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Storia di Antonio della Portella
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E-book320 pagine4 ore

Storia di Antonio della Portella

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Info su questo ebook

La storia di Giuseppe e della sua famiglia ci restituisce uno spaccato storico e sociale del nostro Paese a partire dagli anni Cinquanta, gli anni difficili della ricostruzione dopo la guerra, quando gli italiani emigravano in molti all’estero alla ricerca di quella fortuna che in Italia la miseria sembrava aver oscurato per sempre. Giuseppe, per sfuggire alla miseria e in cerca di fortuna, lascia la moglie e i figli ancora piccoli e si trasferisce in Germania, a Berlino, dove trova un impiego come giardiniere in una grande villa. I sacrifici, una storia extraconiugale con la moglie del proprietario della villa, che scoprirà essere un maggiore delle SS, e la voglia di cambiare segnano giorno dopo giorno la sua vita e quando ritorna a casa dalla moglie e dai figli scoprirà che qui la vita invece non è cambiata tra miseria, dolore e lutti. Al suo rientro in Germania porta con sé il secondo figlio, Antonio, di appena dieci anni e il destino scriverà per loro ancora delle pagine dense di dolore, tradimenti ma anche voglia di riscatto. 

Annibale Falato è nato nel 1955 a Guardia Sanframondi (BN).  All’età di sei anni il lavoro di insegnante del padre lo porta a Roma dove vive tuttora con la sua famiglia. Dopo avere assolto il servizio militare come ufficiale di complemento nel corpo dei carristi presso la Scuola Truppe Corazzate di Caserta, si è laureato in Giurisprudenza presso l’Università Federico II di Napoli. Da oltre trent’anni esercita la professione forense e dal 2002 è avvocato cassazionista. Nonostante abbia vissuto sempre a Roma è rimasto profondamente legato al suo paese dove si reca spesso. Tuttavia il legame più profondo lo ha con la casa paterna, edificata dal bisnonno in aperta campagna, da dove si vede l’intero paese e la valle telesina. 
 
LinguaItaliano
Data di uscita31 gen 2021
ISBN9788830635012
Storia di Antonio della Portella

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    Storia di Antonio della Portella - Annibale Falato

    famiglia

    Nuove Voci

    Prefazione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi:

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima.

    (Trad. Ginevra Bompiani)

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterley. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov.

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    Guardia Sanframondi, il paese d’origine dello scrittore, si trova nel Sannio, in provincia di Benevento. Ha origini antiche e ha conosciuto molte dominazioni, tra cui quella longobarda e quella normanna. Si sviluppa intorno al castello, la cui fondazione è attribuita ai normanni, proprietari del castello fino al 1448. Il suo dialetto è di chiara derivazione osca, quasi privo di vocali, ed ha subìto parecchie influenze straniere dalle quali ha mutuato vocaboli e verbi. Nonostante sia popolato da non più di cinquemila abitanti è diviso in quattro rioni ognuno dei quali ha un’inflessione particolare del linguaggio. Oggi è conosciuto per la produzione di vini di pregio, quali la Falanghina, l’Aglianico, la Coda di volpe e il Greco, oltre che di un ottimo olio d’oliva. Nel 2018 il Comune di Guardia Sanframondi, insieme a quelli di Castelvenere, Sant’Agata de’ Goti, Solopaca e Torrecuso, ha presentato in sede europea la candidatura del Sannio Falanghina per la Città Europea del Vino 2019, ottenendo il riconoscimento. Guardia Sanframondi è conosciuta nel mondo anche per i riti penitenziali che si svolgono ogni sette anni in onore della Vergine Assunta.

    È in questo contesto che Antonio, il protagonista del romanzo, è nato e ha vissuto fino all’età di dieci anni.

    Capitolo 1

    – Maledetti pidocchi! – pensava Antonio mentre, ancora a letto, si grattava energicamente la testa per cercare di alleviare l’incessante prurito.

    Accompagnato dal fragoroso rumore delle foglie secche di granturco poste all’interno del saccone che fungeva da materasso, allontanò le leggere coltri e si alzò per prepararsi e andare a scuola.

    Era il 1953 e aveva appena compiuto dieci anni. Faceva la quinta elementare e in quel periodo poteva frequentare tranquillamente perché non era tempo di raccolti.

    Nel periodo in cui si raccoglievano l’uva o le olive, invece, come tutti gli altri, non andava a scuola dovendo aiutare la famiglia. La cosa era risaputa e accettata pacificamente dalle autorità scolastiche e statali.

    Il padre e il fratello più grande erano usciti all’alba con l’asino, per andare in campagna dove c’era sempre qualcosa da fare. La madre, al momento, rimaneva a casa a badare alle due sorelline più piccole di sette e di quattro anni. Pigramente e ancora assonnato si versò dell’acqua in una bacinella bianca di latta smaltata prendendola da un grosso mastello con una specie di mestolo di legno, e con quella si sciacquò la faccia. La madre, da lontano, mentre gli preparava la colazione, lo invitò a usare il sapone.

    Odiava profondamente quel sapone fatto in casa che, secondo lui, gli lasciava addosso un senso di unto e un odore sgradevole. Si asciugò con una specie di asciugamano posto al lato del supporto in ferro della bacinella che, a causa del costante e cattivo uso, da bianco era diventato scuro e si avvicinò alla pesante tavola di castagno situata al centro della cucina, vicino al fuoco già acceso, per mangiare.

    Ogni mattina, alle prime ore del giorno, passava un tale che in un recipiente metallico di alluminio, fornito di coperchio e lasciato appeso fuori dalla porta la sera prima, metteva un litro di latte. Questi veniva dalla vicina montagna, dove abitava con la famiglia e allevava le mucche, per poche lire garantiva a tutti coloro che ne avevano necessità il quotidiano fabbisogno di latte.

    Ogni mese la madre gli faceva trovare dentro il recipiente del latte il mensile pattuito. A volte, anziché soldi, su espressa richiesta di questi, gli dava del vino o dell’olio. Una volta bollito il latte, emanò per tutta la casa un profumo inebriante. La colazione consisteva in una zuppa fatta di pezzi di pane raffermo sui quali era versato il latte caldo e un poco di zucchero, quando c’era.

    Fatta la colazione, dopo averlo lasciato giocare un poco con le sorelline, la madre gli tagliò una fetta di pane da una delle pagnotte che questa faceva ogni dieci giorni utilizzando il lievito madre che, in un piatto coperto da un tovagliolo, si passavano di casa in casa nel vicinato, e un pezzo di pancetta staccato direttamente da quella intera che pendeva da un gancio posto sul soffitto dell’annerita cucina; quella sarebbe stata la sua colazione dato che il vero pranzo era previsto per le cinque del pomeriggio assieme a tutta la famiglia.

    Si vestì velocemente con i soliti abiti, ovverosia: pantaloni corti di panno, camicia di fustagno, maglioncino di lana ricucito e rabberciato in più parti, calzettoni di lana e scarpe invernali sotto alle quali, per non farle consumare anzi tempo, erano stati posti dei chiodi di ferro detti centrella. Ciò fatto si avvicinò alla porta, davanti alla quale c’era un’altra mezza porta (detta guarda porta), utile per impedire l’ingresso ai vari animali che numerosi giravano per il rione, per andare a scuola.

    Antonio, forse a causa dell’età, aveva costantemente fame. Non riusciva mai ad alzarsi da tavola soddisfatto. Certo, possedevano della terra dalla quale ottenevano dei raccolti, ma questa non era tanta e loro erano in sei, per cui la madre doveva in qualche modo razionare i viveri se volevano riuscire ad andare avanti.

    Dopo avere mangiato, sosteneva di rimanere sempre a mezza pancia. I genitori erano soliti dirgli che, molto probabilmente, aveva il verme solitario.

    Era marzo e l’approssimarsi della Santa Pasqua si sentiva già nell’aria. Ciò significava che di lì a poco in ogni casa si sarebbero fatte pizze rustiche, calzoni e pastiere e, quindi, ci sarebbe stato di che ingozzarsi. Ma a lui piaceva la pasta asciutta e così, prima di uscire, diede un ultimo sguardo alla madre chiedendole:

    – Mamma, a Pasqua mi fai saziare?

    La madre neppure gli rispose.

    Era una bella giornata. Appena uscito di casa incontrò alcuni ragazzi del popoloso vicinato che, a loro volta, chiassosamente si recavano a scuola. Ridendo e scherzando fecero la strada insieme. I ragazzi erano tutti magri così come l’intera popolazione del paese fatto salvo alcuni casi dovuti, per lo più, a disfunzioni ormonali.

    La loro alimentazione era stagionale e seguiva i cicli produttivi. Quando era tempo di fave si mangiava sempre fave cucinate in tutti i modi possibili, così come quando era tempo di broccoli e via dicendo.

    A questa alimentazione ciclica si aggiungeva quella derivante dai prodotti spontanei donati dalla natura che andavano dai funghi (che in via cautelare, prima di mangiarli, si facevano esaminare dal frate erborista del vicino Convento dei Cappuccini) agli asparagi e dai sanapelli ai cardilli che, lessati insieme alle patate e ripassati in padella con olio, sale, aglio e peperoncino, diventavano una vera leccornia specie se serviti sopra una fetta di pane appena abbrustolito sul fuoco.

    La carne si mangiava solo la domenica e non sempre. La maggior parte delle volte si trattava di carne di agnellone castrato. Con questa e con tutta una serie di altre cose (lardo, sugna, salsa, conserva secca) si faceva il ragù con il quale si condiva la pasta. La carne si mangiava in un secondo tempo; un pezzettino per uno con un contorno di insalata, melanzane, di peperoni o di broccoletti fatti in padella. Il formaggio che si usava, molto poco in verità, era solo ed esclusivamente il pecorino che si teneva e curava passandoci sopra dell’olio e girandolo ogni due o tre giorni.

    Veniva acquistato in grosse pezze e conservato su delle tavole appese al soffitto per non farci andare i topi che ne erano ghiotti. Gli odori nella cucina, pertanto, si sovrapponevano. Insomma, il mangiare era principalmente vegetariano e ciò comportava obbligatoriamente un’iperproduzione di gas intestinali con la conseguenza che quando faceva freddo e bisognava tenere le finestre chiuse l’aria della stanza da letto diventava irrespirabile. A questo si aggiungeva l’odore acre del sudore prodotto durante le ore di lavoro in campagna e, a volte, la puzza del contenuto del pitale che veniva usato di notte, specie in inverno, per evitare di scendere a fare i bisogni nella stalla a causa del freddo intenso.

    Quando arrivava l’estate e si poteva dormire con la finestra aperta era una vera consolazione. La sera poi, prima di andare a letto, bisognava dare la caccia agli insetti che si annidavano nei vari meandri della casa e si posizionavano, maggiormente, in prossimità delle travi del soffitto. Questi andavano dai semplici ragni ai millepiedi per arrivare agli scorpioni e, qualche volta, alle scolopendre che privilegiavano le coltri.

    Fatta l’ispezione delle lenzuola e uccisi gli insetti che si erano fatti vedere, si poteva andare a dormire non proprio tranquilli. Per arrivare a scuola ci voleva poco; erano tutti veloci e scattanti. Il maestro di Antonio era fondamentalmente un brav’uomo ma, prima di essere un maestro, era un appassionato cacciatore. La mattina, prima di recarsi a scuola, questi andava a caccia. Di conseguenza quando arrivava in classe, essendosi svegliato all’alba, gli veniva sonno e spesso si addormentava profondamente dietro al giornale che aveva in mano mentre era seduto in cattedra.

    Una volta appurato che il maestro stava dormendo, i ragazzi si davano alla pazza gioia scatenandosi come più potevano. Dopo un poco questi si svegliava di soprassalto e, rendendosi conto del caos che regnava nella classe, per mettere ordine cominciava a distribuire generosamente bacchettate a destra e a sinistra fino a quando la calma non veniva ristabilita.

    I suoi metodi di insegnamento erano molto diretti e immediati con buona pace della signora Montessori. Per insegnare a fare i conti ai ragazzi usava la bacchetta che, quando questi sbagliavano la risposta, picchiava sulle loro mani tante volte quanto era il numero giusto che avrebbero dovuto dire.

    Le punizioni, in caso di indisciplina, consistevano nello stare inginocchiati sui sassolini o sui ceci per diverso tempo o in sonori ceffoni dati con la parte dorsale della mano senza preavviso. Quando era tempo di asparagi, il maestro di Antonio portava l’intera classe sulla vicina montagna e faceva fare la gara ai ragazzi a chi ne raccoglieva di più.

    Ovviamente se li prendeva tutti lui e se li portava a casa dove li usava per fare dei deliziosi sughi per condire gli spaghetti o gigantesche e morbide frittate. A volte, con la scusa della matematica, chiedeva ai suoi alunni (una trentina circa) di portare cinquanta fagioli ognuno, in modo da poterli utilizzare per gli esercizi. Ovviamente anche i detti fagioli, riuniti alla fine in un unico recipiente, finivano a casa sua dove se li cucinava a dovere.

    Come la maggior parte dei maestri era anche lui del paese e, per tale motivo, si rivolgeva ai ragazzi quasi sempre in dialetto. L’italiano veniva studiato quasi come fosse stata una lingua straniera e lo stesso maestro, a volte, non era sicuro del fatto suo. Una volta, nello scrivere alla lavagna un problema, gli scappò scritto un faggioli.

    Quando uno degli alunni, raffrontando lo scritto con una delle schede appese al muro della classe, gli fece notare che faggioli si sarebbe dovuto scrivere con una sola g questi, dopo avere dato un’occhiata alla detta scheda, di rimando rispose che quella era un’altra qualità di fagioli. Quando Antonio leggeva qualcosa dal libro di testo, si rendeva conto che ignorava il significato della maggior parte delle parole. Ma questo era quello che offriva il periodo del dopoguerra e bisognava prendere quello che era possibile.

    Capitolo 2

    A mezzogiorno e mezza la scuola finiva e Antonio, che non aveva fretta di tornare a casa, si univa alla nutrita schiera di ragazzi del suo rione per divertirsi un poco a giocare o a organizzare qualche marachella. Sfidati da un gruppo di un altro rione, quel giorno decisero di giocare a San Giorgio.

    Si trattava di un gioco che permetteva di essere nello stesso tempo atletici e cattivi. Era molto semplice: a turno una squadra di ragazzi, prendendo una lunga rincorsa, saltava, il più violentemente possibile, sulle schiene curve di quelli dell’altra squadra che si erano messi in fila piegati in avanti reggendosi reciprocamente con le braccia ai fianchi di quelli che precedevano.

    Era importante che al centro ci fosse qualcuno molto forte perché era in quel punto che si concentrava la maggior parte del peso. Quando, dopo aver saltato, erano tutti saliti sulle schiene degli avversari, si recitava per tre volte una sorta di formula magica: San Giurg m’bila l’urg.

    Se la squadra che stava sotto riusciva a sostenere il peso sino alla fine, si scambiavano i ruoli. Ci si poteva fare molto male con quel gioco, ma in quel contesto era tutto una sfida per dimostrare di essere i più forti. Come al solito, alla fine, il gioco sfociò in rissa e, dopo essersi accapigliato con parecchi avversari, Antonio, lacero e contuso, fece ritorno a casa.

    Era quasi ora di cena e appena la madre lo vide in quello stato cominciò, come al solito, a inveire contro di lui. Cercò anche di colpirlo con qualche schiaffone ma non ci riuscì, in quanto questi era troppo agile, e allora ricorse al lancio di oggetti vari che Antonio riuscì a schivare con un’abilità consumata. A quel punto la madre non poté che dirgli:

    – Quando arriva tuo padre te la vedi con lui.

    La cosa era abbastanza preoccupante perché ben conosceva i metodi punitivi utilizzati dal padre ma, in quel caso, non riteneva di avere fatto nulla di particolarmente grave da meritare delle cinghiate. Dopo poco arrivarono il padre e il fratello maggiore.

    Avevano fatto bere l’asino alla fontana prima di giungere a casa, per cui fu sufficiente togliere il basto e mettere davanti a questi una bracciata di fieno e una di paglia. L’asino si chiamava Arturo e poteva considerarsi, a tutti gli effetti, un membro della famiglia.

    Il suo duro lavoro alleggeriva di parecchio quello che avrebbero dovuto fare i padroni. Nella stalla, da una parte, dentro un piccolo recinto fatto di stecche di legno, c’era un maialino che passava tutto il suo tempo a mangiare con la testa sempre immersa nel trogolo. I due, che si erano già sciacquati la faccia e le mani alla fontana mentre l’asino beveva, si sedettero a tavola affamati in attesa che venisse servita la cena.

    Antonio fu spedito in cantina a prendere un fiasco di vino. Una volta che tutti furono seduti a tavola si fecero, nello stesso momento, il segno della croce e solo dopo di ciò cominciarono a mangiare. La madre, come promesso, riferì al marito lo stato in cui era tornato a casa Antonio ma, come questi aveva previsto, non ci furono provvedimenti e neppure rimproveri.

    Anzi il padre, tra un boccone e l’altro, gli disse:

    – Anto’ non tornare mai a casa piangendo a dire che qualcuno ti ha picchiato, perché in quel caso ti picchio anch’io.

    Ad Antonio il messaggio arrivò chiaro e forte. La cena era costituita da pasta fatta a mano (lagana) e fagioli, da pezzetti di salsiccia, da filetti di melanzane sott’olio e da alcune noci.

    Ovviamente sulla massiccia tavola, al centro, troneggiava una grossa pagnotta di pane con alcune fette già tagliate. Mangiarono con appetito e rimasero tutti seduti a tavola fino a quando non si finì il fiasco di vino.

    A quel punto Giuseppe, il padre di Antonio, soddisfatti i bisogni primari, rivolgendosi alla moglie disse:

    – Ho parlato proprio oggi con il compare; mi ha detto che cercherà di fare il possibile, ma che non garantisce niente in quanto ci sono troppe richieste.

    Si riferiva al ruolo di San Michele Arcangelo che avrebbe voluto far ricoprire dal figlio maggiore, Pasquale, nei prossimi misteri dei riti settennali dell’Assunta che si sarebbero svolti l’anno successivo.

    Durante la guerra c’erano stati parecchi sconvolgimenti e le compagini erano state stravolte. Erano venuti meno due membri del comitato rionale, e diverse persone che ricoprivano ruoli importanti nelle rappresentazioni non avevano più l’età per continuare a farlo.

    Purtroppo, sia l’appartenenza al comitato rionale che i ruoli più importanti dei misteri erano ereditari e Giuseppe, per un motivo o per un altro, non era mai riuscito a inserirsi benché ci avesse più volte provato. Questa volta, però, la famiglia che aveva fornito in passato San Michele Arcangelo non aveva nessuno da proporre e, quindi, ben poteva sperare che il figlio potesse farlo anche perché era un bel giovane alto e forte con sguardo serio e fiero.

    Al riguardo aveva cercato di raccomandarsi con un suo compare, componente del comitato che, però, non gli dava ancora assicurazioni. Era arrivato al punto di accontentarsi, qualora quella parte fosse stata impossibile averla, anche del ruolo di San Tarcisio (anch’esso mancante) ma neppure per quella il compare aveva potuto dargli garanzie.

    Antonio ascoltava senza parlare, in quanto non era consentito ai ragazzi intervenire sulle questioni dei grandi, ma non riusciva a capire quell’ostinazione del padre. Personalmente non aveva alcuna intenzione di partecipare come figurante ai riti settennali ritenendolo troppo impegnativo e faticoso ma, se il padre lo avesse deciso, non avrebbe potuto che ubbidire senza fiatare.

    Il rione Portella è stato sempre uno dei rioni che ha organizzato i migliori misteri ed è stato il primo a far partecipare, nel 1893, le donne. In precedenza, i ruoli femminili erano ricoperti da uomini travestiti. I preparativi cominciavano due anni prima, così come le lotte tra famiglie per l’aggiudicazione dei ruoli principali.

    Chi decideva il tutto erano i cinque deputati facenti parte del comitato. Erano cariche ereditarie ma che comportavano ingente dispendio di energie e partecipazione economica. In pratica, le famiglie dei deputati erano quelle che maggiormente contribuivano alle spese. Fare parte del comitato era una questione di prestigio. I membri del comitato rionale facevano parte, a loro volta, del Comitato dei Riti che veniva convocato dal sindaco che lo presiedeva. In precedenza, era invece convocato dal parroco.

    A queste riunioni partecipavano anche il prevosto dei padri filippini e il parroco. Insomma, tale carica dava la possibilità di sedere, in posizione paritaria, con le più alte cariche del paese. Non era cosa da poco. Famiglie che si erano sempre voluto bene tra loro, a causa di un ruolo di Madonna da far ricoprire a una delle loro figlie in uno dei misteri, arrivavano a feroci liti tanto da dirsene di tutti i colori e mettere finanche in dubbio le virtù delle rispettive figliole.

    Alcuni, più facoltosi, arrivavano a offrire una partecipazione di un certo livello solo a condizione che una certa parte fosse ricoperta da uno dei propri figli.

    Insomma, in tutta questa agitazione non sembrava esserci traccia alcuna di quel misticismo e di quello spirito di penitenza che poi avrebbe pervaso l’evento.

    Era già sera quando il compare si presentò alla porta tutto trafelato. Allo sguardo interrogativo di questi rispose:

    – Se vuoi, gli possiamo far fare il figliol prodigo.

    Giuseppe, dopo essersi scambiato un rapido sguardo con la moglie, annuì con un cenno del capo. Non era una delle parti principali e avrebbe dovuto tenere il viso appoggiato sulla spalla del figurante che avrebbe ricoperto il ruolo del padre ma, in ogni caso, sarebbe stato bene in mostra e tutti lo avrebbero notato. Antonio, invece, sarebbe stato uno dei tanti ragazzini del mistero di San Tarcisio mentre le bambine avrebbero seguito, in abito bianco, lo stendardo del rione.

    Giuseppe da parte sua, spinto dalla moglie, aveva deciso per la prima volta in vita sua di battersi a sangue. In proposito, aveva chiesto consiglio a chi lo aveva già fatto in passato e gli fu detto che non c’era da avere paura; era più l’impressione che il dolore che si poteva provare. Gli fu consigliato comunque, per non fare figure barbine, di provare per conto suo prima dei riti.

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