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L'ambiente acquoso per il trattamento di opere policrome
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L'ambiente acquoso per il trattamento di opere policrome
E-book165 pagine1 ora

L'ambiente acquoso per il trattamento di opere policrome

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L’ambiente acquoso, semplice acqua o soluzioni acquose tamponate con eventuale presenza anche di Tensioattivi, Chelanti od Enzimi, rappresenta un importante approccio ad operazioni che con la terminologia tradizionale definiremmo “di pulitura” di opere policrome, ma che ormai è tempo di definire con maggiore precisione, visto che si può trattare di operazioni profondamente diverse: pulitura della superficie dallo sporco di deposito, oppure rimozione di sostanze filmogene applicate con diversa funzione (vernici e strati protettivi, residui di adesivi e consolidanti, ritocchi e ridipinture). L’ambiente acquoso affronta alla radice il problema della tossicità dei materiali, e mette a disposizione un maggior numero di “parametri di controllo”, come il pH, le concentrazioni, e la conducibilità, attraverso i quali spesso l’intervento può essere reso meno aggressivo e più selettivo, rispetto ai tradizionali solventi organici.
LinguaItaliano
EditoreIl Prato
Data di uscita12 mar 2012
ISBN9788863361568
L'ambiente acquoso per il trattamento di opere policrome

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    Anteprima del libro

    L'ambiente acquoso per il trattamento di opere policrome - Paolo Cremonesi

    Prefazione alla seconda edizione

    Questa seconda edizione aggiorna il titolo del volume: l’ambiente acquoso, ora, non è più per "la pulitura bensì per il trattamento" di opere policrome. Lo stesso cambiamento avverrà per le nuove edizioni, attualmente in elaborazione, dei volumi compagni di questo titolo: la trilogia L’Uso degli Enzimi nella Pulitura di Opere Policrome, L’uso dei Solventi Organici nella Pulitura di Opere Policrome e L’uso di Tensioattivi e Chelanti nella Pulitura di Opere Policrome.

    A motivare questo cambiamento, innanzitutto, è importante mettere in luce che questi materiali, ed i corrispondenti metodi, possono servire anche a compiere operazioni più strutturali, come la rimozione di adesivi, in particolare per i dipinti mobili sul recto e sul verso; operazioni che nulla hanno a che vedere con il recupero/miglioramento di un’immagine pittorica, cioè il tradizionale scopo della cosiddetta pulitura.

    Ma c’è un’altra ragione, ancora più importante: è tempo di maggiore chiarezza, che deve partire da maggiore precisione terminologica. Il termine pulitura, infatti, è troppo generico, e viene usato indifferentemente per descrivere operazioni che sono finalizzate appunto a migliorare la percezione di un’immagine pittorica che si ritiene alterata dalla presenza di materiali che ne compromettono la fatidica leggibilità (preciso che prendo in considerazione principalmente i dipinti mobili ed i manufatti a loro più simili, come le sculture lignee policrome). Sono però operazioni profondamente diverse, con un impatto profondamente diverso sull’opera stessa: si va dalla semplice pulitura di superficie, l’Anglosassone Surface Cleaning, alla vera rimozione (tanto spesso eufemisticamente chiamata assottigliamento) di strati protettivi di vernici, alla ancor più traumatica rimozione di ritocchi o veri e propri strati di ridipinture. Questa confusione, questo indistinto accomunare operazioni così diverse, non dovrebbe più essere lecito.

    Questo cambiamento di titolo riflette dunque l’invito che da tempo vado rivolgendo alla comunità della conservazione: riserviamo il termine pulitura all’operazione che è propriamente quella di pulire uno strato conservandolo il più inalterato possibile, pulirlo dal generico sporco, dal particellato che si è depositato sull’opera in conseguenza di una mancata attenzione conservativa e manutentiva. Pulitura, dunque, intesa solo come Surface Cleaning.

    Le altre operazioni, che coinvolgono la rimozione parziale (!) o totale di materiali filmogeni, pigmentati o meno (leganti pittorici, adesivi, consolidanti, protettivi…), localizzati o con la continuità di un vero e proprio strato, siano chiamate senza false ipocrisie rimozione di materiali filmogeni. Queste operazioni, infatti, non sono più pulire conservando, sono semplicemente rimuovere.

    Si rimuovono materiali che, al di là della ragione per cui sono sull’opera e delle singole valutazioni soggettive, fanno comunque parte dell’opera nella sua condizione attuale. La liceità di questa rimozione sarebbe, di fatto, tutta da discutere…

    A sostegno di questa auspicata differenziazione tra pulitura e rimozione non mi sembra di dover invocare chissà quali principi, derivati da chissà quali teorie. Usiamo semplicemente il buon senso comune. Quello della casalinga, che quando dice pulisco il pavimento, non lo rimuove, semplicemente lo lava! Sono ben consapevole della differenza che intercorre tra un pavimento ed un manufatto artistico, e so di suscitare anche sdegnati commenti con questo paragone, ma lo uso di proposito, e con gusto, per due ragioni: in primo luogo, perché sono profondamente convinto che il lavoro della casalinga e quello del restauratore meritino lo stesso rispetto; in secondo luogo, perché penso che si stia esagerando con questo alone di sacralità dell’opera d’arte, che dovrebbe invece essere semplicemente ricondotta ad un prodotto dell’attività umana, anche se – ovviamente – prodotto di eccellenza. Tanta esasperata sacralità nella società attuale ha semplicemente, secondo me, un’altra faccia, che però è molto più profana: il soldo, il business.

    Mi auguro quindi che siano comprese le motivazioni alla base di questo cambiamento, e soprattutto mi auguro che esse riescano a raccogliere un certo grado di consenso.

    Paolo Cremonesi, Gennaio 2012

    INTRODUZIONE

    L’acqua è l’ambiente in cui ipotizziamo abbia avuto origine la vita primordiale. Forse perché è una sostanza che ci è familiare fin da prima della nostra nascita, e che diventa poi parte della vita quotidiana, tendiamo a considerarla come una sostanza semplice, in un certo senso prevedibile, e di cui c’è poco da sapere oppure si sa già tutto. Sicuramente una sostanza fondamentale alla vita, una sostanza indispensabile nell’equilibrio della natura, e dentro la quale è così bello tuffarsi! Ma è difficile, nella mentalità comune, pensare all’acqua come ad una sostanza capace di attività sulle quali valga la pena di spendere un approfondimento scientifico.

    Inevitabilmente quest’attitudine la troviamo anche nel settore specifico della pulitura delle opere d’arte: considerata appunto come un semplice solvente, quasi banale, dal modo d’azione semplice rispetto ai solventi organici. L’acqua in realtà presenta una straordinaria capacità di svolgere o meno una certa azione a seconda delle caratteristiche delle molecole del materiale da sciogliere (il potenziale soluto). A differenza della stragrande maggioranza dei solventi organici, è come se l’acqua fosse capace di adattare il proprio potere solvente alle caratteristiche chimico-fisiche del soluto.

    L’acqua come tale ha un intrinseco potere solvente nei confronti di composti ionici, come i Sali, e di certe sostanze filmogene che definiamo appunto idrofile: materiali proteici, come le Colle animali, e materiali polisaccaridici come le Gomme vegetali (Figura I.1).

    Figura I.1 Zona di solubilità delle sostanze filmogene idrofile.

    I numeri corrispondono ai solventi indicati in Tabella I.1. I dati sulla solubilità sono presi da Horie [1]

    Tabella I.1

    Quando poi la sola acqua non ha efficace potere solvente, si può ricorrere a soluzioni acquose. In altre parole, all’acqua possiamo aggiungere certe attività, che possono estenderne il potere solvente ad un panorama molto più vasto di materiali solidi. Precisamente,

    •  aggiungendo Acidi o Basi, cioè modificando il pH dell’acqua, la mettiamo in grado di svolgere azione ionizzante/dissociante, e quindi solvente, nei confronti di materiali che abbiano carattere acido o alcalino;

    •  aggiungendo Complessanti o Chelanti, rendiamo l’acqua capace di sciogliere Sali e composti altrimenti insolubili;

    •  aggiungendo Tensioattivi, diamo all’acqua la capacità di emulsionare liquidi con essa immiscibili o disperdere solidi in essa insolubili.

    •  aggiungendo Enzimi, rendiamo la soluzione acquosa un vero reagente idrolitico, capace cioè di scindere legami Carbonio-Ossigeno (-C-O-) o Carbonio-Azoto (-C-N) contenuti, rispettivamente, in Esteri, Glucosidi e Ammidi, formando frammenti molecolari più facilmente idrosolubili.

    Queste sono dunque le possibilità dell’acqua e delle soluzione acquose. Pensando al restauro di manufatti storico-artistici di varia natura, queste divengono concrete possibilità di intervento per compiere l’operazione generalmente definita pulitura.

    È ormai tempo di adottare una terminologia meno ambigua, visto che pulitura è indifferentemente usato per indicare operazioni profondamente diverse tra loro, e con un rischio di impatto sull’opera profondamente diverso. Con maggiore precisione, iniziamo dunque a chiamare:

    •  pulitura la semplice (non certo dal punto di vista della complessita!) rimozione dello sporco di deposito dalle superfici;

    •  rimozione di sostanze filmogene, l’intervento su strati filmogeni applicati con diversa funzione (vernici e strati protettivi, residui di adesivi e consolidanti, ritocchi e ridipinture). Per quanto riguarda l’aspetto materiale dell’intervento è assolutamente irrilevante quale funzione queste sostanze filmogene svolgano nella/sulla opera, visto che si tratta comunque di sostanze filmogene, pigmentate o meno.

    Il ricercatore Statunitense Richard Wolbers a partire dagli anni ’80 del secolo appena trascorso ha sviluppato in modo sistematico il metodo acquoso per la pulitura delle opere policrome mobili [2]. Le soluzioni acquose in certe situazioni possono essere complementari al più tradizionale uso dei solventi organici, ma in certe occasioni possono addirittura rappresentarne un’alternativa. In questi casi, risolvono con eleganza il problema del rischio di tossicità associato all’uso dei solventi organici e si connotano anche come metodi di intervento più selettivi e a più basso impatto per l’opera.

    Lungi dall’essere applicabili sempre ed in maniera acritica, e lungi dall’essere intrinsecamente privi di rischio per l’opera, i metodi acquosi offrono comunque all’operatore un maggior numero di parametri, rispetto ai solventi organici, attraverso cui la loro azione può essere controllata e adattata alle caratteristiche specifiche dell’opera in questione. Il parametro forse più importante, in assoluto, è il valore di pH. Non è troppo lontano dalla realtà affermare che il pH delle soluzioni acquose è il parametro che ci permette di decidere cosa vogliamo fare di un certo strato filmogeno: pulirlo e conservarlo, oppure rimuoverlo.

    Questo testo affronta dunque l’uso delle soluzioni acquose in operazioni di pulitura di opere policrome e di rimozione di sostanze filmogene, con particolare attenzione proprio agli Acidi e alle Basi. Altri volumi di questa collana hanno già affrontato la trattazione dei Chelanti, dei Tensioattivi e degli Enzimi, e questi argomenti saranno dunque solo richiamati in questa sede.

    Un’osservazione pratica. Il testo che compare su sfondo grigio è inteso come approfondimento dei concetti spiegati, ad un livello un poco più scientifico, e può essere ignorato ad una prima lettura senza compromettere eccessivamente la comprensione. Per non spezzare troppo la continuità del testo, tre approfondimenti più consistenti sono stati scorporati

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