O di imbuto
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Info su questo ebook
strada e, non senza fatica, si inventa un futuro. Non solo: le sembra di accarezzare la felicità più completa quando incontra l’amore, ma Federico si rivela essere un uomo disfunzionale. Ben presto i sentimenti lasciano il passo a una relazione tossica che li getta entrambi in una spirale di distruzione sempre più profonda. Ma è quando sembra che
tutto sia perduto che scopriamo che per ogni fine esiste sempre un nuovo inizio.
Gabriella Rinaldi nasce nei primi anni Ottanta in Piemonte. Cresce e vive
tra le colline delle Langhe e le città di Alba e Cuneo. Da sempre interessata
all’arte in qualsiasi forma, lavora da tempo nel ramo delle risorse umane.
O di imbuto è il suo primo romanzo.
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Anteprima del libro
O di imbuto - Gabriella Rinaldi
Prologo
È certo che mormorava, ma non era il Piave quel fiume.
Non c’erano cadaveri di soldati trasportati qua e là dalla corrente in quel fiume.
Non aveva conosciuto guerra e neppure pace, quel fiume.
Senza dubbio aveva accolto il dolore di molti, con il suo umido abbraccio, quel fiume.
Sulla riva c’era solo una ragazza accasciata tra l’erba alta. Un nugolo di moscerini a farle da velo. Lì, vicino all’acqua dall’odore di alghe stagnanti e urina.
No, non era morta, ma svenuta.
Se fosse scivolata nel fiume in quella primavera per poi venir risputata, esanime, sulla riva erbosa, sarebbe stato sensazionale. In quella piccola città sarebbero accorsi i soliti curiosi desiderosi di nutrire la loro brama di particolari raccapriccianti. Avrebbero tentato di esaminare il corpo sperando di vedere larve e mosche brulicare all’interno degli occhi scavati e orbi. Oppure avrebbero cercato di cogliere altri particolari scabrosi.
Magari, leggendo la sua storia sul giornale, pur non conoscendo tutti i dettagli, qualche persona pietosa le avrebbe dedicato una lacrima.
Un fiume di ricordi
L’estate non è l’inverno L’inverno non è l’estate I Papi non sono frati
I frati non sono Papi Il pane non è l’insalata L’insalata non è il pane Oggi non è domani Domani non è oggi
Il carro dietro ai buoi I buoi dietro al carro L’estate non è l’inverno
( Vecchio adagio tradotto dal piemontese)
Antonella era una ragazza di ventitré anni, se le avessero chiesto avrebbe risposto che sarebbe stato più giusto dire una donna, già logora e stanca della vita. Era figlia di un padre cosiddetto N.N., magari una parentesi d’amore nella vita professionale di sua madre, forse il frutto di un incidente sul lavoro, se così si può dire. Non è dato sapere. Sua madre, donna minuta, problematica e dedita a ogni tipo di dipendenza, si guadagnava la pagnotta svolgendo il mestiere più antico del mondo e così sia.
A sua memoria, per la madre, Antonella era sempre e solo stata la bastardina che l’aveva costretta a sacrificarsi ancora più alacremente e le aveva impedito di darsi una ripulita e comprarsi una reputazione. Magari fregando qualche fesso e pidocchioso cliente che viveva in quel piccolo borgo a ridosso della città. E invece no: era arrivata la bastardina a romperle le uova nel paniere. Ciò che Antonella non avrebbe mai potuto sospettare era che la madre non era sempre stata così. C’era stato un tempo in cui la donna era stata una ragazza di belle speranze. Un passato in cui sua madre non era altro che una giovane contadina che aveva commesso un errore. Uno sbaglio che le era costato molto più del dovuto.
Una calda sera d’estate di fine anni Settanta, insieme alle sue amiche sempliciotte, e dalle braccia abbronzate dalla vita nei campi, Maddalena si era preparata per andare alla festa di paese. Le giovani erano tutte emozionate; avrebbero passato una serata elettrizzante a gironzolare nel quadrilatero della piazza rimbalzando, come palline di un flipper, tra il ballo a palchetto, il banco di beneficenza e il calcinculo itinerante. E proprio davanti alla giostra a catene, Maddalena aveva visto quel giovanotto con in mano i gettoni colorati e si era smarrita.
Divorò con gli occhi per tutta la serata quel ragazzo che in un romanzo rosa avrebbe avuto un fascino gitano. Occhi e riccioli neri. Ma la vita non è né un libro né un film: lui era un ladro. Non nel senso stretto del termine, sia ben chiaro. Era, infatti, privo della brutta abitudine che, a sentimento e in modo del tutto arbitrario, la gente semplice attribuisce ai giostrai. Com’è scontato, spesso aveva l’occasione con le donne e l’occasione, si sa, fa l’uomo ladro.
Dopo una serata in cui Maddalena aveva costretto la sua compagnia a gravitare intorno alla giostra e dopo una serie infinita di sguardi languidi, il baldo giovane prese la ragazza in un campo pieno di lucciole. Antonella era il frutto di quello sventurato e fugace amore di ragazzi.
Quando, grazie alle spiegazioni di una conoscente più grande ed esperta, Maddalena si accorse di cosa stava succedendo dentro al suo corpo, la contadinella decise di sistemarsi con Mario, un ragazzo buono, ma stupidotto e credulone, convincendolo che fosse stato lui ad averla ingravidata. Mario era considerato da tutti come lo scemo del villaggio essendo molto lento di comprendonio, non parlando quasi mai e vivendo in un mondo tutto suo.
Ma, se la fortuna è cieca, la mala sorte ci vede benissimo. I due non fecero in tempo a sposarsi e a riparare al danno poiché lui ebbe un incidente durante il lavoro nei campi: il trattore che stava manovrando finì in un fosso e si ribaltò schiacciandolo e uccidendolo. La gente di paese sarebbe stata disposta a chiudere un occhio sul fattaccio se fosse stato rappezzato con un matrimonio riparatore, seppur tardivo. Non era un mistero il fatto che Mario avesse subito un incidente in stalla da bambino. Un toro inferocito si era liberato dal suo giogo e lo aveva caricato. Mario non ci aveva rimesso la pelle, ma le palle: quelle sì. Fu proprio in quella stessa stalla che le due famiglie si incontrarono. I genitori del giovane accettavano di buon grado il compromesso anche perché quattro braccia in più in campagna potevano sempre servire e lo sfortunato ragazzo non avrebbe potuto ambire ad altro. Padre e madre di Maddalena erano molto contenti di poter sbolognare la figlia con la pagnotta nel forno a chiunque potesse salvarne la dignità. Ma Maddalena pagò nel peggior modo quella leggerezza, la gravidanza precoce, senza la presenza di Mario a rendere accettabile la situazione, non fece altro che rinfocolare le voci e, il solito testimone oculare fece venire a galla la verità sul giostraio. Lo sgomento in quel piccolo borgo fu tale da costringere i genitori a sconfessare la figlia.
La madre di Maddalena non poté mai più occupare il suo solito posto nel quinto banco a sinistra nella navata centrale della chiesa, durante la messa, tanto era l’imbarazzo e nel giro di un paio di anni morì. I soliti ben informati dicevano: «Hai visto la Ginetta, è morta come la sua cugina di là dalla valle. Crepata di sdegno. Quella là che dieci anni fa aveva il figlio che se ne è andato via dai preti. Lui aveva
una ligure, dicevano».
Ma, tornando a Maddalena, arrivò il momento in cui la giovane era in procinto di partorire. Per tutto il tempo, dalla morte di Mario fino al giorno prima del fatidico momento, la ragazza era stata in preda al tormento. Si era trovata sola e neppure maggiorenne, a cercare di capire cosa fare. Non era particolarmente sveglia o istruita e quindi si sentiva oltremodo confusa. Forse doveva abbandonare in ospedale il nascituro senza riconoscerlo. E poi, poteva dire che era morto di parto e tornare al paesello da sola. Ma aveva paura di sembrare ancora più appestata agli occhi degli altri: una lebbrosa. Purtroppo l’acume non era tra le sue qualità e non avendo una strada chiara da seguire, anche per indolenza, non fece niente.
Partorì una femmina e se la trascinò dietro. Forse, in un angolo remoto del suo cuore, pensava che di lì a pochi mesi il ragazzo dai riccioli neri sarebbe tornato e le avrebbe portate via da quel posto. Per dirla in modo poetico forse credeva che avrebbero staccato un biglietto per salire sui seggiolini della giostra dell’esistenza e che avrebbero fatto un giro insieme, fino a toccare le stelle. Ma la vita con quella attrazione condivideva solo il nome: calcinculo. E i due non si rividero mai più.
Il giorno in cui Maddalena si recò in Municipio per registrare la nascita di sua figlia era agitata, stanca e a disagio. Fu talmente presa dall’ansia, con quel fagottino di bimba in braccio, che si dimenticò il nome che voleva darle. Aveva scelto qualcosa di non comune: Arianna. Il nome di una bimba pressoché sua coetanea che veniva in villeggiatura dalla nonna quando erano piccole. Una bella bimba delicata e sempre composta, che Maddalena non aveva mai avuto il coraggio di avvicinare.
Nella sua nuova casa, che consisteva in un paio di stanze in una catapecchia fornita dal Comune, Maddalena aveva preso a bistrattare la figlia in ogni modo chiamandola, quando andava bene ed era in vena di amarla: Bastardina
, o altrimenti in modi indicibili presa com’era dalla disperazione e da quella che anni dopo avrebbero chiamato depressione post-partum. L’impiegato, che la conosceva – tutti sapevano vita, morte e miracoli degli altri in quel borgo – le riservò uno sguardo carico di disgusto e pietà. Aprì il grande tomo che fungeva da registro e aspettò. La giovane si sentiva soffocare. Il cuore le martellava in petto mentre era lì in Comune e non ricordava proprio nulla. Sapeva solo che il nome iniziava con la A.
I minuti passavano, le sembrava che il messo stesse diventando un gigante e lei si sentiva minuscola. Le venne in mente una canzone recentissima che aveva sentito qualche volta a fine gravidanza. Le piaceva cantare e aveva buona memoria per i testi. Parlava di una ragazza incinta che andava a scuola con il motorino. Il cantante era un certo Antonello Venditti. La A almeno c’era…
«Antonella!» sbottò all’improvviso.
E fu così che Arianna morì e venne dato il benvenuto ad Antonella. Madre e figlia vissero per molti anni in un rudere semidiroccato: un fabbricato confiscato dal Comune agli eredi dei legittimi proprie tari e adibito a rifugio per le famiglie più reiette del circondario.
Dentro l’enorme e vecchia casa, che era conosciuta con il nome altisonante di Cascina Albicocca in ricordo dei fasti passati, ma che era ormai piena di buchi nel tetto e in evidente stato di decadenza, avevano trovato riparo tre famiglie. La struttura era composta da due tronconi di poco svasati tra loro.
Più a valle vivevano un uomo anziano e mai maritato con sua madre. I due possedevano ogni sorta di piccolo animale da cortile, liberi di scorrazzare nell’aia e anche in casa. Madre e figlio erano oltremodo sudici, vivevano tra gli escrementi degli animali ed emanavano un fetore nauseante. Persino la madre di Antonella, nonostante la situazione quasi disperata, non accettò mai il vicino come cliente. Nella parte centrale dell’immobile era alloggiata una famiglia composta da padre, madre e un numero non ben precisato di figlie. In realtà erano cinque, tutte femmine, nessuna del tutto sana. Si mormorava che la trisavola, da parte di padre, fosse stata una nota strega che aveva accolto il seme del Demonio dentro di sé. Da quel momento in poi, il male aveva attecchito nella famiglia e le tare avevano preso a moltiplicarsi nella progenie maledetta. Quella famiglia era l’unica a possedere una stufa a legna, da sempre presente in quella zona della casa, ma erano talmente poveri e disgraziati da non avere di che alimentarla. Per arginare il problema spesso si arrangiavano cercando rametti nei vicini boschi ed erano addirittura arrivati, in un paio di occasioni, a utilizzare parte delle persiane, delle attrezzature e delle suppellettili che trovavano in giro per casa e nel circondario. Infine, più a monte, c’erano Antonella e la madre. Pur avendo bussato a tutte le porte di quel paesino, Maddalena non venne accettata a lavoro da nessuno, neanche come servetta o manovale, e fu ben presto costretta a svolgere la