba e aveva subito nove operazioni, ma col

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