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Samsara*La Girandola delle Vite nel Fiorire dei Mandorli
Samsara*La Girandola delle Vite nel Fiorire dei Mandorli
Samsara*La Girandola delle Vite nel Fiorire dei Mandorli
E-book215 pagine3 ore

Samsara*La Girandola delle Vite nel Fiorire dei Mandorli

Di Dogi

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Info su questo ebook

Può il sacro fuoco dell'Amore spezzare per sempre le ataviche catene di una stirpe di donne vissute nella sofferenza?

Quando a trentacinque anni Ginevra si imbatte nel verde degli occhi di colui che presto diventerà il suo giovane amante, è felicità assoluta.

Si squarcia così l'eterno sudario che dalla nascita le impedisce di assaporare la gioia di vivere.

La donna ignora completamente quali arcani giochi il destino abbia posto in serbo per lei.

E' quando Gabriele si eclissa dalla sua vita che emerge tutto il male di vivere che da sempre si annida in fondo alla sua anima. L'abbandono subito e il dolore provato la riconducono nei meandri più nascosti della sua psiche a recuperare quell'Amore che da molte vite le è stato negato.

Ne riemergerà con una nuova forza e la consapevolezza di aver vinto.

LinguaItaliano
EditoreDogi
Data di uscita9 dic 2016
ISBN9788822875556
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    Anteprima del libro

    Samsara*La Girandola delle Vite nel Fiorire dei Mandorli - Dogi

    (http://write.streetlib.com).

    SAMSARA*LA GIRANDOLA DELLE VITE NEL FIORIRE DEI MANDORLI

    Peggiore del male più cattivo fu in quello scorcio di marzo il fiorire dei mandorli senza il conforto dell’amore.

    Guardando i mandorli fioriti provavo sempre un senso d’immortalità. Il candore dei loro fiori aveva sempre accompagnato momenti molto importanti della mia vita. Fu per questo che all’inizio di quella primavera, rapita dalla delicata bellezza dei loro petali, mi sorpresi a chiedermi dove mi avrebbe condotta la strada che avevo appena intrapresa. Senza aver trovato risposte si era fatta chiara in me la certezza che ovunque mi avesse portata avrei finalmente vissuto per ciò che mi aveva spinto a nascere.

    Cap. 1

    L'afa soffocante evaporava dalle crepe del terreno rendendo tremulo l'orizzonte della campagna. Il rosso acceso dei papaveri ondeggiava tra i flutti del grano maturo sospinto da un flebile vento e dall’ipnotico frinire delle cicale.

    Nel cielo terzo del meriggio anche la solitudine appariva evanescente.

    Fu in un giorno come questo che venni al mondo, nell’eternità dell’attimo che trasmuta l’essenza in materia.

    Roteando gli occhi senza luce, con la testa rilasciata verso il pavimento, inalai l'aria frizzante del mio primo pomeriggio. Sentii sul petto la forza opprimente dell’aria dilatarsi per accogliermi e bruciare le narici nel percepire l'acuto profumo della terra riarsa e dei fiori intenti nell’abile tentativo di sottrarsi alla calura estiva. Il respiro, il respiro doloroso nell'atrofia dei polmoni, il mio respiro, poi il pianto.

    Fu in quel momento che per la prima volta provai il disagio di vivere.

    Trovai attorno a me il fresco antico di solide mura, asettici camici bianchi e lunghi corridoi dai marmi venati dove voci sconosciute rimbalzavano sul silenzio d’arcaiche volte. Bruciava la mia pelle, bruciavano le mie viscere e non riuscivo più a trovare alcun contatto in quel mio nuovo galleggiare. Poi la separazione definitiva da quella donna, stremata, più che dal parto, dalle angosce della propria esistenza. Una giovane donna la cui morbida bellezza contrastava con la tristezza dello sguardo scavato dal pianto e dalla solitudine. L'orgoglio di due grandi occhi nocciola infranto dall’indelebile ricordo che aveva preso per sempre il posto alla sua prima importante storia d'amore.

    Mia madre, cupa e aggrottata nel suo pensare, maneggiava il mio corpo con la cura e l'attenzione che si dedicano ad un oggetto sconosciuto ma che si suppone fragile anche se di nessuna concreta utilità. Sono certa però che almeno per un attimo la sua anima mi abbia sfiorata con un sorriso, compiaciuta della mia salute, della mia vitalità e della crudele somiglianza a mio padre.

    Un padre che mai avrebbe reclamato la mia presenza. Mai, anche se io avevo deciso di esserci.

    Avida di tutto mi aggrappai al suo seno con voracità, senza chiedermi se lei ne fosse felice. La volevo, era mia, ero io. Avrei voluto divorarla per placare l'ansia d'amore e, nell'orgasmo dell'unione ricreare con lei la simbiosi perfetta. Non una goccia di nettare fu versata per me da quelle turgide coppe, non un sorso di siero sgorgò fra le mie labbra che, attonite, continuarono a muoversi testardamente con spasmodica impazienza fino a contrarsi nuovamente nella smorfia incredula del pianto. Ricordi, ancora ricordi, ricordi di lontani vagiti, leniti finalmente dal balsamo ristoratore di un sonno profondo.

    Cap. 2

    Dopo mesi d’intenso lavoro, quella sera per le scale di casa mi trovavo improvvisamente di fronte a me stessa. Le mie giornate si erano ridotte ad un continuo susseguirsi di azioni frenetiche, a lunghe permanenze in ufficio e al mortale vuoto della sera. Avevo quasi perso la cognizione dello scorrere del tempo, gli occhi spalancati su immagini vuote, la pesantezza delle palpebre e il silenzio dei sentimenti.

    E' spaventoso trovarsi di fronte alla propria solitudine! Cercavo disperatamente per la mia testa una qualunque altra occupazione che la distogliesse da quella consapevolezza, ma senza successo. Che tristezza vedermi così. Quanto tempo era passato da quando anche io vibrante d’emozione ero viva? La parte ribelle di me tornava insolente dalla zona d'ombra dove era stata relegata a proclamare la propria esistenza. Affiorava carica d’energia ancestrale, mostrandomi ciò che stavo facendo del mio corpo e della mia mente pur di non ascoltarla concedendomi di dar spazio alla mia vera essenza. Non volevo sentire e non l'avrei fatto, anche se diventava ogni giorno più difficile ignorare il gelo che sentivo intorno. Da un po' anche i sogni mi avevano abbandonata, non avevo voglia di organizzarmi, di incontrare gente, insomma nulla riusciva a divertirmi. Infondo perché avrei dovuto illudermi di poter cambiare la mia vita, quando ero certa che sarebbe rimasta intrappolata nei cristalli della mia codardia? Avevo giurato a me stessa che non mi sarei più alimentata di fantasie. Troppo grande per me lo sforzo per doverle poi realizzare. Non sognare, ma agire, non sperare ma rendere vera ogni emozione, ogni sensazione. Ero fragile, insicura e con scarsa autostima, non avrei mai avuto il coraggio per farmi strada difendendo se necessario le mie opinioni. Tremavo al solo ricordo degli attacchi di panico che mi avevano travolto nelle rare occasioni in cui avevo solo provato ad assecondare quella parte di me. Come poteva venirmi in mente di rimettere in discussione le mie sicurezze? Meglio sopravvivere. Dopotutto riuscivo abbastanza bene a dominare i miei malcontenti e le mie frustrazioni. Andava tutto bene, era tutto sotto controllo!

    Non c'era poi molto da controllare: era vuota la mia casa, vuoto il mio ventre, era vuota la mia testa, la mia anima, il mio cuore. Ero solo una marionetta mossa da fili invisibili e tale sarei rimasta se, i tulipani rossi nel vaso del soggiorno, non fossero stati giusto lì a ricordarmi la caducità della vita e la brevità dell'esistenza.

    Cap. 3

    Mia madre si era rassegnata a crescermi da sola. Lavorava fino a tardi e spesso quando la sera rincasava io già dormivo.

    Era stata la nonna a prendersi cura di me: morbide nuvole i suoi riccioli bianchi, malinconici laghi i suoi occhi verdi, la certezza dell'amore il suo sorriso. Sicuramente l'ho amata anche più di mia madre. Eva, la donna ava di tutte le donne. Portava sempre vesti dalle fantasie floreali, aveva un corpo rotondo dall'andatura lenta e sempre un po' affaticata. Neppure la sua vita era stata un romanzo rosa. Aveva perduto la madre ancora bambina rimanendo nella grande casa di campagna insieme al padre e ad una sorella. Gli altri due fratelli e la sorella maggiore avevano lasciato l'Italia poco dopo la morte della madre ed erano emigrati in Francia in cerca di fortuna. Non doveva essere poi così facile, come amano ricordare i vecchi, la vita allora. Con il sopraggiungere della guerra, la miseria si era fatta sempre più pressante. La nonna era la più piccola di casa e fu la sola a restarvi quando anche Ada si sposò. Con quella sorella se ne andarono le coccole e finirono i racconti di fate e streghe che nelle sere d'inverno la facevano sognare davanti al focolare. Eppure quel vuoto, che sembrava non aver confini, si ampliò terribilmente la sera che suo padre fece ritorno riverso sopra un barroccio, trainato a braccia da due uomini, con il torace martoriato dalle schegge di una granata. La disperazione non riusciva a fermare quel cucciolo di donna che dalla grande cucina saliva e scendeva le scale per raggiungere le stanze da letto e portare a quel corpo ormai esangue inutili vesti pulite. Nei giorni che seguirono furono il silenzio e la solitudine. Il silenzio e la solitudine che per lei rimasero gli unici compagni in quella grande casa.

    Ma la vita degli uomini non è molto diversa dagli eventi naturali che gli circondano e così dopo la bassa arriva sempre l'alta marea. La guerra era ormai finita quando la nonna, poco più che adolescente, fu irrimediabilmente attratta dalla magica melodia di un mandolino. Il giovane artista di cui fatalmente si innamorò sbarcava il lunario cantando e suonando sulle aie e per le case dove nei giorni di festa la gente andava a veglia. Fu amore a prima vista. Il cuore tornò a batterle in petto all’unisono col resto del cosmo e fu finalmente l’abbondanza dopo la carestia. Un festoso matrimonio accompagnò i miei nonni, non ancora ventenni, verso il loro futuro che li aspettava da li a poco con due pargoli da allevare. Dal loro primo incontro nessuna traversia della vita mise mai in discussione il loro amore.

    Già, l’Amore.

    Cap. 4

    Il mio primo grande tormentato amore!

    Poco più che adolescente anch’io fui facile bersaglio della mitica freccia di Cupido quando un beffardo destino permise che il mio cammino si incrociasse con quello di Jacopo. Qualche anno più grande di me, grandi occhi verdi, folti ricci ambrati, un pronunciato profilo aquilino e un corpo ben fatto anche se ancora acerbo per l’età. Me ne innamorai perdutamente ancor prima di conoscerlo. In realtà il non conoscerlo contribuiva a renderlo ancora più affascinante e assai più simile al mio ideale di maschio di quanto realmente lui fosse.

    Credevo che la sua conquista fosse la meta ambita e irraggiungibile d’ogni ragazza. Lo vidi per la prima volta, una sera, nella piazzetta vicino casa. Era seduto su una moto rossa in compagnia di altri ragazzi che s’incontravano spesso in quel luogo. Jacopo mi diede appena un’occhiata prima di andarsene rumorosamente ma io, dopo averlo notato, iniziai a pensarlo senza sosta. Scoprii che quasi ogni pomeriggio passava del tempo insieme a quegli amici. Io invece impegnavo la stessa quantità di minuti nascosta dietro le tende della camera da letto di mia madre ad osservare ogni suo movimento. La finestra di quella stanza si affacciava direttamente sulla piazza ahimè. Era un leader, il capo del branco e lo si capiva anche a distanza: carismatico, estroverso e sempre pronto ad organizzare qualcosa di divertente per se e per il resto della compagnia. Ero sicura che un giorno mi avrebbe notata e allora non si sarebbe più allontanato da me. Passai vari mesi celata tra i tendaggi, nutrendomi di frizzanti fantasie ed infantili timori al pensiero di un primo bacio. Quando pioveva e la piazza restava deserta era pura malinconia. La disillusione mi toglieva il fiato quando tornando da comprare il gelato al bar sotto casa, per l’ennesima volta nessuna novità era apparsa su quel fronte.

    Ero una ragazzina molto corteggiata e, anche se le amiche non facevano che ripetermi di volgere lo sguardo altrove, io ero caparbiamente convinta che l’alterigia con la quale ignoravo gli altri ragazzi mi avrebbe resa più preziosa e affascinante agli occhi del mio impossibile cavaliere. Certe volte, quando ci vedevamo per strada, se i nostri sguardi s’incrociavano, anche solo per un istante, mi illudevo che si fosse finalmente accorto di me e non oso neppure ricordare i pianti di cocente delusione che seguivano quando lo vedevo di nuovo scherzare con qualche altra ragazza. Finalmente Jacopo, che per la verità si era accorto di me già da un pezzo, si decise a presentarsi e ad invitarmi al cinema una domenica pomeriggio. Il film, la telecronaca di una sciagura aerea, non fu certo il massimo del romanticismo, ma la trama non fu in alcun modo rilevante per la riuscita dell’incontro. Iniziammo a vederci quasi tutti i giorni. Ci incontravamo allo stadio del paese e mano nella mano facevamo il giro del campo da calcio un’infinità di volte. Ridevamo, parlavamo e poi ridevamo ancora fino a confondersi l’uno nello sguardo dell’altra. Tornavo a casa con le farfalle che sbattevano ancora forte le ali a l’altezza dello stomaco mentre il ricordo del colore dei suoi occhi e la dolcezza del suo sorriso restavano a tenermi compagnia fino a l’arrivo dell’incontro successivo. Vivevo sopra una nuvola rosa, avvolta dalla gioia della sua presenza. Fu felicità pura quella. La felicità che si prova quando si realizza un sogno.

    Cap. 5

    Le frequenti assenze da casa, non passarono inosservate allo sguardo vigile di mia madre che ben presto si rese conto che non erano solo le amiche a tenermi lontana da casa. Sembrava felice anche se forse spaventata dal proprio vissuto non perdeva occasione per ripetermi di fare attenzione. Attenta! diceva Gli uomini vogliono una sola cosa e poi se ne vanno. Qui poi siamo in un piccolo paese e la gente parla, sei ancora troppo piccola. Quelle parole mi angosciavano, mi facevano provare un senso di vergogna inutile e ingiusta visto che Jacopo ed io, ancora poco più che ragazzini, ci scambiavamo solo qualche bacio. Non avevo la maturità per affermare che comunque la vita di una persona può essere onesta e pulita anche se vissuta in tutta la sua fisicità e che vivere vale solo se si è capaci di dare e ricevere gioia. Quelle che inizialmente mi parvero solo assurde litanie col passare dei mesi iniziarono a rendermi inquieta e lentamente i sensi di colpa nei confronti di mia madre alla quale costantemente disobbedivo, iniziarono a prendere campo. Insieme ad Jacopo vivevo nella mia favola, ma quando eravamo distanti l’insicurezza, alimentata dalle paure di Anna, si materializzava in pensieri che come tanti dispettosi mostriciattoli si divertivano a mettere in dubbio l’autenticità dei suoi sentimenti. Iniziai a chiedergli continue prove del suo amore per me e a frapporre fra noi mille ostacoli che lui, come i veri eroi, avrebbe dovuto superare per avermi. Aveva appena sedici anni e alla fine riuscii solo a farlo fuggire spaventato.

    Camminavo per strada, in mano un grosso gelato al limone, ai lati le amiche del cuore che mi sostenevano come stampelle, negli occhi l'assenza di luce, nel cuore la pesantezza delle tenebre, in testa il vuoto, nessuna parola per definire quello che per me significava la fine di quell'amore. Con il suo addio vedevo, a tredici anni, la spensieratezza svanire, la felicità dileguarsi, la vita diventare sinonimo di dolore e sofferenza. Separata per sempre da lui, non mi erano di conforto né le parole delle amiche né la vicinanza di mia madre e, a niente servivano le belle giornate di sole o il riposo della notte. Tutto era ormai privo di linfa vitale per me, tutto sembrava essersene andato insieme a lui.

    Fortunatamente non era così.

    L'energia dell'adolescenza riemergeva prepotente e anziché trasformarmi in una donna con la voglia di correre, ridere, cantare sviluppava tutta la sua forza in una infernale sofferenza. Me ne stavo giornate distesa sul letto, stremata dalle lacrime e lacerata da un senso di separazione da tutto. Avevo provato solo in un’altra occasione una disperazione così profonda. Era stato quando avevo scoperto, fra le carte conservate dalla mamma, il certificato del mio riconoscimento di figlia legittima da parte di colui che fino a quel momento avevo creduto essere mio padre. Dante era un uomo dal fascino nomade, occhi azzurri e capelli corvini, molto infantile, poco raffinato, ma dall’animo sensibile e generoso. Aveva sposato mia madre quando avevo tre anni e mi aveva accolto come figlia prima ancora che io mi abituassi alla sua presenza e lo salutassi spontaneamente. Nessuno mi aveva mai detto che Dante non era il mio padre naturale. Quando scoprii quel documento costrinsi a farlo mia madre, di rientro dal lavoro, con un pressante e poco diplomatico interrogatorio. Ovviamente Anna non mi raccontò tutta la verità sul mio concepimento che al momento rimase il frutto di un amore finito male. Avevo imparato a leggere da poco e rovistando nel cassetto del cassettone mi ritrovai tra le mani l’atto di riconoscimento di paternità. Quello fu una delle prime carte dei grandi che decifrai, con buon esito, purtroppo. La sensazione fisica che provai alla fine della lettura fu quella di una martellata sulla testa, lo stordimento rimase per un pezzo totale. Pensai per un istante di essere stata un’orfana, adottata dai miei genitori, ma le carte parlavano solo di mio padre. Le estorte rivelazioni della mamma mi portarono sulle tracce di un altro padre, un uomo sconosciuto, che non si era mai interessato a me e non aveva mai voluto neppure vedermi. Nonostante ciò non riuscivo a provare disprezzo per lui e ricordo bene le lotte con mia madre per conoscerne l’identità. Fu solo quando mi resi conto della muta sofferenza di Dante di fronte a quelle mie insistenti richieste che decisi di mettere a tacere la mia curiosità. Tuttavia soltanto dopo un quarto di secolo smisi di provare angoscia all’idea che solo mia madre e mio zio fossero rimasti gli unici a potermi rivelare quel nome.  

    Cap. 6

    Dopo la fine della mia storia con Jacopo iniziai a mangiare pochissimo. Sentivo la pelle spaventosamente vicina alle ossa, forse ero anoressica. L’anoressia non era né molto diffusa né molto conosciuta allora e i miei ne ignoravano perfino l'esistenza. Il mio fisico di giovane adolescente iniziò a perdere le rotondità acerbe che da poco mi rendevano più donna, iniziai a nascondere il mio corpo scheletrico dentro ampi vestiti e a precludermi molte delle gioie terrene. Non mi piacevo, mi vedevo grassa anche quando le ossa del bacino erano la prima sporgenza del mio ventre. Talvolta invece mi vedevo bellissima,

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