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Per la brughiera
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E-book600 pagine8 ore

Per la brughiera

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Info su questo ebook

1821

A Haworth, un remoto paesino dello Yorkshire, immerso nell’impervia brughiera, un giovane reverendo, Patrick Brontë, resta vedovo con sei figli ancora piccoli di cui occuparsi.
Quasi sopraffatto dal compito che gli si prospetta, con l’aiuto della volenterosa ma inesperta cognata, il pastore fa del suo meglio per crescere i bambini, cercando di impartire loro un’istruzione adeguata e una rigorosa fede in Dio, ma lasciandoli allo stesso tempo molto liberi. I fratelli trascorrono così un’infanzia isolata, nella tetra canonica piena di spifferi, circondati dalla natura e immersi nei loro giochi, sostenuti nella solitudine da un’immensa fantasia, che permette loro di lasciare la brughiera e di vagare nei reami fantastici dell’immaginazione.
Lettori avidi e curiosi di tutto ciò che li circonda, i bambini riescono a trasformare la loro quotidianità spesso monotona in avventure esotiche, e a vivere nella loro mente altre vite, che per loro sono reali quanto quella vera. Pur così uniti da piccoli, e accumunati dalla passione per la scrittura, i fratelli che sopravvivono all’infanzia sviluppano personalità molto diverse. Charlotte e Branwell sono ambiziosi, cercano un riconoscimento per la loro arte e si sentono andare stretti la canonica in cui sono cresciuti; Emily è libera e amante della natura, selvatica come la sua diletta brughiera; mentre Anne è la più tranquilla e dolce, ma allo stesso tempo risoluta e responsabile.
In un’epoca in cui il destino di una donna è quasi sempre quello di essere una moglie e una madre, le tre sorelle rivendicano la loro indipendenza e, guidate dall’intraprendenza di Charlotte, riescono ad affermarsi in un mondo quasi esclusivamente maschile, mettendo sulla carta i loro fantastici mondi interiori.

Questa è la storia romanzata della famiglia Brontë, delle tre sorelle che, nonostante le avversità, sono riuscite a far udire la loro voce in un’epoca che le voleva docili e sottomesse, e a diventare tra le scrittici più famose della letteratura inglese.
LinguaItaliano
Data di uscita12 set 2023
ISBN9791281026124
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    Anteprima del libro

    Per la brughiera - Martina Tozzi

    1

    15 settembre 1821

    Maria, (…) how much enhanced is all this bliss to me

    Since it is shared, in mutual love, with thee!

    (Patrick Brontë)

    La canonica dominava dall’alto il paese. Per raggiungerla, era necessario arrampicarsi su per la stretta e acciottolata strada principale di Haworth fino a che non si arrivava a quella che era, a tutti gli effetti, l’ultima casa del villaggio. Davanti alla canonica c’era la chiesa, di cui suo marito, Patrick, era il parroco. Su un lato, il cimitero, con le sue tombe in pietra grigia e le lapidi pietose che vegliavano il sonno dei morti. Oltre, la selvaggia brughiera, con i cespugli e l’erba selvatica, e un cielo sconfinato a sovrastarla. Non era l’estate il periodo per vederla fiorire, né la primavera. Era poco prima dell’inizio dell’autunno che quella landa si ricopriva di meraviglia, e in ogni dove appariva festoso il violetto dell’erica in fiore.

    Il vento non smetteva mai di soffiare. Rombando, riempiva i due piani dell’abitazione, e la notte, quando tutto era in silenzio e immerso nel sonno, il suo ansimare raggiungeva ogni anfratto, come l’onda del mare che assale la spiaggia.

    Le mancava il mare. Chiudendo gli occhi, Maria riusciva ancora a vedere la danza delle onde sulla spiaggia di ciottoli a Penzance, la città dove era nata e cresciuta. Una volta, quando erano bambine, lei e sua sorella Charlotte avevano trovato una grossa conchiglia rosea. L’avevano stretta tra le mani e ammirata come un tesoro, e poi l’avevano appoggiata contro l’orecchio. Il rombo che avevano udito non era diverso da quello del vento che ora riempiva e gonfiava quell’austera casa georgiana di mattoni grigi, dalle finestre rettangolari affacciate sul verde sterminato della brughiera. Se chiudeva gli occhi – e gli occhi ormai si chiudevano troppo spesso senza che lei ne avesse l’intenzione – si trovava di fronte il mare, l’azzurro che si tingeva di rosa alle luci dell’alba, le onde increspate che riflettevano i raggi dorati del sole. Poteva scorgere chiaramente anche la sagoma del castello di St Michael’s Mount, che si stagliava su un isolotto proprio davanti alla costa. Non si era mai soffermata a riflettere su quanto le mancasse quell’immensa distesa d’acqua accanto alla quale era cresciuta. C’era sempre stato troppo da fare per fermarsi a tirare il fiato. Era stata una vita intensa, la sua. Ne aveva passate tante. Gli eventi l’avevano portata dove non avrebbe creduto, e raramente le cose erano andate come aveva pianificato.

    Quando viveva a Penzance con i suoi genitori e i suoi fratelli, l’esistenza che conduceva la appagava al punto che sperava che niente sarebbe mai cambiato. Avrebbe volentieri fissato nell’eternità quei momenti: il sorriso dolce della mamma, la mente vivace di papà, le risate con le sorelle, le lunghe chiacchierate con le amiche. Quando i suoi genitori erano morti, tutto era cambiato. Non c’erano molti soldi, e dopo qualche anno Maria aveva lasciato l’amata e conosciuta Cornovaglia per andare ad aiutare gli zii Jane e John Fennell nella gestione della Woodhouse Grove School. Quando era arrivata, lo Yorkshire non le era sembrato molto allettante. Sentiva la mancanza del mare sopra ogni cosa. Ma poi aveva conosciuto il signor Brontë – Patrick – e tra loro era subito scattato qualcosa di inspiegabile. L’amore! Quanta importanza in un’emozione invisibile e indefinibile con parole umane! Tutta la sua vita era fondata su quella semplice parola.

    Era stato un bel matrimonio, il loro. Avevano avuto sei figli, sei bellissimi bambini, e tutti godevano di buona salute – questa era la sola cosa importante. I suoi genitori avevano messo al mondo dodici pargoletti, ma solo sei erano cresciuti fino a diventare adulti. Maria aveva pregato ogni giorno e ogni notte perché ciascuna di quelle creature, che lei aveva nutrito nel suo grembo fino a che non era stata pronta a vedere la luce, fiorisse e potesse godere di molti giorni felici e colmi di benedizioni. Da quando aveva stretto per la prima volta al seno la sua primogenita, il suo solo desiderio era stato quello che alla piccola fosse concessa una vita serena. Aveva scoperto di possedere un lato fiero, tenace, e aveva sentito che sarebbe stata disposta a ogni cosa per proteggere quella piccola vita che lei e Patrick avevano generato.

    Avevano vissuto a Hightown, e poi a Thornton, e infine, nell’aprile dell’anno precedente, erano approdati a Haworth. Scendendo dalla carrozza che li aveva condotti fino alla porta della canonica, Maria aveva fatto attenzione a non svegliare l’ultima nata, addormentata tra le sue braccia, e si era guardata intorno piena di speranza. Sarebbe stata felice in quel luogo, ne era sicura.

    I suoi bambini. Il cuore le si stringeva, adesso, pensando a loro, e non per l’amore, ma per il dolore. Cosa ne sarebbe stato dei suoi bambini? La maggiore, Maria, aveva sette anni, e da quando la malattia aveva colpito la madre era diventata più seria e responsabile che mai. Si occupava dei fratelli minori, che la seguivano pieni di fiducia. Non era quello che desiderava per lei, non era quello che le augurava, che ancora nell’età in cui si sarebbe dovuta dedicare ai giochi infantili divenisse una figura di riferimento per qualcun altro. Era molto posata ed era intelligente per la sua età, e Maria, sua madre, riponeva grandi speranze nel suo futuro. Poi c’era Elizabeth, di appena un anno minore, con i vivaci occhi castani e il sorriso birichino, che le domandava ancora e ancora di raccontarle la sua storia preferita. Ora Maria era troppo stanca per accontentarla, ma sua sorella Elizabeth (proprio in onore della quale era stata chiamata la sua secondogenita) le garantiva che si sarebbe occupata personalmente di raccontargliela, intanto che lei si riposava. A letto, però, Maria non riposava mai davvero. Il dolore la accompagnava costantemente, un dolore così forte da togliere il fiato. I medici le davano delle pozioni per intontirla, per non farla soffrire tanto e inutilmente, perché per la sua malattia non c’era cura e tutti sapevano che fatale sarebbe stato l’esito. Maria così sprofondava in un torpore penoso che non era un vero sopore. I suoi bambini, i suoi bambini… Sarebbe stato così semplice abbandonarsi, farsi cullare dalla morte fino al sonno della pace. Lei però non poteva. I suoi figli la tiravano lontano dal cielo, la tenevano ancorata alla terra.

    Charlotte. La sua piccola Charlotte di poco più di cinque anni, che la guardava con degli enormi ed espressivi occhi brillanti, la scrutava e non diceva nulla. Maria poteva leggere dentro quello sguardo come si legge la pagina di un libro, e vedeva la paura che si era annidata nell’animo della sua terzogenita. Charlotte aveva bisogno della sua mamma, di sapere che ci sarebbe stata. Era una bambina curiosa, un’avida osservatrice, e Maria sapeva che mille domande le riempivano la testa coperta di fitti ricci castani. Lei non poteva darle le risposte che desiderava sentire, e questo le spezzava il cuore.

    Poi, Branwell. L’unico maschio della famiglia, intelligente, vivace, chiacchierone, che si faceva rapidamente perdonare ogni marachella semplicemente sfoderando il suo adorabile sorriso. Aveva gli occhi scuri, i capelli rossi ereditati dal ramo irlandese ed era così tenero ed espansivo che Maria non riusciva mai a essere severa con lui. Ora che era ammalata, un paio di volte era riuscito a eludere la sorveglianza della zia e a sgattaiolare dentro la stanza dove lei giaceva, per arrampicarsi sull’alto letto e rannicchiarsi contro la sua spalla come un cucciolo stanco. Si era addormentato subito, come suo solito, e Maria era rimasta ad ascoltare il suono regolare del suo sospiro nel sonno e respirare l’odore familiare dei suoi folti capelli. Il suo piccolo, amato Branwell.

    Emily aveva compiuto da qualche settimana tre anni. Anne ne aveva meno di due. Maria osservava le loro guance ancora rotonde per la prima infanzia, poggiava gli occhi sulle loro dita grassottelle e non poteva neanche provare a indovinare le donne che sarebbero diventate. Erano due piccine che allungavano le mani per farsi prendere in braccio e cullare. Molto presto, si sarebbero dimenticate di lei.

    Maria non temeva la morte. Aveva recitato le preghiere per tutta la vita, conosceva a menadito la Bibbia, suo marito era un pastore della Chiesa d’Inghilterra: sarebbe stata un’ipocrita se avesse davvero nutrito dei dubbi su quello che c’era dopo ad aspettarla. Aveva fiducia nel Signore. Ma le sue vie erano imperscrutabili, e mentre giaceva insonne e sudata nel suo letto di morte, non poteva rivolgere lo sguardo verso il cielo, verso l’eterno cui era destinata la sua anima invincibile. Il cuore la incatenava alla terra.

    I suoi bambini. Da quando le era stata diagnosticata quella malattia tremenda, Maria non era riuscita a pensare ad altro. I suoi bambini. Cosa ne sarebbe stato dei suoi sei amatissimi figli, di sei orfani senza una madre? Aveva pregato Dio, lo aveva implorato di risparmiarla. Non era per la sua vita che si preoccupava, non era perché era troppo legata alle gioie della terra che piangeva e implorava che l’Altissimo la ascoltasse. Ma i suoi bambini. Chi avrebbe curato le ginocchia sbucciate di Emily e Anne, chi avrebbe vegliato il sonno di Branwell, chi avrebbe risposto alle domande di Charlotte, chi avrebbe raccontato a Elizabeth la sua storia preferita, chi avrebbe permesso a Maria di vivere in maniera spensierata e gioiosa la sua infanzia?

    Quando sua madre era morta lei era già uscita da un pezzo dalla fanciullezza, eppure il suo cuore non aveva mai provato un dolore paragonabile a quello. Sapeva che in cielo l’avrebbe incontrata di nuovo, credeva sorretta da una fede sincera che si sarebbero riabbracciate nella gloria di Dio, un giorno, eppure quello non era stato un pensiero consolante quando aveva visto la bara contenente i resti mortali di sua madre mentre veniva calata sotto terra. Era stato un dolore troppo forte anche solo per poterlo rievocare, e avrebbe fatto qualsiasi cosa per risparmiare quella sofferenza ai suoi bambini.

    L’estate stava finendo. Le lunghe giornate iniziavano ad accorciarsi visibilmente, il freddo a impadronirsi di nuovo di quella terra. Era stato difficile per lei, all’inizio, abituarsi al clima dello Yorkshire. In Cornovaglia le estati erano più calde, e gli inverni molto più miti, tanto che in pieno febbraio fiorivano le camelie. Le ricordava bene, rammentava i loro esuberanti petali rosa che si schiudevano sotto il sole. Sentiva un carico pesante sul cuore. Non avrebbe visto un’altra primavera.

    E non si trattava della sola cosa che si sarebbe persa. Non avrebbe visto sbocciare la promessa che era nei suoi figli. Non c’era molto altro tempo per vederli, per toccarli, per essere parte della loro vita. Oh, sì, solo la sua esistenza terrena si sarebbe conclusa, l’aspettava l’eternità del paradiso, e ovviamente avrebbe potuto guardarli ancora, e vegliare su di loro. Patrick glielo aveva ripetuto continuamente in quei mesi di malattia, da quando il medico, cercando di nascondere una smorfia, aveva sentenziato:

    «Si tratta di cancro all’utero, signora Brontë. Mi dispiace.»

    Patrick le aveva raccontato le meraviglie del cielo come se le avesse viste con i propri occhi, e le aveva sussurrato all’orecchio:

    «Sii coraggiosa, Maria. A cosa serve avere fede in Gesù se poi non confidiamo nel suo operato? Fidati del progetto che ha in serbo per te e per noi.»

    Sul pulpito della chiesa di san Michele e tutti gli Angeli, dal quale suo marito predicava ogni domenica per un’ora esatta, si poteva leggere una citazione dalla lettera ai Filippesi: per me il vivere è Cristo, e il morire guadagno. Ma come poteva essere un guadagno, per una madre, morire quando sei giovani vite dipendevano da lei?

    Sì, credeva fermamente che avrebbe potuto continuare a vederli, dal cielo. Ma loro non avrebbero potuto vedere lei! Come, allora, avrebbe potuto aiutarli, consolarli, consigliarli? Come avrebbe potuto insegnare loro ad amarsi, come avrebbe potuto sussurrare al loro orecchio parole di conforto?

    All’inizio, Patrick non si era rassegnato alla diagnosi sventurata del dottor Andrew. Lo aveva fatto venire a casa praticamente ogni giorno da quando lei si era ammalata, obbligandolo, quasi, a compiere l’impossibile e curarla. Maria sorrideva pensando alla tenacia dell’uomo che aveva sposato, alla caparbietà con cui si era adoperato per averla al proprio fianco ancora un po’. Testardo come tutti gli irlandesi. Lei si era sottomessa docilmente a ogni trattamento. Per un certo periodo, aveva bevuto ogni giorno un cucchiaio colmo di un’orribile mistura di brandy, sale e zucchero, e si era fatta massaggiare il corpo con lo stesso liquido. Quel tentativo di guarirla si era dimostrato completamente inutile. Il medico scuoteva tristemente la testa.

    «Se anche si riuscisse a eliminare il cancro dagli organi femminili, probabilmente comparirebbe da qualche altra parte,» aveva spiegato un giorno a Patrick, mentre lei giaceva stanca e afflitta a letto. «È così che accade con questo tipo di malattie.»

    Infine, poiché non c’era altro da fare, Patrick si era rassegnato e aveva accettato che tutto quello che era in suo potere consisteva nell’assisterla durante il laborioso cammino verso la morte. Questa era la volontà del Signore. Lei, però, non si rassegnava, e lottava con ogni sua strenua energia per non soccombere, per resistere quanto più a lungo possibile.

    Di giorno, era un’infermiera a prendersi cura di lei, ma la sera e la notte era Patrick a restare al suo fianco. Le teneva la mano, la aiutava a bere, le asciugava il sudore dalla fronte. Pregava per lei, le raccontava storie. Era così bravo a narrare, sceglieva bene ogni parola, e infatti anni prima aveva anche pubblicato delle raccolte di poesie e un delizioso racconto breve intitolato La fanciulla di Killarney. Aveva scritto dei versi anche per lei, e Maria riusciva a ricordare perfettamente la gioia che le aveva scaldato il cuore quando aveva letto quelle parole per la prima volta. Il ricordo era così dolce.

    Oh! Che tutto dovesse finire! Era talmente ingiusto!

    Il povero Patrick. Anche per lui le si stringeva il cuore. Aveva da poco gustato le gioie del matrimonio, e già orribilmente la moglie gli veniva strappata. Era così paziente con lei, così calmo. Poco dopo l’arrivo di sua sorella Elizabeth a Haworth – era giunta nello Yorkshire per dare una mano durante la sua malattia – suo marito le aveva rivelato che tutti e sei i figli avevano contratto la scarlattina, e lui era stato talmente preoccupato di perderli tutti quanti, eppure era riuscito a fingersi calmo con lei, a non far trapelare nulla della sua angoscia, a inventare scuse credibili per giustificare l’assenza dei bambini dalla sua stanza. Un brutto raffreddore, un po’ di tosse: niente che potesse allarmarla. E solo quando la situazione si era risolta lei era stata informata.

    Si era ammalata in gennaio, e ora che era settembre le sembrava di essere costretta a letto da tutta la vita. Non credeva che morire potesse essere così macchinoso, così difficile. Forse era perché la sua volontà si opponeva con ogni forza a quel destino, oppure era solo perché un corpo giovane come il suo non era fatto per smettere di funzionare per sempre. In agosto era morta la regina, Carolina, dopo meno di un mese di malattia. Era stato proclamato lutto nazionale, e Patrick le aveva letto il sermone che avrebbe pronunciato dal suo pulpito la domenica. Parlava di vita dopo la morte, di fede, di una dipartita serena. Maria non riusciva a concentrarsi sulle sue parole. Il dolore continuava a tormentarla, ma anche più angosciosamente la angustiava il pensiero dei bambini.

    «Oh, Dio, i miei poveri bambini,» aveva continuato a gemere per tutti i mesi della malattia. Dio, proteggi i miei bambini. Dio, abbi cura dei miei bambini. Dio, sii buono, permettimi di restare sulla terra per poter crescere i figli che Tu hai voluto donarmi.

    Dio non ascoltava le preghiere. Ecco la lezione che Maria aveva imparato in quei mesi. Probabilmente c’era un disegno, dietro, non ne dubitava. Ma non riusciva a vederlo e, peggio ancora, non era interessata a vederlo.

    Dio, allontana da me questo calice. Signore, non sia fatta la tua volontà. Salvami.

    Era un peccato anche solo pensarle, parole come quelle. La volontà di Dio era impossibile da alterare, poteva solo essere accettata con fede e fiducia nella sua opera. Nonostante ciò, lei si ribellava. Era inutile, ma non poteva farci nulla. I suoi bambini. Era così preoccupata per loro, così tormentata. Come avrebbe potuto riposare in pace sapendo che loro crescevano senza una madre? Come avrebbe potuto godere delle gioie del cielo, se sulla terra quei virgulti che lei aveva generato pativano soli e privi delle sue carezze?

    Elizabeth, sua sorella, più grande di lei di sette anni, le aveva solennemente promesso che sarebbe stata lei a prendersi cura di loro, se Patrick non si fosse risposato provvedendo a fornire ai piccoli un’altra madre. Non li avrebbe mai abbandonati, lo aveva giurato. Maria aveva sorriso stancamente a quelle sue parole, ed era stata grata perché sapeva che poteva fidarsi di Elizabeth, ma il cuore si spezzava lo stesso. Era così ingiusto! Erano i suoi bambini, suoi. Avrebbe dovuto essere lei a vederli crescere, a stare al loro fianco.

    L’odore dell’erica in fiore invadeva la stanza. Era un aroma lieve, diverso da quello di qualsiasi altra pianta. Sapeva di terra e di muschio e di erba, sapeva di vita. Era così triste dover dire addio a tutto mentre la brughiera si colorava di violetto, e in alto, nel cielo, il sole brillava. Fuori dalla canonica, la natura scoppiava di vita, e lei moriva.

    Sentiva che le forze la abbandonavano. Lentamente, ma inesorabilmente. Il dottore l’aveva visitata quella mattina, e aveva sentenziato che ormai era arrivata alla fine del suo viaggio. Presto, molto presto, avrebbe avuto l’occasione di parlare a tu per tu con il creatore del mondo. Ormai, non c’era altro che si potesse fare, che lei potesse fare, se non accettarlo. Ma allora perché il cuore bruciava per la ribellione? Perché non si sottometteva, neanche in quel momento, a una volontà più alta?

    Sollevò le palpebre, lentamente, a fatica. Ai piedi del letto c’erano quei figli tanto amati, tutti con il volto rabbuiato e l’espressione seria. Gli occhi si posarono su ciascuno di loro: Maria, Elizabeth, Charlotte, Branwell, Emily e Anne – la minore, piccola com’era, stava in braccio alla tata, Sarah. Maria voltò a fatica la testa: a destra c’era suo marito, Patrick, e a sinistra Elizabeth, sua sorella. Avrebbe volentieri risparmiato loro quello spettacolo.

    La morte, implacabile, continuava la sua strada. Fredda compagna crudele, l’aveva corteggiata avvicinandosi sempre di più in quei mesi di malattia. Ora, infine, vinceva, ma Maria non deponeva le armi in pace. Ogni istante che le fosse stato concesso ancora, lei con tenacia lo avrebbe tenuto stretto, e annaspando conquistava nuova aria per nutrire i polmoni, cercando di trattenere in quel corpo che la malattia aveva colonizzato le ultime energie. Le lacrime le salirono agli occhi, le sue ultime lacrime. Davanti a lei, quel gruppo di bambini quasi senza una madre, frutto del suo amore per Patrick e per Dio, oggetto di tutta la sua devozione. Com’era triste. Com’era ingiusto!

    Addio. La parola le salì alle labbra, ma non la pronunciò. Non era pronta. Ancora un istante, pregò, ancora un istante prima di lasciare quel mondo che ormai per lei era la più accogliente delle case, che mai, se fosse stato in suo potere decidere, avrebbe voluto abbandonare. Ancora un istante per contemplare i suoi figli prima di essere condannata a vegliare su di loro da lontano. Solo un istante.

    Ma neanche quello le veniva concesso. Gli occhi non riuscivano più a restare aperti, nonostante i suoi sforzi. Il petto si alzava e abbassava sempre più lentamente. Non c’era più tempo. Le immagini davanti a lei iniziarono a farsi più annebbiate, e l’odore di erica sembrava venire da un luogo remoto e lontano. E, infine, Maria lasciò che le palpebre si richiudessero per sempre sui suoi occhi.

    2

    1823

    I have a small but sweet little family that often soothe my heart and afford me pleasure by their endearing little ways, and I have what I consider a competency of the good things of this life.

    (Patrick Brontë)

    Il piano era piuttosto semplice: dovevano tenere prigioniero il principe per riuscire a impadronirsi del suo regno. Il poveretto, avvolto nel suo mantello cobalto, se ne stava raggomitolato in un cantuccio, spaventato. Oh, se solo non ci fossero state le sue fedeli guardie! I tre scagnozzi reali erano pronti a tutto per difenderlo.

    «In guardia,» gridò Emily, ma Charlotte saltò di lato per evitare di essere colpita dal rametto che la sorellina brandiva.

    «Non riuscirai mai ad avere la meglio su di me,» rispose decisa Charlotte. «Io sono prode e fiera come l’ardito duca di Wellington!»

    Accanto a lei, Branwell rise, beffardo.

    «Il duca di Wellington?» domandò con la sua vocetta squillante. «Allora non sei niente rispetto a me. Io sono intrepido come Annibale!»

    Charlotte si voltò verso il fratello, gli occhi che fiammeggiavano. «Annibale? Credi davvero che il tuo Annibale sia degno di essere paragonato al Duca?»

    «Sì,» rispose Branwell con tono irriverente. «Annibale è stato uno stratega migliore del tuo amato Duca.»

    Charlotte sbuffò. Papà ne aveva parlato nelle sue lezioni mattutine proprio quella settimana, perciò sapeva benissimo che il condottiero cartaginese non era niente rispetto al suo eroe.

    «Bah. Il Duca ha sconfitto Bonaparte, mentre il tuo Annibale è stato battuto dai Romani a Zama,» replicò, sapendo che questo l’avrebbe messo a tacere.

    «Oh, va bene. E Cesare, Tallie? Cesare è più forte del Duca di Wellington.»

    Charlotte si sentì fremere d’indignazione. Branwell lo faceva apposta! La provocava perché sapeva quanto ammirasse il Duca.

    «Bene, Cesare sarà stato anche un grande condottiero, ma aveva le doti morali di Arthur Wellesley? Aveva il suo spirito di sacrificio, la sua umanità, il suo eroismo? Non mi risulta. Se non fosse stato per il Duca, che ha vinto la battaglia di Waterloo, cosa ne sarebbe stato dell’Inghilterra? Dobbiamo tutti essergli grati e…»

    «Bla bla bla…» la interruppe Branwell. Charlotte non lo sopportava quando faceva così: amava suo fratello, ma le faceva sempre perdere la pazienza! Anche suo padre era d’accordo nel dire che era esasperante: sosteneva che Branwell si infiammasse troppo in fretta, e che avrebbe dovuto perdere quel vizio, che aveva ereditato dalla nonna paterna, Alice. Ma nonostante questo tutti lo adoravano, lui, l’unico maschio tra cinque sorelle, e gliele davano tutte vinte. Solo papà aveva il coraggio di punirlo quando i suoi capricci erano impossibili da placare, mentre la zia e le due tate avevano un tale debole per lui da non arrabbiarsi quasi mai per le sue malefatte.

    A sei anni di età, Branwell era già fin troppo consapevole del suo ruolo di spicco in famiglia in quanto unico erede maschio. Il suo primo nome, Patrick, era quello di papà, ma tutti lo chiamavano con il secondo nome, Branwell, che era il cognome della mamma e della zia. Charlotte si accorgeva di tutti i privilegi di cui godeva il suo scalmanato fratellino dai capelli rossi, e si arrabbiava, soprattutto perché lui non era costretto a trascorrere un’infinità di ore a cucire come invece erano obbligate a fare lei e le sue sorelle – eccetto Anne, ma lei era una bambina piccola – eppure, suo malgrado, anche lei era incapace di resistere al fascino che il ragazzino emanava, e doveva ammettere che quando era di buon umore era il compagno di giochi migliore in assoluto. Aveva una fervida fantasia, e si divertivano a inventare insieme mondi fantastici che popolavano di personaggi coraggiosi e valorosi.

    «Charlotte, Branwell,» li richiamò Elizabeth, «vi siete messi a bisticciare e vi siete lasciati sfuggire il principe!»

    Il principe, ovvero la tata, Sarah, che aveva poco meno di vent’anni ed era una divertente compagna di giochi, era avvolta in una coperta a mo’ di mantello. Charlotte, Branwell ed Elizabeth erano tre rivoluzionari che avevano rapito il governante per impadronirsi della nazione, ma Maria, Emily – e Anne, che sebbene avesse appena tre anni voleva sempre fare quello che facevano i fratelli maggiori – cercavano di sventare il loro piano e salvarlo.

    Elizabeth si era già gettata all’inseguimento di Sarah, e Charlotte e Branwell smisero immediatamente di bisticciare per raggiungere il principe in fuga.

    «Scappa, principe, scappa!» gridavano Emily e Maria.

    Sarah così raggiunse la finestra e si sporse fino a sfiorare il ciliegio che cresceva rigoglioso davanti alla canonica, poi si allungò ancora e afferrò uno dei rami.

    «Ci sta sfuggendo,» gemette Branwell, mettendosi le mani nei capelli.

    Sarah era salita sul ramo dell’albero, che però tremò minacciosamente. L’universo del gioco improvvisamente sparì, la magia lasciò la stanza e i sei fratelli si ritrovarono nella realtà, in piedi davanti alla finestra nello studio dei bambini – così era chiamata la stanza in cui giocavano e leggevano – mentre la loro amata tata Sarah, avvolta in una logora coperta, cavalcava un ramo scricchiolante.

    «Attenta,» le urlarono in coro, «stai per precipitare!»

    Sarah riuscì in qualche modo a calarsi e raggiungere il terreno coperto d’erba verde appena prima che il ramo del ciliegio crollasse rovinosamente accanto a lei. I bambini corsero fuori dallo studio, scesero le scale e uscirono nel giardino, precipitandosi a verificare che la loro tata fosse tutta intera.

    «È l’albero preferito di papà,» gemette Maria dopo che si furono accertati che Sarah non si era fatta neanche un graffio. «Si mette sempre a leggere all’ombra dei suoi rami quando il tempo è bello.»

    «Il padrone si arrabbierà terribilmente,» sospirò Sarah, osservando il ramo abbattuto.

    Charlotte le si fece vicino e le strinse la mano per darle coraggio.

    «Non scoprirà mai chi è stato,» proruppe allora Emily. «Noi non lo diremo a nessuno!»

    I bambini si trovarono subito d’accordo. Non volevano finire nei guai – e non avrebbero mai fatto niente per danneggiare Sarah.

    Papà era andato a far visita a delle famiglie della comunità, e la zia era impegnata con Nancy, la sorella di Sarah, in cucina. I bambini si rivolsero subito a Maria: era lei la loro guida, e a lei si affidavano in tutti i momenti di difficoltà. Con un sorriso preoccupato, la ragazzina invitò il piccolo gregge a seguirla dentro casa, dove stabilì che si sarebbero dedicati a passatempi più tranquilli mentre aspettavano il ritorno di papà.

    «Vi leggerò il giornale,» esordì quando ebbero raggiunto di nuovo lo studio dei bambini e si furono tutti seduti per terra. Sarah si sistemò su di una sedia in fondo alla stanza e prese a rammendare alcune vecchie paia di calze.

    Alla canonica arrivavano tre diversi giornali, e Maria aveva l’abitudine di leggerli da principio a fine ai fratelli, senza saltare un solo articolo. Per questo erano tutti molto aggiornati sugli eventi politici e, come papà, erano dei Tory appassionati. Il giornale che Charlotte e Branwell preferivano in assoluto era il Blackwood’s Magazine, così tutti e due fremettero di eccitazione quando videro che Maria sollevava una copia proprio di quella pubblicazione.

    «No, non il giornale,» protestò Elizabeth, scuotendo una mano. «Lo hai già letto, e non ho voglia di sentire ancora parlare dei papisti.»

    «Cos’è questo?» domandò Emily, alzandosi in piedi e afferrando un grosso tomo con una mappa in copertina. Le piacevano tanto i racconti di viaggio.

    «Mettilo giù. È un libro di geografia che mi ha prestato papà, per studiare. Vi annoierebbe a morte,» rispose seccamente Maria.

    Emily obbedì. Charlotte ammirava tanto la sua sorella più grande, perché era la sola cui quella cocciuta di Emily desse ascolto. Quando si metteva in testa qualcosa, era impossibile far desistere la sua sorellina, e solo Maria era in grado di trovare le parole giuste per ammansirla e convincerla a lasciar perdere. Doveva essere perché era la sorella maggiore: Charlotte era convinta che il figlio che veniva mandato per primo in una famiglia avesse delle capacità speciali, perché era suo preciso dovere prendersi cura di tutti i fratelli minori. Maria abbondava di quelle capacità: era tenace, protettiva e molto, molto paziente. Non si arrabbiava mai neppure con Branwell, e lui riusciva a irritare anche papà, che era il pastore del paese ed era molto pio e religioso. Charlotte era contenta di poter contare su una sorella come Maria, e sapeva che l’avrebbe sempre protetta da ogni male e si sarebbe presa cura di lei.

    «Leggici la storia di Flora,» propose Anne, acciambellata ai piedi di Sarah – con Branwell, Anne era la beniamina di tutti gli adulti, ma Charlotte poteva capire perché, lei era piccola.

    «Sì, sì,» intervenne Emily. «Flora con la sua arpa!»

    Anche Elizabeth, Charlotte e Branwell non ebbero nulla da obiettare. Quella storia piaceva a tutti: l’aveva scritta papà molto tempo prima, addirittura quando Emily e Anne non erano ancora nate, ed era bellissima.

    Maria uscì dallo studio per andare a prendere il libro nella stanza accanto, e poi iniziò a declamare con voce seria e appassionata per i suoi fratelli. Charlotte si lasciò subito trasportare nel mondo fantastico di quell’avventura: la vita che si svolgeva nella sua testa, mentre leggeva, ascoltava storie o fantasticava, era sempre di gran lunga più interessante della realtà della canonica. La fantasia era la cosa più preziosa che avesse, e quasi mai lei era davvero Charlotte, ma per la maggior parte del tempo era il personaggio di un libro o di un gioco, molto spesso addirittura il suo amatissimo Duca. Le ci volle poco a dimenticare l’incidente dell’albero e vestire i panni della giovane e bellissima Flora, l’eroina del racconto di papà. Ma poi si udì rintoccare l’orologio a pendolo in fondo alle scale, e poco dopo la porta di casa si aprì: la magia svaniva di nuovo, papà era tornato.

    «Bambini,» chiamò, mentre entrava nel salone. «Bambini! Scendete, voglio parlare con voi!»

    I sei fratelli si scambiarono sguardi pieni di angoscia, preoccupati: papà si sarebbe arrabbiato con loro? Li avrebbe puniti?

    Scesero le scale lentamente, mentre Sarah li seguiva timorosa. Raggiunsero la sala e si misero in piedi davanti al padre.

    «Il mio albero preferito, in giardino,» esordì papà. «Ha un ramo spezzato. Voi ne sapete qualcosa?»

    Di solito era Maria che parlava per tutti, ma in quell’occasione restò in silenzio, guardandosi pensosamente la punta delle scarpe.

    «Non rispondete?» li incalzò papà.

    Maria non avrebbe mai detto una bugia, Charlotte lo sapeva. Era molto devota e non contravveniva mai agli insegnamenti di Gesù.

    «Allora formulerò diversamente la domanda: chi è stato a rompere il ramo del mio albero?» domandò papà con un tono severo.

    Di nuovo, tutti restarono in silenzio.

    Lui si rivolse direttamente alla sua figlia più grande.

    «Maria, chi è stato?»

    Adesso? Charlotte trattenne il respiro. Maria avrebbe mentito, dicendo che non lo sapeva? Oppure avrebbe accusato Sarah? In ogni caso, sarebbe stata una scelta sbagliata. Charlotte non sapeva proprio cosa avrebbe potuto fare nei panni di sua sorella, che mantenne ostinatamente il silenzio.

    Papà, con un tono autoritario, domandò di nuovo:

    «Maria, chi è stato a rovinare il mio albero? Rispondi, per favore.»

    Maria sussurrò in un soffio:

    «Non sono stata io.»

    «Elizabeth, dimmelo tu allora: chi è stato?»

    «Non io,» rispose subito Elizabeth con decisione.

    «Charlotte, forza, dimmi: chi è stato?»

    «Non sono stata io,» rispose la piccola, felice perché sua sorella aveva trovato come sempre la soluzione migliore.

    Interrogati alla stessa maniera, Branwell, Emily e Anne fornirono la medesima risposta. Allora Sarah si fece avanti, tremante.

    «Sono stata io, signor padrone,» ammise. «Non punite i bambini, sono stati leali e buoni con me. Io sono la sola responsabile dell’incidente.»

    Charlotte trattenne il respiro: cosa avrebbe fatto adesso papà alla povera Sarah? L’avrebbe cacciata via?

    «Punirli?» papà rise, una risata allegra e familiare. Adesso l’espressione torva era sparita dal suo volto. «E perché mai? Sono stati molto bravi. Non mi hanno mentito e hanno evitato di accusarti, per risparmiarti un castigo, immagino. Sono molto orgoglioso di loro. In quanto a te, Sarah, non so come sei riuscita a far crollare il ramo del mio albero, ma, per l’amor del cielo, fa’ attenzione! Non vorrei mai che ti rompessi l’osso del collo. Adesso possiamo andare a mangiare, sono affamato. Il tè è pronto, non è vero?»

    Loro avevano già preso il tè, che papà consumava da solo. C’era ancora un po’ di tempo prima che l’orologio battesse le sette e fosse ora di andare a dormire, così i fratelli tornarono a giocare nello studio dei bambini fino a che papà non ebbe terminato il suo pasto e li ebbe chiamati perché lo raggiungessero nel salone al piano di sotto.

    I bambini erano ancora abbastanza scossi per l’episodio del ciliegio. Era l’albero preferito del padre, che in primavera si riempiva di foglie e fiori di un delicato rosa. Davvero la faccenda era chiusa senza che Sarah o nessun altro ne pagasse le conseguenze? Charlotte teneva i suoi grandi occhi spalancati fissi su papà, quando lui entrò nella stanza e sedette sulla poltrona. Anche i suoi fratelli lo guardavano in silenzio.

    Branwell prese posto accanto a lui, mentre lei, Maria ed Elizabeth avevano già afferrato il materiale per cucire. Charlotte si stava preparando una nuova camicia di lino, perché la sua iniziava ad andarle piccola, e non era contenta. Cucire non le piaceva minimamente, e invidiava Branwell che era esentato da quel dovere. Maria, come lei, preferiva la lettura e il disegno al cucito, ma non si lamentava mai perché era una perfetta creatura cristiana. Avrebbe voluto assomigliarle di più, ma era così difficile essere come lei! Elizabeth, invece, amava cucire, ed era molto ordinata. La zia Branwell la lodava sempre perché era la più brava della famiglia a prendersi cura di ogni oggetto, e diceva che sarebbe diventata una perfetta padrona di casa. Charlotte non pensava che il destino di una padrona di casa fosse particolarmente invidiabile, avrebbe preferito passare l’età adulta a leggere e fantasticare invece che a cucire camicie per tutta la famiglia, ma quando l’aveva detto alla zia lei l’aveva rimproverata.

    Troppo spesso gli adulti la rimproveravano per le sue opinioni. Quando un visitatore passava dalla canonica, Charlotte si divertiva a raggiungerlo nella sala e osservarlo mentre conversava con suo padre o con la zia. Lei le ripeteva che era molto maleducato fissare le persone in silenzio, ma Charlotte protestava che non aveva nulla da dire a quegli estranei, e come avrebbe fatto a guardarli senza tener loro gli occhi addosso? Ma la zia scuoteva la testa, e la scuoteva anche di più quando Charlotte esprimeva il suo giudizio sugli ospiti. Le piaceva osservare le persone e analizzarle, cercare di capirle. Poi ci rimuginava per giorni, e spesso inseriva una qualche versione di loro nei suoi giochi con le sorelle e con Branwell.

    La zia si lamentava perché Charlotte era troppo dura nel valutare gli altri, riuscendo sempre a trovar loro qualche difetto. Ma avere difetti era umano, pensava Charlotte, e non poteva esistere la perfezione – eccetto, forse, in sua sorella Maria, e nella mamma che era morta perché era troppo buona per il mondo, diceva papà. Lui, a differenza della zia, le batteva una mano sulla spalla: era molto fiero della sua intelligenza, Charlotte lo sapeva. E Branwell rideva di gusto ascoltandola declamare le sue intuizioni sugli sconosciuti che visitavano la famiglia: quando non bisticciavano, loro due erano migliori amici perché trovavano divertenti le stesse cose.

    Emily sedeva per terra, senza preoccuparsi del lavoro di cucito cui si sarebbe dovuta dedicare. Era riuscita a far entrare nella stanza il gatto nero, e la zia Branwell si sarebbe infuriata quando se ne fosse accorta. Non voleva gli animali dappertutto per la casa, si lamentava dei loro peli, ma Emily aveva una vera passione per tutti gli esseri viventi, e una predilezione per cani, gatti e uccellini. E non aveva paura di incappare nell’ira della zia: Charlotte non finiva mai di sorprendersi dell’infinita caparbietà della sorella, che niente avrebbe potuto smuovere dalle sue idee.

    Anne sedeva accanto a lei. Alla sua età, anche lei ormai avrebbe dovuto essere in grado di cucire – era ancora viva sua madre quando Charlotte aveva realizzato la sua prima camicia di lino – ma tutti erano molto indulgenti con lei perché era la piccola di casa.

    Di solito, dopo il tè, prima che papà andasse a dormire, la zia Branwell leggeva ad alta voce qualche libro – tutti amavano Walter Scott – oppure papà raccontava loro la vita di un personaggio illustre, o storie di viaggi, che appassionavano tutti ma in particolare lasciavano a bocca aperta Emily. Ma quella sera, papà era pensoso. Rimase qualche momento in silenzio, con la zia seduta accanto a lui intenta a cucire, e infine domandò:

    «Perché non mi avete immediatamente riferito che Sarah ha spezzato il ramo dell’albero?»

    Rimasero tutti in silenzio.

    La zia Branwell intervenne:

    «Dovreste fare attenzione mentre vi dedicate ai vostri giochi. Finirete per farvi male. E Sarah, oh, domani le parlerò!»

    «Si è presa un bello spavento,» commentò papà. «È molto giovane. Non credo che commetterà più niente di avventato, signorina Branwell, non preoccupatevi.»

    Charlotte osservava papà con grande interesse.

    «Vorrei sapere, però, bambini, se non avete parlato perché avete paura di me,» disse l’uomo.

    Il miagolio disperato del gatto ruppe il silenzio.

    «Branwell!» gemette arrabbiata Emily, che si voltò verso il fratello con il pugno alzato.

    Il gatto ne approfittò per sgusciare via.

    «Emily,» sospirò la zia. «Ti ho detto mille volte che non puoi portare il gatto in questa stanza.»

    «Ma voleva stare con noi,» protestò la bambina.

    «Branwell gli ha tirato la coda,» intervenne allora Elizabeth. «L’ho visto.»

    «Bambini!» li richiamò papà. «Stavamo parlando di una cosa importante. Quello che è accaduto poco fa mi ha fatto riflettere sul fatto che potreste sentirvi intimiditi da me. Forse ci sono delle cose che non mi dite per timore, perché vi sentite spaventati dalla mia persona… e non è una bella sensazione.»

    «Mi dispiace, papà,» intervenne Maria.

    Charlotte era molto interessata all’intera conversazione: papà predicava dal pulpito ogni domenica, conosceva Dio e parlava del paradiso e dell’inferno. Come potevano non sentirsi in soggezione davanti a lui?

    «Quindi mi è venuta un’idea,» riprese papà. Si alzò e uscì dalla stanza, rientrando poco dopo con il volto nascosto dietro una strana maschera. Era bianca e spigolosa, con due buchi per gli occhi e una piccola fessura per la bocca. Nonostante il portamento fiero fosse lo stesso di sempre, era irriconoscibile dietro a quell’affare.

    «Papà!» rise Branwell andandogli incontro. «Fammela provare!»

    Papà se la tolse e tornò a sedere in poltrona.

    «La proverete tutti, a turno. Dietro la maschera sarete completamente nascosti, non potrò scorgere la vostra espressione e i movimenti del vostro volto. Anche gli occhi saranno parzialmente celati!» esclamò pieno di entusiasmo.

    La zia Branwell scosse la testa.

    «Signor Brontë,» mormorò, «cos’avete in mente?»

    «Bambini, dietro alla maschera sarete invisibili,» concluse soddisfatto papà. «Ecco perché la indosserete e allora mi parlerete con coraggio. Uno alla volta! Vi coprirete con la maschera e poi risponderete a una mia domanda. Che ne dite?»

    «Io per primo, io!» gridò Branwell correndo verso papà. Emily lo raggiunse subito.

    «No, io per prima!»

    «Uno alla volta,» disse allora papà, «a partire dal più piccolo.»

    «Ma papà,» protestò Branwell, mentre Emily lo guardava soddisfatta perché il suo turno sarebbe arrivato prima di quello del fratello.

    Allegramente, Anne saltò in piedi e si avvicinò alla poltrona dove sedeva papà. Esitò, improvvisamente intimidita, quando lo raggiunse, e poi allungò la mano per afferrare la maschera che lui le porgeva.

    «Mettila sul volto, adesso,» la incoraggiò l’uomo con fare divertito.

    Anne fece una risatina e sollevò la maschera per coprirsi la faccia. Anche se indossava ancora la solita veste blu e le trecce che spuntavano erano le sue, con il volto coperto appariva come una creatura nuova e sconosciuta.

    Charlotte osservava la scena piena di interesse: era un gioco che le piaceva! Però, era anche un po’ preoccupata: ci teneva a non fare la figura della stupida, e non sapeva proprio cosa avrebbe domandato papà. La maschera non la nascondeva davvero, sarebbe stata ancora lei, e desiderava stupire suo padre e i suoi fratelli con una risposta intelligente e profonda. Sì, ma una risposta a quale domanda?

    «Allora, sentiamo,» esordì papà. «Cosa credi che manchi principalmente a un bambino della tua età?»

    Anne esitò. Poi rispose:

    «Gli anni e l’esperienza, credo.»

    Charlotte iniziò subito a pensare a una risposta che avrebbe sorpreso suo padre, che l’avrebbe stupito, ma quando Emily ebbe preso il posto di Anne dietro alla maschera, papà pose una domanda differente.

    «Cosa conviene fare con Branwell, quando si comporta male?»

    Da dietro la maschera, la voce di Emily era più cavernosa.

    «Farlo ragionare e, se non vuole ascoltare, punirlo,» decretò. Si sfilò la maschera e lanciò al fratello maggiore uno sguardo di sfida.

    Era il turno di Branwell.

    «Come si può conoscere la differenza che corre tra l’intelletto maschile e quello femminile?»

    Branwell esitò.

    «Si deve… considerare le differenze fisiche,» concluse.

    Emily sbuffò – sua sorella non credeva di essere inferiore a nessuno, soprattutto non a Branwell, il suo fratello maggiore dai capelli rossi sempre scompigliati. E se si consideravano le differenze fisiche, beh, anche se aveva un anno di meno Emily era già alta quanto lui – e Charlotte, che in effetti era minuta per la sua età.

    Non c’era tempo per riflettere sulle parole del fratello. Emozionata, Charlotte si alzò in piedi e indossò la maschera. Le fessure sugli occhi le permettevano di vedere la stanza come attraverso due finestrelle o, meglio, come se potesse spiarla da due buchi della serratura. E, sebbene sapesse che ciascuno intorno a lei conosceva la sua identità, sentiva che la maschera la proteggeva. Ora lei non era più Charlotte, ma un oracolo che aveva la capacità di dare ogni risposta, perché era detentore di qualche saggezza antica e sconosciuta.

    «Sentiamo,» disse suo padre, con la sua voce stentorea. «Qual è il libro migliore al mondo?»

    Che domanda aveva scelto per lei! Papà sapeva che amava i libri, tutti i libri, anche quelli che non capiva. Era sempre piena di entusiasmo quando le veniva concesso di sfogliarne uno. Sedeva per terra a gambe incrociate alla turca, si appoggiava davanti il volume e lo sfogliava pervasa da un brivido di piacere. La incantavano le storie che vi erano narrate, ma le piacevano anche i disegni, le illustrazioni, le immagini fantastiche che emergevano dalle pagine. Cosa avrebbe potuto rispondere? Forse un libro che riferiva di viaggi e luoghi lontani? Forse racconti esotici e magici? Charlotte amava la magia. Impossibile scegliere un solo volume!

    Ma papà aveva chiesto: qual è il libro migliore al mondo, e non qual è il libro migliore per Charlotte Brontë. Ci poteva essere un’unica risposta.

    «La Bibbia,» affermò l’oracolo dietro alla maschera.

    «Sì, la Bibbia,» ammise papà. «Cos’altro avresti potuto rispondere. E subito dopo?»

    Charlotte non si aspettava una seconda domanda. I suoi fratelli avevano dovuto rispondere a un solo quesito! Adesso? Cosa dire? Le piaceva giocare. Le piaceva immedesimarsi in persone diverse da lei, negli animali, in esseri magici, anche. Adesso, papà le chiedeva il secondo miglior libro al mondo. Cosa avrebbe risposto l’oracolo invaso dalla saggezza del mondo antico?

    La risposta arrivò alla mente come arriva l’ispirazione: improvvisamente, tumultuosamente e accompagnata dall’assoluta necessità di essere enunciata.

    «Il libro della natura,» scandì con voce ferma.

    «Ottimo,» commentò papà, e allora Charlotte dovette restituire la maschera, e le dispiacque abbandonare quel nuovo ruolo che aveva appena inventato e che le era piaciuto tanto. Però era molto orgogliosa delle proprie risposte: sapeva che papà era stato ammirato dalla sua intelligenza.

    Toccò a Elizabeth.

    «Qual è il miglior metodo di educazione per una donna?» domandò papà.

    Charlotte avrebbe saputo bene cosa rispondere. Quello che le permettesse di leggere di più, di sognare di più, di vivere più vite. Ma Elizabeth era più pragmatica – o, forse, sapeva benissimo quale risposta avrebbe compiaciuto maggiormente papà.

    «Quello che la renderà capace di dirigere meglio la sua casa.»

    Infine, fu il turno di Maria.

    «E tu, mia cara, dimmi: qual è il modo migliore di trascorrere il proprio tempo?»

    Charlotte lo sapeva: giocando! Non riusciva a pensare a niente di meglio. Era la cosa che preferiva fare in assoluto. Poter essere chiunque e vivere nei mondi fantastici della fantasia era molto, molto meglio che essere solo Charlotte nella noiosa realtà. Ma Maria era più devota di lei.

    «Dedicarlo alla preparazione di una felicità eterna,» disse.

    Papà allora riprese la maschera, e sembrava molto soddisfatto di quello che aveva udito uscire dalle labbra della sua prole. Si era fatto tardi, e i bambini vennero mandati a dormire, mentre Branwell ed Emily, come di consueto, protestavano perché non avevano sonno.

    Charlotte era orgogliosa: aveva dato delle risposte molto intelligenti e profonde. Ci teneva tanto a ottenere l’approvazione di suo padre! Era lieta che le fossero stati posti proprio quei quesiti, a quelli rivolti a Elizabeth e Maria non avrebbe saputo rispondere altrettanto bene. Quanta strada aveva ancora da fare per diventare devota come Maria, e assennata come Elizabeth! Per quanto la riguardava, non c’era mai molto tempo

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