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Il passo perfetto: Cammino di Santiago
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Il passo perfetto: Cammino di Santiago
E-book342 pagine4 ore

Il passo perfetto: Cammino di Santiago

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Info su questo ebook

Mille chilometri a piedi, dai Pirenei all’Oceano Atlantico.
Il Passo Perfetto è il diario (dal bordo) di un trentenne inquieto, sulla rotta di Santiago de Compostela. Cosa succede quando una mente naturalmente confusa si trova a camminare così a lungo per una via considerata sacra? 
È possibile incontrare l'amore della propria vita durante il Cammino? È possibile trovare il passo perfetto e risolvere ogni problema? Dal bordo Nicola osserva la realtà muoversi di pari passo con i suoi piedi.
Il Passo Perfetto è una discesa tragicomica verso gli inferi della mente, descritta con grande sincerità e auto-ironia. Una denuncia esilarante della società in cui viviamo, vissuta un inciampo dopo l’altro da un pellegrino inopportuno, nascosto tra i molti che ogni anno affluiscono verso Santiago.
È un viaggio di ricerca carico di incontri straordinari e di insidie pronte a colpire. Una storia sospesa tra una tanto ricercata spiritualità e la sua negazione.
“Non c’è nessun posto dove arrivare e comunque ci si arriva lo stesso”.
Quindi ci vediamo dall'altra parte.
LinguaItaliano
EditoreIl Prato
Data di uscita17 nov 2014
ISBN9788863362640
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    Anteprima del libro

    Il passo perfetto - Nicola Artuso

    Diario dal bordo

    Primo tempo

    1

    Sto per partire per il Cammino di Santiago spinto dall’idea di trovare il Passo Perfetto.

    Si parla di un migliaio di chilometri, dai Pirenei all’oceano Atlantico, da fare a piedi.

    Ciò che mi spinge a partire è anche la curiosità, o meglio il desiderio di immettere il mio corpo in un sentiero percorso per mille anni da esseri umani mossi dalla fede.

    Più si avvicina l’ora della partenza più mi chiedo quale sia stata la vera motivazione di questi milioni di pellegrini che, per secoli, hanno abbandonato la sicurezza dei propri villaggi per affidarsi a un tragitto carico d’insidie, pericoli e disagi di vario genere quali cani rabbiosi, briganti, intemperie, disastri naturali e non ultime guerre di religione.

    Fede? In che cosa? Perché tanto interesse per un sentiero di sassi, polvere e odore di sterco di animale?

    Leggendo alcune brevi cose sul Cammino ho sentito citare questa figura mitica del pellegrino antico che, armato di coraggio da vendere, si è spinto fino alle oscure foreste della Galizia arrancando sui sentieri rocciosi e guadando i fiumi. C’è un fiorire di letteratura specifica su questo tema che tende a mettere in relazione l’antico pellegrino con il pellegrino di oggi. A mio avviso va fatto un distinguo di tipo tecnico che, anche se non cambia i termini della questione o il risultato finale, pone le dovute separazioni tra presente e passato.

    Punto primo: i piedi. L’antico pellegrino viaggiava verso Santiago dopo essere partito dalla propria città di origine, scalzo o con addosso dei calzari fatti di cuoio intrecciato e legno. E poi, una volta giunto a destinazione, a meno che non fosse dotato di poteri magici, doveva affrontare il viaggio di ritorno per la stessa strada da cui era venuto e tassativamente sempre a piedi!

    Punto secondo: il tempo. Quello che per noi è un viaggio al massimo di un mese per questi signori era un’operazione di qualche anno e non dava quasi mai la certezza del ritorno. Partire per un viaggio del genere voleva dire consegnarsi alla vita e lasciare che il proprio destino potesse compiersi senza più di tanto interferire.

    Terzo e ultimo punto: i soldi. Noi abbiamo scarpe da trekking con la suola in vibram, sacchi sintetici, tecnologie ultraleggere per far fronte a tutte le evenienze fastidiose e, non ultime, almeno due carte di credito al sicuro nel marsupio ascellare. Quindi, se dovesse succedere qualcosa di strano… voilà! Un festoso aereo dell’Iberia ci riporta a casa nel giro di mezza giornata e il problema è risolto.

    Gli antichi pellegrini invece viaggiavano con una sacca in spalla con dentro poco niente e dovevano giorno per giorno elemosinare cibo, acqua e quant’altro necessario. Quindi le differenze tra noi pellegrini tecnologici e loro ci sono eccome e qualsiasi paragone non può che scontrarsi con questa realtà dei fatti.

    In ogni caso, il perché tutta questa gente si sia indotta a fare una follia del genere rimane. E mi chiedo: cosa stavano cercando quei pellegrini di allora? Cosa stanno cercando quelli di adesso? Che cosa? In fondo io la mia ragione ce l’ho e mi è abbastanza chiara, ma la loro qual era? Qual è?

    Personalmente la parola fede non mi soddisfa abbastanza e parto anche con l’idea di trovare una risposta a quest’ultima domanda.

    Conosco gente appassionata di statistica che perderebbe qualche buon week end in calcoli assurdi nell’intento di individuare il numero di passi di un uomo in una vita.

    Conosco gente sana che dentro è follemente malata e gente che passa per malata, ma che dentro è perfettamente sana.

    Questi calcolatori di cui parlo appartengono senz’altro al primo insieme e non è detto che io non ne faccia parte.

    Immagino che in circa un mese di viaggio avrò molto tempo per pensare a questa cosa dei passi che un uomo fa in un vita.

    Se fosse possibile, per esempio, desumere dal numero di passi di un uomo in una vita il risultato in termini di successo personale, esperienza, salute…

    Che ci sia una relazione tra queste cose e il semplice pellegrinare?

    Quanti passi fa un uomo in una vita? Quanti passi fa una nazione in un secolo?

    E’ un affare intrigante che mi induce ad azzardare l’ipotesi che in circa 1000 km potrei spendere la modica somma di 3.300.000 passi.

    Il conto naturalmente è semplicistico e parte dal presupposto che un mio passo medio sia di circa 30 centimetri virgola 33 periodico.

    A vederli così, letti su di un foglio bianco, tremilionitrecentomila passi non sembrano poi così tanti, ma credo che a farli uno dopo l’altro li si senta tutti.

    Se fosse stato per me sarei andato in Thailandia a visitare i templi del Nord, dove da secoli vengono venerati santi di antichi lignaggi che si dice abbiano raggiunto, in vita, la fine di un eterno peregrinare in favore di un amore incondizionato e duraturo.

    Se fosse stato per me…

    Ma la vita però mi ha abituato a non tenere più di tanto conto di cosa faccia per me e, sempre più di frequente, mi impone scelte che non ho minimamente preventivato, organizzandomi condizioni dell’ultima ora che poi mi trovo a dover gestire in fretta e furia. Come un’eterna prova di presenza.

    Le cose sono andate così: stavo preparando, in tutta tranquillità, il mio viaggio in Thailandia. E mentre ero lì lì per acquistare il biglietto d’aereo ho ricevuto, in sequenza, prima una diffida a procedere verso oriente e poi un invito a recarmi verso ponente. Le proposte sono giunte quasi contemporanee, da due persone per nulla simili tra di loro. Comunque due donne.

    A diffidarmi dal viaggiare verso la Thailandia fu Gabriella, amica di lunga data, girovaga di professione e valorosa sperimentatrice delle febbri tropicali del terzo mondo.

    Quando le chiesi consigli sulle zone più interessanti da visitare mi rispose con un’e-mail dove diceva che andare in Thailandia in agosto è proprio da idioti perché significa sfidare i virus monsonici che «hanno la carlinga di ghisa e ti infettano anche i coglioni…»

    Di fronte ad una dichiarazione del genere sfido chiunque a non rivalutare la questione da cima a fondo.

    «Perché, non lo sapevi?»

    - No.

    «L’ignoransa non xe mai bastansa….»

    A invitarmi a procedere verso la Spagna fu invece una seconda amica, Marilina, donna di tutt’altro stile rispetto alla precedente, che con un primo messaggio essemmesse mi disse di essere in procinto di organizzare una vacanza a piedi per gente senza troppi problemi di agio e di fiato

    Con un secondo sms Marilina disse ancora che, se volevo, potevo legarmi alla comitiva e partire con loro verso i primi di agosto.

    Fu lei a inserire per la prima volta dentro alla mia testa quel nome.

    E’ vero che l’ignoranza in certi casi non è mai abbastanza, ma in tutta sincerità non pensavo che il mio caso fosse così grave.

    Ho ancora perfettamente chiaro il suono del campanello d’allarme che si accese dopo aver letto sul display del telefonino il fatidico nome: Cammino di Santiago de Compostela.

    - Che è?

    Il ritmo della sequenza diffida/proposta era stato sincronico e io, che di mio sono sensibile ad ogni forma di condizionamento che provenga dall’esterno della mia testa, ancora prima di rispondere al messaggio e senza sapere nulla in proposito avevo già deciso.

    In fondo, il consiglio di Gabriella non lasciava spazio ad alcuna alternativa valida e in più la proposta di Marilina si adattava perfettamente a un terzo invito, ma questa volta di un uomo, Javier.

    Javier era uno studente spagnolo in procinto di laurearsi in Italia. In quel periodo si stava preparando per tornare in Cantabria per passare le vacanze in compagnia della madre. Il suo invito consisteva nell’accettare un passaggio fino alla Spagna e passare qualche giorno come ospite a casa sua.

    Insomma, visto che gli inviti per ponente erano tre, mentre per l’oriente meno di uno, in mezz’ora ho deciso di abbandonare il viaggio nella terra del Tao in favore di uno dei più importanti pellegrinaggi della cristianità.

    Perché ‘sta cosa?

    Il mio progetto di viaggio in oriente, infatti, era nato dalla necessità di visitare, in condizioni pellegrine, un luogo dove il cattolicesimo non avesse messo radici negli ultimi duemila anni.

    Più che altro per vedere com’é…

    Non posso dire di essere uno che ha viaggiato molto (in questi ultimi vent’anni ho investito più denaro in benzina senza piombo nei distributori cittadini che in viaggi oltreoceano), ma in ogni caso, tutte le volte che ho viaggiato senza l’opzione se fosse stato per me mi sono sempre ritrovato in luoghi di culto cristiano e in particolar modo di tipo cattolico.

    Senza polemizzare sul fatto che provengo da una famiglia piuttosto credente in questo senso, di preti e compagnia cantando, credo di averne fatto il pieno nel corso dei primi tredici anni di vita. E comunque, nei successivi ventitre, ho vissuto l’estremismo cattopolitico giorno per giorno, in prima fila come spettatore di fronte all’orrore dei telegiornali monouso, la politica d’attrazione, la show-war e, why not?, la religione spettacolo, con tanto di celebrazioni domenicali comprese nel prezzo (della pubblicità)…

    Senza polemizzare su questi e altri fatti caratteristici del Bel Paese se posso, adesso, vorrei evitare di sentire predicare bene e razzolare male per le prossime trequattrocento vite future. Mettiamola così…

    Dopo, sono anche disposto a valutare nuovamente l’ipotesi, ma…

    - Mi faccio sentire io, grazie!

    In tutto l’affare del viaggio che avevo deciso di intraprendere l’unica cosa veramente chiara era che del Cammino di Santiago in sé ne sapevo meno di zero. Ma nel contempo sapevo che quello era il posto giusto, il viaggio giusto, la cosa giusta da fare in quel preciso istante di spazio tempo. Basta.

    Ci sono delle cose che si sanno e basta perché ti sono dentro da sempre!

    Di fronte a una simile affermazione, persone che conosco che vivono alla grande grazie al business della New Age, commenterebbero:

    «Le hai dentro perché ci sei già stato nella vita precedente!»

    Ma va a cagare…

    Lasciando perdere questi quattro visionari modaioli e parlando di cose serie credo che una simile affermazione vada spiegata in modo chiaro.

    Ci sono delle cose che si sanno e basta, punto.

    Non sono in grado di accertare se dipendano da vite precedenti o future, ma di certo so che il Cammino di Santiago è proprio una di queste: un affare che ho già dentro.

    Per contro, il giudizio di mia nonna era stato fatale:

    «Sfrutare e vacanse pa camminare on pasto xe proprio da ebeti seto…»

    Traduco dal dialetto padovano: sfruttare le vacanze per camminare così tanto è proprio da idioti sai…

    Va detto che se mia nonna ha cento anni suonati non è un caso.

    Va aggiunto inoltre che, se è viva e gode di ottima salute fisica e mentale, di certo é anche dovuto al fatto che ha sulla scorza i segni di due guerre mondiali come spettatrice, in un caso, e quelli dell’attivismo partigiano nell’altro.

    Va detto ancora che, se si trova in questo stato miracoloso, è senz’altro perché la sua praticità in senso non lato le ha dato una grossa mano. Mia nonna è una persona che dall’alto della sua longevità non ha più niente da perdere. E il suo ragionamento pratico, comunque, non faceva la minima piega.

    Se sei in ferie sei in ferie, no? Perché devi farti per forza del male?

    «No te voré miga maearte i pìe vero?»

    Non vorrai mica ammalarti i piedi, vero?

    - Mica è detto che ci si ammali nonna - è stata la mia risposta.

    «Ah, vaeà! Cossa vuto vignerme a contare. Pa forsa te te maii. Tuta chea strada a pìe, te credo ben…»

    Già in partenza sapevo che non avrei potuto spiegarle che a spingermi a fare quella cosa era il mio desiderio di trovare il Passo Perfetto, l’opportunità favolosa di camminare attraverso il silenzio dei boschi, l’idea di tenere la mente inchiodata al respiro, di meditare passo passo, di arrivare un po’ alla volta e inesorabilmente fino al grande oceano, la fine della terra, là dove non si può più camminare e dove il pellegrino medievale pensava fosse il limite del mondo, il baratro, l’inizio del punto di non ritorno, la fine di tutto.

    Non lo avrebbe capito!

    La sua sentenza in ogni caso era stata secca:

    «Se te me scolti mì te sté casa tua!»

    Hai voglia di spiegare…

    Dal giorno della decisione al giorno della partenza mancavano sì e no quindici tacche di calendario. In quella fase perciò ho acquistato lo zaino da dieci litri, la Guida al Cammino di Santiago della Berti Editrice e ordinato gli anfibi ginnici che il mio amico Larry mi aveva consigliato per camminare quando fa caldo.

    «Li usa la polizia antisommossa del Belgio. Puoi sia correre che camminare, non pesano, non sudi e dentro ci stai da Dio. Costano duecento carte allo spaccio della celere, se conosci qualcuno…»

    Non conosco nessuno allo spaccio della celere, però sono molto condizionabile in fatto di consumi. Così, ho chiamato la celere, ma il tizio al centralino mi ha risposto che la Polizia di Stato non è un negozio di abbigliamento.

    - Giusta osservazione Watson!

    Allora sono risalito alla casa produttrice, ma una certa Tamara del centralino mi ha risposto che l’azienda non poteva vendere ai privati.

    «E’ un problema di contratto coi rivenditori…»

    - Chi li vende allora ‘sti cacchio di anfibi?

    «I negozi Caccia & Pesca…»

    - Ah sì?

    Così ho chiamato tutti Caccia & Pesca delle Pagine Gialle fino a trovarne uno che ne aveva un paio di taglia quarantadue, però in magazzino. Doveva vedere.

    Con la scusa di fare un po’ di allenamento, il giorno dopo, ho raggiunto a piedi il negozio Fisher Martin Sas di Andrea Pesce (un nome, un progetto) dall’altro capo della città.

    Dietro una vetrina di mulinelli cromati, il negoziante mi squadra in malo modo. Spiego chi sono e questi cava fuori dal sotto-banco un paio di anfibi in tessuto di cordura, indicati per gare di resistenza nel Sahara, davvero molto belli a vedersi, ma poco adatti all’uso che devo farne.

    Mi è stato detto che in certe regioni della Spagna piove spesso e tremo all’idea di dover macinare chilometri con i piedi fradici.

    Assieme al negoziante guardiamo il catalogo della casa produttrice dove individuo il modello che ho visto addosso a Larry: metà cordura e metà di qualche materiale impermeabile che assomiglia a pelle. Pesce dice che ci vuole almeno una settimana per farli arrivare da Treviso e io, pur sapendo che tra sette giorni esatti devo partire, decido comunque di rischiare. Così pago l’acconto e me ne vado.

    Una delle indicazioni che la Guida Berti sottolinea fin dalle prime pagine è di non affrontare una camminata così intensa con un paio di scarpe nuove, ma io ormai mi sono convinto che senza quegli aggeggi non posso partire e me ne frego altamente.

    Nel frattempo acquisto anche un paio di sandali tecnici, con tanto di suola in vibram, che userò solo per fare la doccia nei rifugi la sera e che durante il giorno terrò appesi all’esterno dello zaino.

    Quando arriva il giorno della partenza sono la persona più organizzata del mondo. Zaino con sette chili tra sacco notte, calzoni di ricambio, tre paia di mutande, due di calzini, un paio di canotte, asciugamano, maglione, sandali e, naturalmente, gli anfibi ginnici della polizia antisommossa del Belgio addosso.

    Partiamo alle sei di mattina con la Seat Ibiza di Javier stracolma di valigie. Siamo io, lui, Samantha, la sua ragazza di Foligno che dice scioé invece di cioè e Jordy, un ragazzo che studia medicina in Italia e che crede di fare peccato ogni volta apre bocca, perciò non parla.

    I primi ottocento chilometri li trascorro sul sedile posteriore dell’auto schiacciato da una valigia-armadio di qualcuno di loro e dal mio zaino giallo nero.

    Lungo l’autostrada superiamo carovane di automezzi guidati da nordafricani residenti in Francia che trasportano giganteschi bagagli sferici sul tettuccio, stretti da strati di adesivi e di corde.

    A vedere tutte quelle auto in fila una dietro l’altra mi vengono in mente le colonie di formiche che si incontrano nel bosco d’estate e che trascinano, con energia indicibile, porzioni di sottobosco decine di volte superiori sia alla loro stazza che al loro peso.

    Per tutto il giorno attraversiamo le centinaia di gallerie della Costa Azzurra. Verso sera usciamo dall’autostrada per consegnare Jordy, a mo’ di pacco postale, a suo padre che ci sta aspettando in un parcheggio dell’autostrada francese. Dopodiché, liberi di una zavorra umana e di un paio di valigie ingombranti, iniziamo la sfinente ricerca di un motel dove passare la notte. Dico sfinente perché da Toulouse in poi trovare un camera sembra sia un’impresa impossibile. Ci fermiamo a Carcassonne dove scopriamo che c’è una non si sa quale festa che attira ogni anno centinaia di turisti. Il castello medievale, visto da distante, é illuminato a giorno. Ci fermiamo in una decina di alberghi, ma senza successo. La risposta è sempre la stessa: forse in qualche città più avanti, ma qui è molto difficile.

    - Grazie.

    Dopo due ore è notte fonda e noi stiamo ancora guidando (sto guidando). Raggiungiamo esausti una cittadina francese della quale ho rimosso il nome e dopo un lungo girovagare tra tangenziali e avenue circolari individuiamo – finalmente! - un albergo.

    Chiamarlo albergo non è la parola giusta perché si tratta di un hotel malfamato, dove il recchione che lo gestisce ci fa strada fino al quarto piano. La stanza numero 37 è lurida e la moquette è impregnata di un odore denso di umidità (o almeno spero sia solo quella…).

    Faccio notare ai miei compagni che la stanza è priva di armadi, chiaro segno che tra quelle pareti devono soggiornarci solamente ospiti touch and go e comunque senza bagagli.

    La finestra dà su una strada secondaria frequentata da mignotte piene di energia da vendere, appunto…

    Mentre i miei due compagni di viaggio monopolizzano il bagno mi siedo sul davanzale a fumare le ultime sigarette prima di dormire e dalla mia postazione sopraelevata mi trovo a osservare i movimenti dei trafficanti di sostanze che, visti i modi di trasferimento, definirei illegali. Un via vai di ubriachi senza nome si trascinano rasente i muri del vicolo che sta di sotto dando al quadro suburbano il tocco finale. Passa un tizio piangendo e lo spio singhiozzare vicino alla grondaia del motel, proprio sotto di me. Un pensiero sadico uscito dal profondo mi invita a centrare il poveraccio con il mozzicone di sigaretta, per poi ritirarmi nell’ombra della stanza a ridacchiare, ma lo metto a tacere con un no incontrovertibile.

    Come posso essere così bastardo?

    Quando l’uomo passa oltre ne arriva un altro di visibilmente preoccupato che si guarda intorno come se dovesse, di lì a poco, commettere un fottutissimo reato. L’uomo si muove in maniera goffa, appesantito da qualcosa sotto la giacca e trascina i piedi con una strana fretta. Sento che é un’immagine da non perdere e mi fisso ad osservare i movimenti del soggetto. Di lì a un secondo il tizio si infila in una laterale che dà su un muro di mattoni, controllando nervosamente che nessuno lo stia osservando. Una volta in zona l’uomo si avvicina alla parete di uno dei palazzi fatiscenti che lo sovrastano e ci appoggia la fronte. E’ visibilmente ubriaco, ma lo capisco solo in quel momento e scioè: quando inizia a manovrare qualcosa sulla parte bassa, aprendo il davanti della giacca per estrarre dagli inguini un vermiciattolo sensibile alla forza di gravità. Osservo il rivolo di urina che gli cola da sotto le suole. Rispetto alla principale il vicolo è un po’ in salita e il liquido luminoso scorre felicemente dalla sorgente verso il centro della strada. Di tanto in tanto l’uomo stacca la fronte dal muro dando uno sguardo breve alla sua spalla, nel tentativo di tenere a bada la carreggiata.

    Il tempo scorre e l’urina pure.

    Dopo un paio di minuti di quella scena l’immagine prende delle caratteristiche esilaranti, perché l’evacuazione sembra non finire più!

    A posteriori, credo sia stato lì a svuotarsi la vescica almeno cinque minuti o comunque un tempo infinito di cui la mia esperienza personale non ha memoria.

    - Cosa caaa ti eri bevuto: il Mar Caspio???

    Nonostante la giornata sulla groppa non ho per nulla sonno e in più quella scena inconsueta mi ha dato una nuova sveglia. Sento di essere il testimone silente di un evento straordinario: la pisciata più lunga della storia.

    Tento di coinvolgere Javier e Samantha, ma sono troppo cotti e impegnati a controllare le probabili zecche del letto per darmi ascolto.

    Alla fine, quando decido di desistere perché temo possa andare avanti tutta la notte, l’ubriaco finisce di innaffiare il muro del palazzo; con calma naturalmente, ma finisce. Le scrollatine durano un altro paio di minuti e poi, dopo aver dato una breve occhiata al lago di se stesso, si rimette in cammino visibilmente più leggero nei movimenti di quand’era arrivato. Prima di perderlo di vista per sempre, lo scruto immettersi nella principale della principale, come se niente fosse, e confondersi tra la folla di disastrati e puttanieri.

    Un genio, penso srotolando il sacco di tela.

    E il primo giorno finisce così.

    Incrociando le gambe sul cuscino e socchiudendo gli occhi osservo il respiro salire e scendere. E poi ricordo a me stesso che il mio viaggio alla ricerca del Passo Perfetto è appena iniziato.

    Del passo naturalmente nemmeno l’ombra, ma per quanto riguarda la pisciata perfetta, come direbbe una signora che conosco, avrei un’arancia da spezzare in favore di uno sconosciuto che probabilmente non rivedrò mai più.

    Poi vado a letto.

    2

    La mattina ci rimettiamo in marcia rinfrancati da caffè olé e svariati croissant a testa.

    Arriviamo a Saint Jean Pie de Port prima di mezzogiorno e pranziamo con una bistecca al sangue, una montagna di patate fritte e birra francese. Sentendomi un quarto Tex Willer e tre quarti Kit Carson mi dirigo all’ufficio del pellegrino per richiedere la credenziale. L’ufficio apre alle 15 e c’è la coda.

    Tra i pellegrini in attesa svettano tre italiani, di Napoli, che tengono banco sparando minchiate in semi-francese. Faccio silenzio per rimanere mimetizzato e passo per tedesco. Quando tocca il mio turno comunico alla volontaria che gestisce le credenziali che viaggio da solo e che intendo partire il prima possibile.

    Della serie: sistematemi subito please.

    La donna mi passa il modulo da compilare con le generalità e la motivazione per cui si intraprende il cammino.

    Con una crocetta siglo l’apposito spazio vicino alla scritta ricerca spirituale e sorrido all’immagine dell’esperto di statistica della curia di Santiago impegnato ad analizzare i dati dei moduli. 6850 sport, 5432 voto religioso, 1300 ricerca spirituale, 3410 curiosità, ecc.

    Noto che il questionario non contempla la motivazione scientifica e lì per lì penso che se ci fosse stata avrei siglato proprio quella.

    Dal mio punto di vista, essendo mosso da un’intuizione e non sapendo bene di cosa si tratti, il Passo Perfetto è un qualcosa che sta in mezzo tra la ricerca spirituale e quella scientifica.

    Sembra però che la burocrazia di queste parti non lo preveda.

    Fa lo stesso…

    Pago la tassa e faccio per andarmene.

    «Per dormire a Hunto bisogna prenotare – dice la donna - Tu l’hai fatto?»

    Scuoto la testa.

    «Non c’è problema, fa lei, chiamo io. Speriamo ci sia posto…» e prende in mano il telefono.

    Hunto è il primo ostello privato che si incontra andando verso Roncisvalles e… «Il posto c’è!» esulta la donna.

    «In agosto non è facile trovarlo, sai …»

    E’ una signora simpatica, con gli occhialini senza montatura da suora laica e irradia una gentilezza molto umana.

    «Per Hunto ci vogliono due ore… – dice ancora - Ti aspettano per le sette. Buon cammino pellegrino!»

    La saluto alzando una mano e con uno strano nodo in gola; esco in strada con un pezzo di cartoncino pieghevole in mano e i tre napoletani che mi guardano in modo strano.

    Tra me e me penso che ormai non c’è più niente da fare e che é arrivato il momento di partire davvero. Basta scherzare…

    Dall’altra parte del paese, nella piccola piazzola dove inizia il cammino tradizionale, saluto con un abbraccio Javier e Samantha; riempio la bottiglia alla fontana, mi chino a baciare il suolo e sempre con lo stesso nodo in gola mi metto in cammino!

    Dopo una ventina di passi mi giro per salutare ancora i due ragazzi e li vedo fermi lì, in mezzo alla piazzola, con le braccia sventolanti come i drappi di una sagra.

    - Ci vediamo dall’altra parte! - urlo nella loro direzione.

    Siamo d’accordo infatti che tra circa una trentina di giorni verranno

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