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La mia Ipazia
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E-book713 pagine11 ore

La mia Ipazia

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Di Ipazia la Storia ha conservato solo poche righe; quello che sappiamo è che era una donna di rara

intelligenza: fu infatti filosofa, astronoma e matematica eccellendo in tutte e tre le branche del

sapere.

Sappiamo anche che fu una figura autorevole, come dimostrano il tono delle lettere che Sinesio, suo

discepolo ad Alessandria e poi Vescovo di Tolemaide di Libia e il fatto che Ipazia, una donna,

potesse tenere lezioni a un gruppo di giovani maschi del IV secolo

E per ultimo che fu una donna affascinante.

Non abbiamo niente che ci possa aiutare a capire quale fu la sua dimensione umana, perché non è

arrivata a noi alcuna opera.

Questo romanzo segue Ipazia dal suo arrivo nel XXI secolo fino alla sua trasformazione da

scienziata del IV secolo a donna del XXI secolo.
LinguaItaliano
Data di uscita19 apr 2023
ISBN9791221445947
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    Anteprima del libro

    La mia Ipazia - Amila Paizai

    Arrivo ad Alessandria

    Un lampo di luce giallastra mi colpisce; istintivamente chiudo gli occhi per proteggerli, ma anche così la luce intensa è fastidiosa. Dopo qualche secondo il bagliore si attenua e posso riaprirli. Sono immerso in un paesaggio del tutto nuovo: sono circondato da basse dune sabbiose, qua e là costellate di piccoli cespugli spinosi di color verde marcio che fanno l'effetto dei pois in una stoffa; spira un vento leggero e la temperatura in queste prime ore del mattino è gradevole. Il cielo appare immenso, una distesa azzurra sconfinata della quale neanche una nuvola rompe la solenne monotonia. Tutt'intorno regna il silenzio, un silenzio così profondo da sembrare irreale, un silenzio di una intensità che nel XXI secolo non ho mai sperimentato; non so se si possa chiamare deserto, ma al deserto, come me lo figuro io, somiglia. Mi assale l'ansia, sono in una regione nella quale non sono mai stato prima e anche se ci fossi mai stato, in un tempo così distante dal XXI secolo nulla mi sarebbe familiare; non parlo la lingua del posto, non conosco gli usi e i costumi se non per l'infarinatura che mi sono fatta studiando, sono in un mondo violento nel quale per essere uccisi basta molto meno che essere stranieri... Ma in che impresa mi sono cacciato? Ho voluto fare tutto da solo quando per riuscire a sopravvivere qui ci vorrebbe un'equipe di esperti.

    In quel momento di disorientamento tutto mi sembrava ostile, anche il silenzio! L'enormità di quanto avevo fatto mi paralizzava, non riuscivo a decidermi sul da farsi e anche se prima di partire avevo cercato di prevedere ogni mossa, ora tutti i miei piani mi sembravano sbiaditi e inadeguati.

    Mentre mi maledico per la superficialità con la quale ho agito, un formicolio al piede destro interrompe il corso dei miei pensieri; getto un'occhiata cauta e vedo una macchia nerastra che vi zampetta sopra. Lancio un urlo e agito forsennatamente il piede in preda al terrore; solo quando mi calmo mi accorgo che ho spiaccicato un bacarozzo, nome che a Roma affibbiamo a tutti i coleotteri in genere, specie se neri. Mi metto a ridere, ma non ho pietà per l'innocuo animale perché i bacarozzi mi fanno uno schifo formidabile; uno in meno!

    Finalmente mi scuoto dalla paralisi e mi incammino, non prima però di essermi orientato con il sole (la prossima volta porterò con me una bussola, è un oggetto piccolo, facile da nascondere); mi dirigo verso est dove, secondo i miei calcoli, deve trovarsi Alessandria a non più di 10 km dal mio punto di arrivo. E se i miei calcoli fossero sbagliati e la città si trovasse a ovest della mia posizione? O se si trovasse a est, ma molto più lontano? Non avrei scampo perché non ho con me niente per sopravvivere in un posto come questo che se anche non si potesse chiamare deserto, di esso sarebbe almeno cugino. Raccolgo la mia bisaccia, nella quale ho messo solo un po' di pane e un minuscolo otre di pelle pieno d'acqua che tradisce la sua astronomica età solo nell'imboccatura e nel tappo, entrambi di plastica color bianco sporco simile al colore dell'avorio e mi avvio. I miei beni preziosi, i monili da vendere, il taccuino, la matita, il salva-stomaco e la piccola macchina fotografica digitale sono ben nascosti nella sacchetta che tengo legata alla vita sotto la tunica.

    Cammino ormai da molto tempo, credo da più di due ore e ancora niente in vista, solo questa arida pianura, questa distesa di sabbia e sassi con i suoi sporadici cespugli spinosi, nient'altro. Comincio ad essere preoccupato: due ore dovrebbero essere state sufficienti a percorrere almeno 8 km, quindi si dovrebbero incominciare a vedere i segni della vicinanza ad una città della grandezza e importanza di Alessandria e invece niente. Proseguo e finalmente il paesaggio cambia: in lontananza intravedo quella che a me sembra una distesa d'acqua; se è così, stando alla mappa che ho stampato prima di partire e che porto con me, mancano ancora almeno 10 km. Tutto sommato non ho sbagliato il bersaglio di molto, ma speravo di essere molto più vicino; inoltre devo dirigermi verso nord, perché sono più all'interno di quanto pensassi. Spinto dall'entusiasmo aumento l’andatura e anche se non mi trovo a mio agio nella veste lunga di lino, avanzo con passo spedito; la temperatura è accettabile, la leggera brezza e l'assenza di umidità mi agevolano il cammino. Nell'agenzia di viaggio cui mi ero rivolto mi avevano consigliato di partire per l'Egitto in un mese qualunque tra gennaio e aprile: avevano ragione, siamo a febbraio e si sta veramente bene, così bene che mi dimentico del fatto che sono andato indietro nel tempo di circa diciassette secoli e mi sorprendo a sperare che passi una macchina cui chiedere un passaggio; ridacchio tra me e me e cerco di allungare il passo. Finalmente intravedo il mare: la direzione è giusta! Subito dopo aver esultato però penso che vedere il mare non significhi niente, dato che l'Egitto ha un migliaio di chilometri di costa sul Mediterraneo; poi però mi dico che la palude che si intravede è segno che Alessandria non può essere troppo lontana.... Sono preda di pensieri incoerenti e contraddittori. Continuo in direzione NE e incrocio una pista: finalmente un segno della presenza dell'uomo! Mi avvio seguendo il tracciato incrociando le dita per scaramanzia. Davanti me, escludendo questa specie di sentiero lungo il quale cammino, ci sono solo sassi e sabbia e delle balze rocciose che dovrò superare. Non sono alte, ma la roccia di cui sono composte mi sembra poco solida e friabile: dovrò fare molta attenzione, ci manca solo che abbia un incidente! A dispetto però dei miei timori, le rocce sono di un'arenaria molto compatta e solida e il sentiero, per lunghi tratti, è ben visibile; dove si perde la traccia, piccoli cumuli di pietre segnano il cammino indicando la direzione da seguire: un percorso degno del Club Alpino. Pochi passi ancora e sarò sulla sommità; sommità! Un parolone: l'altezza non supera i cinquanta metri, anche se a me sembra di aver fatto una scalata. Sarà la novità del posto o forse la consapevolezza che sono nel passato, non so, ma sono stanco, veramente stanco; prego perché al di là di questa duna rocciosa ci sia qualcosa di concreto, un segno della presenza umana, voglio arrivare alla fine…. Ma che dico, sono solo all'inizio dell'avventura! Finalmente sono alla fine della salita, mi affaccio sull’altro versante: il faro! Mi sento ridicolo perché cinquanta miseri metri mi hanno spaventato con la loro altezza, ma in compenso da qui scorgo in lontananza Alessandria. Sono arrivato; scendo lentamente dalla minuscola altura, non perché il sentiero sia ripido ma perché ho scorto delle persone; strana la psiche umana, dopo ore di cammino e incertezza su dove fossi anelavo di incontrare un viandante che mi potesse aiutare e ora che non avevo più dubbi, avrei desiderato non incontrare nessuno. Probabilmente ero condizionato dalla conoscenza della storia, forse dalla solitudine che cominciavo a percepire come se avesse una consistenza fisica, forse…. L'unica cosa di cui ero certo è che avevo paura e la paura creava in me fantasmi che non riuscivo ad allontanare.

    Proseguo percorrendo il sentiero evitando di incrociare lo sguardo degli altri viandanti, che mi sembra stiano aumentando di numero con ritmo impressionante. Vado avanti e giungo in prossimità di una distesa d'acqua enorme, la cui superficie potrebbe gareggiare con i nostri laghi, impensabile in un paesaggio semi-desertico. Il sentiero piega a sinistra e lascia il lago alla sua destra; ho l'impressione che sia vivo e mi guardi beffardo come se avesse capito e dipanato tutti i miei preconcetti circa il grado di civiltà di questo secolo, preconcetti che mi hanno accompagnato fin qui. Come se si facesse beffe della mia paura acuta e sorda, una paura incomprensibile perché non c'è niente che mi minacci, mi guarda sornione con uno sguardo carico d'ironia. Ma non è l'unico: anche le persone che incrocio mi osservano perplesse; perché quegli sguardi? Forse ho sbagliato abbigliamento: non vedo nessuno che indossi una veste di lino candida come la mia.

    ‘Forse mi scambiano per un pagano’, penso preoccupato, ‘o forse si vede a colpo d'occhio che non sono di qui….’. Da questi dubbi traggo la conclusione che la mia preparazione al viaggio, così meticolosa per alcuni aspetti, per altri sia maledettamente carente. Mi scuoto e mi accorgo che il Faro è davanti a me sulla sinistra, molto lontano ma imponente nonostante la distanza. ‘Ma come hanno fatto?’. Mi fermo e guardo stupito quella che anche nel XXI secolo sarebbe una costruzione capace di lasciare a bocca aperta e accelero il passo: all'improvviso ho fretta di arrivare, sono curioso di vedere la città e dimentico la paura e il dolore ai piedi. Non sono abituato a camminare per così tante ore con questa imitazione di sandali che permettono a sabbia e sassi di diventare una vera e propria tortura..... Oltre che fifone, mi sto scoprendo anche un po' piagnucoloso. Sorrido di me stesso; sono tutt'altro che un superuomo e decido di cambiare registro, in questo aiutato dall'entusiasmo che la vista del Faro ha suscitato in me. Basta con dubbi e paure!

    Da quel momento non distolsi più lo sguardo da quella costruzione sbalorditiva che man mano che mi avvicinavo diventava sempre più maestosa e incredibile; il mal di piedi era un vago ricordo, solo la paura faceva capolino ogni tanto quando avevo l'impressione che qualcuno mi guardasse con troppa insistenza, ma riuscivo a controllarla.

    Sono in prossimità delle mura della città, anch'esse sono imponenti e suscitano meraviglia; tutto sembra celebrare la potenza e la magnificenza del fondatore e dei suoi eredi. Ma invece di essere conquistato, la vista di queste grandi opere sopravvissute nel ricordo ai loro ignoti artefici mi riempie di tristezza: la vita dell'uomo è un episodio meno che infinitesimale nell'economia dell'universo, e questo vale per i potenti e per i miseri, per gli eroi e per i vigliacchi…. E per queste meraviglie: cosa ne è rimasto di esse? Cammino senza fretta, due guardie armate controllano la porta che si apre nelle mura, non voglio passare in mezzo a loro da solo, allora rallento ancora il passo per farmi affiancare da un gruppo di persone e con loro faccio ingresso in città attraverso la porta est, il cui aspetto massiccio è ingentilito da un arco decorato con bassorilievi. Sicuramente l'arco è un'aggiunta romana, ma è bello e alleggerisce la struttura altrimenti pesante delle mura e le rende più snelle. Una volta all'interno, mi stacco dal gruppo e proseguo da solo; davanti a me si distende un viale rettilineo di larghezza notevole, a occhio almeno trenta metri, forse qualcosa di più; c’è un gran via vai di cavalli, carri e pedoni, deve essere la via Canopica. Ambedue i lati sono costeggiati da porticati che si sviluppano per tutta la sua lunghezza (circa 4 km, se la memoria non mi inganna). Trattengo il fiato per l'emozione che provo di fronte a tanta magnificenza e mi fermo; vorrei scattare una fotografia, ma non è prudente, c'è troppa gente; desisto e prosego a passo veloce. Ho memorizzato la mappa della città e mi aspetto di vedere tra non molto la Biblioteca sulla mia sinistra; a quel punto avrò percorso un po' meno della metà di questo lungo viale, in fondo al quale è il quartiere ebraico, la mia meta. Cambio il passo e procedo tranquillo per gustarmi questa insolita visita: noi siamo abituati a visitare le città antiche nello stato di rovine, non a esservi immersi quando sono ancora 'vive'. È un'esperienza incredibile, non solo perché la città è affascinante pur nella sua decadenza, ma anche per lo shock che provoca l'assenza di qualunque cosa che sia familiare. Nelle mie peregrinazioni intorno al mondo, anche nei luoghi più remoti come il cuore della Cina rurale pre-boom industriale o il Brasile più remoto o le micro-cittadine perse nella giungla del Laos, dovunque io sia andato non ho mai provato la sensazione di essere al di fuori del mondo anche se spesso tale consapevolezza proveniva unicamente dalla presenza dell'ubiquitaria lattina di Coca-Cola. Qui, al contrario, la mia estraneità a tutto quanto mi circonda è evidente: niente di quello che vedo mi riporta al mio secolo di appartenenza; qui, nell'Alessandria del IV secolo dopo Cristo sono solo e niente mi è familiare.

    L'enormità di questo pensiero mi colpisce come una mazza e vengo preso da angoscia; ancora una volta mi chiedo come mi sia venuto in mente di imbarcarmi in questa follia. Mentre rimugino su quanto ho fatto, arrivo all'altezza della lunga strada rialzata che collega l'isola di Pharos alla città; l'Heptastadium è a un isolato dalla via Canopica e mi dirigo rapidamente verso di esso: lungo più di un chilometro è un'imponente barriera che isola completamente l'enorme porto dal mare. Seguo da vicino un gruppo di persone che si dirige verso la porta delle mura che immette sulla lunga strada e ne percorro un buon tratto. L'imboccatura del porto è così angusta che ho l'impressione di trovarmi sulle rive di un enorme lago piuttosto che di fronte a un tratto di mare. Il Faro è davanti a me ieratico e leggero nonostante le dimensioni. Di nuovo ho voglia di scattare una fotografia, ma anche questa volta desisto, troppa gente va e viene e non c'è modo di eclissarmi; non posso rischiare. Torno sui miei passi e riprendo il mio cammino lungo la via Canopica e finalmente mi accorgo di avere un imponente edificio alla mia sinistra, che subito identifico con la Biblioteca.

    ‘Deve essere questa’, penso e non perché l'edificio abbia dimensioni particolari o sia più ricco degli altri, anzi è vero il contrario: tra tanti edifici riccamente decorati e abbelliti da statue e fregi, spicca piuttosto per la sua semplicità composta e per la sua sobrietà. L'ingresso è rialzato rispetto al piano stradale e si accede all'interno mediante una ripida scalinata di marmo i cui gradini sono consumati lungo quello che deve essere il percorso usuale di chi la frequenta. Non ricordo più a quando risale la costruzione e quindi non posso calcolare quanti secoli di 'pedate' abbiano dovuto sopportare le scale, mi colpisce però la profondità del solco, segno che i visitatori sono stati numerosissimi.

    Che tristezza la fine che ha fatto! Se è vero che è stata rasa al suolo e seppellita per motivi religiosi, vederla in piedi in tutta la sua interezza e con il suo carico di Sapienza mi fa pensare alla stupidità umana, che niente ha a che fare con Dio e con i Suoi desiderata; decido di entrare.

    L'ingresso angusto non fa immaginare l'ampio cortile nel quale ci si trova una volta varcata la soglia: ha pianta rettangolare, i lati più lunghi sono quelli laterali e creano un effetto di profondità che dà l'illusione che le dimensioni siano maggiori di quelle reali, peraltro già notevoli. Ad esclusione del lato che si affaccia sulla strada, gli altri tre sono fiancheggiati da un portico coperto sorretto da colonne semplici che riecheggiano quelle dei templi di Luxor; al centro un pozzo circolare. Nell'insieme ricorda i chiostri dei monasteri benedettini, ispira pace e raccoglimento, predispone alla meditazione e alla contemplazione del bello; non mi sarei meravigliato se avessi incontrato un monaco assorto in preghiera.

    Mi affaccio appena alla grande porta che dà all'interno, ma la penombra non mi permette di distinguere se non ombre; mi allontano di nuovo e solo ora mi accorgo che l'ingresso è sovrastato da un bassorilievo policromo raffigurante Hathor, che tra le corna sorregge il disco del sole circondato da Uraeus. I colori non sono vivi, il bassorilievo avrebbe bisogno di un restauro, ma molti edifici e monumenti che ho visto finora ne avrebbero altrettanto bisogno. Hathor, dea personificazione della gioia, dell'amore femminile e della maternità. Azzeccata, non potevano trovare niente di meglio per proteggere il luogo destinato a conservare e rendere accessibile il prodotto dell'intelligenza umana: la cultura non fa guerre, non ha la fissazione dell'eroismo e dell'onore maschili, rende felici, ama chi la ama ed è feconda.

    ‘Bravi’, penso tra me e me e per la prima volta da quando sono arrivato mi sento perfettamente a mio agio. Mi guardo intorno attentamente: è strano che nel cortile non ci sia neanche una statua, all’inizio ho pensato che fossero state distrutte, ma non ci sono tracce di basamenti: la cultura non ama i fronzoli e si nutre dell’essenziale.

    Esco dalla Biblioteca e mi rimetto in cammino, non voglio perdere troppo tempo, voglio arrivare rapidamente nel quartiere ebraico, che è ancora molto distante. Percorsa un po' più della metà del viale, imbocco a sinistra una via che incrocia perpendicolarmente la Via Canopica e mi dirigo verso il molo ovest del porto, per raggiungere il punto più vicino al Faro; voglio riuscire a vederlo bene perché non mi fermerò a lungo qui, il tempo di concludere la mia missione (parola altisonante, ma se riuscirò nel mio intento di salvare le poesie di Saffo non esagerata) e non so se avrò il tempo, la voglia e soprattutto l'entusiasmo che ho ora. L'accesso è purtroppo interdetto da un manipolo di soldati dall'aria tutt'altro che raccomandabile che impediscono di avvicinarsi. Sono stato troppo ottimista, il palazzo reale e il tempio che sorgono proprio in quast’area sono off limits. Ritorno sui miei passi e riesco ad arrivare al mare nel punto in cui sorge il Timonium. Non c'è molto spazio a disposizione, ma il faro è abbastanza vicino e si riesce ad apprezzare qualche particolare della costruzione; da qui la pianta ottagonale del secondo livello è evidente, avrei dovuto accorgermene immediatamente date le dimensioni e invece mi era sembrato che fosse cilindrica. Nessuno sembra curarsi troppo di me: devo avere l'aria inebetita di tutti quelli che per la prima volta osservano questo colosso e sono quindi ben mimetizzato tra la piccola folla di 'turisti' che si accalcano a osservare. Strana folla, senza Cinesi né Giapponesi, né macchine fotografiche, né pullman, né paninari! In compenso i pretoriani sono veri, con tanto di gladio macchiato di sangue... Non è vero, questa è una stupidaggine che mi è balenata nella mente mentre mezzo imbambolato mi godevo la vista di questo capolavoro che non stento a definire un'opera d’arte. Per una strana associazione di idee, mi viene in mente un colosso della nostra epoca, Corviale, figlio della depravata retorica dell'ignoranza e cugino primo dell'imbecillità più totale. D'altra parte il Faro nasce per essere un'icona della dinastia dei Tolomei, iniziata da uno dei Padri fondatori dell'Ellenismo; Corviale nasce come icona della prima classe politica italiana educata sotto il fascismo, rivisitata secondo i criteri del marxismo-leninismo, ideologia che ama il proletariato ma odia l'uomo, soprattutto nel suo anelito alla libertà e alla diversità. Povera Italia del dopoguerra, paese da incubo con poche eccezioni, troppo poche per diminuirne l'intensità e diventare solo un brutto sogno!

    Magari non tornerò indietro, resto qui per sempre, pensai, ma fu solo un flash.

    Improvvisamente un desiderio folle si impadronisce di me e mi scuote: voglio scattare una fotografia al Faro, almeno una! Mi dico che sono pazzo e sto per rimettermi in cammino, ma mi fermo: non riesco a distogliere lo sguardo da quest'opera immensa. L'emozione mi attanaglia e mi sento soffocare. Inoltre c'è qualcosa che non è in sintonia con le ricostruzioni moderne: la base della lanterna! Se non ricordo male dovrebbe essere circolare, ma a me non sembra tale, vedo una miriade di spigoli, non riesco a contarli, che sia un icosaedro? Non posso essere preciso perché la luce che in queste prime ore del pomeriggio colpisce obliqua la superficie esposta ad ovest ne rende indistinti i contorni, ma questo acuisce in me la voglia di scattare una foto: dare torto agli esperti è una grande tentazione, penso ridacchiando. Mi dirigo verso uno dei lati della piazzetta, non saprei come definire meglio l'area poco popolata che è il mio punto di osservazione e cerco di isolarmi un po'; poi con fare circospetto infilo la mano nel taglio laterale della mia veste, raggiungo la mia bisaccia ed estraggo la minuscola macchina fotografica. Riesco ad accenderla facendo movimenti da goffo contorsionista, mi tremano le mani e quasi non riesco a respirare, il cuore mi batte all'impazzata, ma riesco a puntare la macchina sul Faro e a scattare la foto. Sono perfettamente consapevole di aver fatto una stupidaggine e di aver corso un rischio enorme, ma ormai è fatta, non è successo niente e quindi è inutile angustiarsi. Giuro a me stesso che non ripeterò il gesto! Mi guardo intorno: nessuno si cura di me; sollevato, riprendo il cammino. Il boulevard Canopico (boulevard mi sembra molto appropriato anche se non è alberato) si proietta davanti a me senza che la sua fine sia visibile, imponente testimonianza della grandezza dell'uomo, che quando ci si mette non è poi tanto male! Quando mi scuoto da questo stato di inebetita meraviglia, mi accorgo che i segni della decadenza ci sono tutti: in molti punti il selciato del viale è sconnesso, i muri di numerosi palazzi sono imbrattati dai graffitari dell'epoca e molte statue sono danneggiate. La tensione che pervade la città è tangibile! Ma questa è la città della mia Ipazia, donna tutt'altro che decadente. Il giudizio su di essa diventa oggi una domanda, la domanda di Ipazia: Io cosa posso fare per…..

    Ovviamente questa notazione non fa parte del diario, ma quando ho deciso di seguire Ipazia contro ogni probabilità di successo è anche perché ho capito perché sia tornata indietro e so che devo essere al suo fianco. Il Dio di bontà e misericordia non ha bisogno di un braccio armato per affermarsi, ma ha bisogno di qualcuno che abbia il coraggio di interrompere la catena di odio! La mia Ipazia, la mia Pagana che parla di Lui con dolcezza e discrezione ha deciso che sarà una delle braccia delicate e umane di Dio e io sarò con lei. Con gli occhi di oggi, il lungo viale in parte sconnesso, le colonne danneggiate e le statue monche o insozzate appaiono come una sfida, un rimprovero e la bellezza velata ed offuscata, ma non guasta di questa città mi è evidente e con essa il suo richiamo. C’era proprio bisogno, per sentirsi Cristiani, di distruggere tutto? Non bastava aver pazienza e lasciare questo compito da barbari ad altri? Vivendo con Ipazia i concetti di peccato ed espiazione, che ritenevo acquisiti una volta per tutte, sono definitamente cambiati: ho assimilato i suoi dubbi e le sue certezze di essere umano.

    Quella città che vivevo con occhi velati oggi è un richiamo e la grandiosa eleganza del Faro, le mura possenti di pietra rosata, l'eleganza aristocratica del boulevard Canopico'... sono un'icona della potenzialità umana. Ipazia sarebbe felice di sentirmi parlare così, mi merito l’Ehu stultum più grande che uomo possa ricevere. I volti che mi intimidivano sono ora una sfida, nessuno di loro sembra appartenere agli invasati 'custodi' della ‘vera’ Fede. Ipazia mi ha cambiato nel profondo dell'anima. Soggiogato dalla sua sapienza, mi sono perduto la sua parte più bella. No, non l'ho perduta, l'ho capita in ritardo. Retrospettivamente mi accorgo che quando mi aggiravo per le vie della città ero guardato dalla gente con perplessità più che con acrimonia; forse ero solo buffo nella mia imitazione del cittadino del IV secolo e a costo di ripetermi, sono convinto che la conoscenza della Storia sia ciò che ha condizionato all'inizio le mie reazioni e il mio sentire; Alessandria, quanto non ti ho capito... Quanto non ho capito di te, Ipazia mia!

    Mi si sono aperti gli occhi, ho gli splendidi edifici del Museo e della Biblioteca alla mia sinistra. Tutto è nitido oggi, come era sfocato allora. Nella paura si sono persi i tratti essenziali e più belli delle nostre radici classiche e cristiane: a furia di autoflagellarci, dimentichiamo di ringraziare Dio per quello che ci ha messo a disposizione e per quello che siamo. Quanto ha ragione la mia Ipazia quando sostiene che tra il modo con il quale concepiamo Dio e quello con il quale Lo viviamo c'è uno iato! Quanto è bello questo scorcio dell'alba del Cristianesimo nel quale ancora possiamo inserirci per essere protagonisti della storia! È assurdo, ripercorro i miei passi nelle vesti di una persona diversa da quella che è approdata ad Alessandria, sicuramente più ricca e complessa: sono il frutto del parto della mia Ipazia; tra me e la follia ci sono solo pochi millimetri: sto parlando di Ipazia all'inizio di questo resoconto eppure non la conosco ancora, non conosco nulla della nostra storia... Una storia che aspetta ancora di essere scritta.

    Mi dirigo a passi veloci verso est dove la città finisce, nella zona in cui, stando alla mappa, è situato il quartiere ebraico.

    L’incontro con Ipazia

    Il boulevard Canopico è finito; ho impiegato più di... Quanto ho impiegato? Non ho un orologio con me e non so valutare il tempo; direi almeno 2 ore e mezzo, forse tre. Alla mia destra si intravede un suburbio fatto di stradine anguste e case pressoché addossate una all'altra; nonostante non sia ancora al suo interno, ne sento fuoriuscire un odore forte e acre. A sinistra invece le cose sembrano migliori, le strade sono più larghe, tutte parallele tra loro e le case hanno un aspetto signorile; ho l’impressione che questa sia la parte ricca e l'altra la parte povera del quartiere ebraico. Dove andare? Opto per la parte più popolare e confusionaria, credo che lì sarà più facile mantenere l'anonimato e questo mi basta per mettere in atto la decisione. Mi volto un'ultima volta per guardare la via Canopica, poi le volto le spalle e mi avventuro guardingo. L'odore all'interno è forte, suppongo che qui tutti siano osservanti; possibile che i più religiosi, qualunque sia la loro Fede, debbano sempre puzzare? Che non si riesca a distinguere tra igiene e licenziosità? Il quartiere è un dedalo inestricabile di viuzze per lo più parallele tra loro, tutte uguali, almeno così pare a me, senza nome né numeri civici e non vedo punti di riferimento; orientarmi non sarà facile, non so cosa fare. Disorientato e incerto, mi sono messo a girovagare con passo deciso ma non frettoloso, sperando di trovare prima o poi una bottega nella quale fosse possibile vendere i gioielli. Perché ho scelto proprio il quartiere ebraico? Perché la mia pluriennale esperienza di viaggi mi ha insegnato che se si vuole pagare il giusto senza la pretesa di avere sconti e senza l'illusione fittizia di aver fatto un buon affare, si deve comprare negli esercizi gestiti dagli Ebrei; alla fine, e non temo di essere smentito, con questo metodo si fanno i veri affari.

    Una volta immerso nel variegato mondo dell'ebraismo, l'atmosfera intorno a me cambia totalmente: c'è molto silenzio e i volti delle persone sono improntati a una maggiore gravità che nello scorcio pagano e cristiano dei quartieri che avevo appena lasciato, popolati di persone che non ho saputo distinguere tra loro a dispetto di coloro che sanno sempre trovare differenze basate sulla diversità di cultura! Ho l'impressione che questo silenzio sia un segno di sacralità e mi sento al sicuro, rasserenato dalla sensazione che qui non mi possa accadere nulla di male. Con questo stato d’animo comincio a guardarmi in giro, ma le botteghe sono senza insegne e non riesco a decifrare i minuscoli mosaici o gli affreschi, altrettanto minuscoli, che rappresentano l'attività esercitata all'interno: da povero uomo di scienza quale sono, sono pressoché privo di fantasia e sono un pessimo solutore di rebus. Mi azzardo a chiedere informazioni a un uomo anziano che sta passando e il cui aspetto è quello di una persona mite, una persona dalla quale non ci si può aspettare niente di cattivo; mi sono reso conto in seguito di quanto il ragionamento fosse debole, ma nella situazione in cui ero non c'era altro da fare che fidarsi dell'aspetto esteriore e della ‘prima impressione’.

    Con una certa riluttanza gli chiedo se sappia dove sia possibile vendere dei monili d'argento e lui mi risponde con un semplice: ‘Me sequere’ (Seguimi) e mi conduce in una piccola bottega defilata che non ha niente che la segnali; potevo crepare prima di trovarla! Il vecchio mi fa cenno di aspettare, rimango in disparte ad osservarlo mentre confabula con quello che a me pare un Matusalemme decrepito, prossimo alla morte e pustoloso come se fosse affetto da vaiolo. La mia guida si allontana senza fretta e il vecchio vaioloso (devo confessare che ebbi paura che potesse passarmi una qualche orribile malattia) mi si avvicina, facendomi cenno di seguirlo, ma senza dire una parola. Probabilmente non parlava latino; o forse era muto? O più semplicemente parlare gli sembrava inutile! Mi conduce all'interno di una casa, entriamo in una stanza dall'aspetto pulito, cosa che mi mette a mio agio, e di nuovo mi fa il gesto di aspettare. Gran cosa la mimica e soprattutto gran cosa che nel mondo di cultura greco-latina si sia trasmessa pressoché inalterata! La stanza è povera di arredamento, solo un paio di sedie e un tavolo ed è scarsamente illuminata, almeno secondo gli standard del XXI secolo; prende luce da una finestra di dimensioni così piccole da sembrare piuttosto una feritoia. Mi ci vuole un po' per abituarmi alla penombra e distinguere i particolari.

    Dopo un tempo che mi sembrò lunghissimo, compare davanti a me una persona giovane, a occhio poteva avere trent'anni, che indossa la kippah. Secondo l'immagine che ne dà il più diffuso pregiudizio, un ebreo che vende e compra oggetti preziosi ha necessariamente l'aspetto astuto e grifagno, il naso adunco e gli zigomi pronunciati dello sparviero sempre pronto a succhiarti il sangue. E invece no, quest'uomo giovane aveva un aspetto gentile che ispirava fiducia; aveva occhi incredibilmente chiari, ma la luce scarsa non mi permise di capire di che colore fossero; occhi che uniti alla sua carnagione resa scura dal sole lo rendevano affascinante. Gli mostro i monili dicendo che vorrei venderli; li guarda con attenzione e vedo sorpresa nei suoi occhi: Sono di fattura pregevole, non ho mai visto una lavorazione così perfetta. Da dove vengono?.

    Ab Italica paeninsula; ad orientem Neapoli venientibus, parva civitas est cui Sulmo nomen est. Ibi facta sunt… (Dalla penisola italiana; a est per chi viene da Napoli, c’è una piccola città il cui nome è Sulmona. Sono state fatte lì…). Ho bisogno di denaro per pagare una stanza nella quale alloggiare.

    Per quanto tempo?.

    Per un anno, rispondo pur sapendo che rimarrò solo per qualche giorno; ma è la prima risposta che mi è venuta in mente, non saprei dire perché. Aspetto con ansia la sua valutazione. Dalla faccia accigliata che fece, aveva la fronte aggrottata e le labbra strette, fui certo che i monili che avevo con me non sarebbero bastati e mi preparai alla discussione che sarebbe seguita. Ma lui ne prese quattro e disse:

    Ho una piccola stanza che posso cederti; per pagamento prendo questi. Se vuoi cedermi anche gli altri, li comprerò, te li pago bene.

    Te li cedo volentieri, risposi porgendoglieli, ma vorrei essere pagato con monete d'oro, se è possibile.

    Il ragionamento dietro la mia richiesta fu che una volta tornato nel mio tempo, avrei venduto le monete (delle autentiche monete d'oro alessandrine!) ricoprendo con gli interessi le spese affrontate; la tradizionale bravura nel far fruttare i soldi, tipica della mia famiglia, era affiorata prepotente!

    Si possibile sit nescio, sed pretium aequum erit. Mihi nomen est Joshua. (Non so se sarà possibile, ma il prezzo sarà giusto. Il mio nome è Joshua)

    Finite le presentazioni, mi fece cenno di seguirlo e mi guidò verso quella che sarebbe stata la mia ‘casa’, in realtà un monolocale, non piccolo ma pur sempre un monolocale senza bagno e tantomeno angolo cottura; felice, presi possesso del mio piccolo alloggio. Era adiacente all'edificio principale, ma con ingresso indipendente che dava sul vicolo, cosa questa abbastanza strana, perché solitamente nelle antiche case romane le stanze si aprivano all'interno. Feci le spallucce: tutto sommato che importanza aveva? Se era sicuro, questo era sufficiente; ed ero certo che fosse sicuro altrimenti Joshua non me l'avrebbe dato. Trovai la stanza accogliente, anche se tutto l’arredamento consisteva in un tavolo e una specie di sedia, un letto che era poco più di un giaciglio e una cassapanca, ma non contavo di starci molto quindi non mi preoccupai. Il lato positivo era che era pulita e soprattutto non c'era l’odore di fuori, un odore che a lungo andare sembrava di sentire anche in bocca; una finestra senza vetro si affacciava su un cortile interno che pensai facesse parte della casa. Mi domandai ancora una volta cosa fosse quella stanza che invece di essere rivolta verso l'interno, sul cortile, si affacciava sulla strada, forse una bottega? Ma la domanda svanì immediatamente. Ero felice: la piccola finestra permetteva il ricambio dell'aria e fin qui, a dispetto delle mia paure, tutto era stato più facile di quanto avessi osato sperare. Posai la bisaccia sul tavolo per paura che i topi, posto che ce ne fossero, potessero attaccarla e chiesi come si arrivasse alla via Canopica, perché avevo del tutto perso l'orientamento. Una volta lì, tutto sarebbe stato semplice; Joshua mi guardò con aria interrogativa, ma non fece domande.

    Mecum veni, quaeso (Vieni con me, per piacere), disse e si incamminò.

    Lo seguii facendo molta attenzione ad imparare il percorso che mi avrebbe ricondotto sul viale, cercando di non farmi distrarre da ‘odori e sapori’. Benedetta piccola camera, che prendeva aria dal cortile interno della casa!

    Sorprendente era la puzza che emanava dalla folla di straccioni dagli occhi invasati che brulicava nelle vie, i parabolani, coperti da vesti scure che avevano visto l'ultima acqua ai tempi del diluvio! Altro che lo smog soffocante delle nostre città! Quanto più sopportabile mi sembrava il nostro inquinamento da traffico, anche se presto avrei scoperto che la reazione agli odori è maledettamente soggettiva! Quando tornammo dal nostro peregrinare era ormai sera: Joshua aveva voluto farmi da guida e mi aveva portato al Serapeo, poi al Museo e alla Biblioteca e alla fine percorremmo insieme tutto l’Heptastadium.

    Per il momento bastava, mi sdraiai sul letto per riposare un po'. Semi-addormentato, ripensavo alla giornata, alla lunga marcia per arrivare in città, all'impressione, quasi uno shock, che la vista del Faro aveva suscitato in me un po' per il suo aspetto maestoso ma anche per il sollievo di essere arrivato; mi crogiolavo nelle mie impressioni, quando all’improvviso mi passarono davanti agli occhi i volti che avevo appena conosciuto: quello del primo vecchio che mi aveva condotto alla bottega, quello del secondo vecchio dall’aria antica e dall'aspetto vaioloso e quello di Joshua, tre persone innocue e ugualmente gentili. Era molto più di quanto avrei potuto augurarmi, e mi ripetei che potevo considerarmi veramente fortunato; passarli in rassegna mi faceva sentire un po' meno solo, quasi a casa. Poi, a poco a poco caddi in sonno profondo, che fu interrotto dal bussare discreto di Joshua che mi portava da mangiare. Mangiai rassegnato a una notte insonne, perché avevo dormito troppo a lungo e sbuffai di fastidio pensando alla lunga veglia che mi aspettava, ma non appena toccai il letto sprofondai nuovamente nel sonno e non mi svegliai che a mattina inoltrata.

    Accidenti, pensai, è troppo tardi per andare alla Biblioteca. Uscii comunque deciso a tentare, al massimo la passeggiata mi sarebbe servita da esercizio per il giorno dopo.

    Mi muovo con cautela lungo i vicoli stretti della parte terminale del quartiere ebraico, affollata di gente. Tutti sono silenziosi; guardano basso avanzando con circospezione come se un pericolo incomba su di loro, come se temano di imbattersi in una bomba che possa esplodere da un momento all’altro. Finalmente le strade si fanno più larghe, respiro; l’aspetto generale della città diventa più familiare. Davanti a me c'è un termopolium, l'atmosfera è più leggera ma io non sono tranquillo; cerco di farmi forza dicendomi che sono il primo essere umano catapultato a diciassette secoli di distanza.

    ‘Vorrei essere tra le tue braccia, Ipazia….’.

    Mi fermo, sono scosso: ma che pensieri mi vengono in mente? Devo essere in preda a una ‘malattia del tempo’; mi scuoto e riprendo a camminare. Finalmente davanti a me si spalanca la via Canopica. Ho un flash! La via Canopica? Solo ora mi viene in mente che le vie non hanno nome, che la pianta piuttosto regolare a vie parallele che si intersecano perpendicolarmente e gli edifici pressoché identici l'uno all'altro rendono estremamente difficoltoso orientarsi. E pensare che sarebbe bastato prendere nota del numero di strade attraversate, cosa semplicissima anche a Brooklyn, figuriamoci qui dove la scala è ridotta! Troppo tardi, ormai sono emerso nel cuore della città, la via Canopica; tanto vale che mi goda la passeggiata; a cosa fare dopo, penserò… dopo! Sono costretto a ripetermi: fa un'impressione strana osservare una città antica nella sua dimensione viva. Il mondo antico si svela a noi attraverso le rovine ed è la fantasia a guidarci nella ricostruzione di quello che doveva essere il vivere quotidiano fatto di attività, di via vai, di gente che discute appassionatamente nel Foro o alle terme, di spettacoli teatrali e gladiatorii (siamo intorno alla fine del IV secolo A.D., e ancora aspettano di essere aboliti, se non de iure, de facto). Cosa totalmente diversa è essere immersi nella realtà antica: in questo caso la fantasia non serve, non ce n'è bisogno. La vita di ogni giorno si offre agli occhi del visitatore e solo la sua attenzione e la sua capacità di decodificare i segnali determinano il grado di comprensione che avrà della realtà nella quale è immerso. La prima notazione che mi colpì fu la grave serietà dei volti delle persone che incrociavo, che legai al momento di passaggio che stavano vivendo: il mondo pagano, che per millenni aveva regolato le vite degli uomini con i suoi poliedrici miti, ingenui quanto si vuole ma ricchi di ineguagliata comprensione dell'animo umano nei suoi molteplici aspetti, delle sue debolezze e della sua forza, della bellezza che deriva dal vivere e permeati dalla nostalgia della vita stessa, nostalgia che scaturisce dalla consapevolezza della sua breve durata e della sua irripetibilità... Quel mondo, cruento ma anche pieno di leggerezza, stava arrendendosi al nuovo, altrettanto cruento ma pieno di pesantezza esistenziale. Un triste viaggio stava traghettando il mondo occidentale dall'amore per la vita, per la sapienza e per la scienza al buio dei secoli precedenti il medioevo; per alcuni aspetti non ci siamo ancora ripresi del tutto. Ce n'era di che stare seri e forse ce ne sarebbe anche oggi! Ho un flash! Non ci sono bambini! Neanche uno, strano. Chissà se è prerogativa di quest'epoca dal presente fluido e dal futuro incerto o se invece è normale. Forse nel mondo antico i bambini non giocavano nelle strade? Questa osservazione aumenta il mio stato d'ansia, ho l'impressione non di aver viaggiato nel tempo, ma di essermi spostato in un universo diverso dal nostro e popolato da alieni e forse pieno di pericoli che non so intuire e quindi non posso prevedere. Percorro lentamente questo boulevard, che nel momento del massimo splendore di Alessandria deve essere stato di impareggiabile bellezza, una bellezza che ancora adesso si legge tra le righe; guardo con attenzione tutto fin nei particolari, cercando di capire. Sì, prima di ripartire voglio capire, voglio riuscire a penetrare questo mondo che sembra avere un muro invalicabile che lo separa dal nostro! La mia mente comincia a vagare per conto suo facendomi perdere il contatto con la realtà. Immerso nei miei pensieri non mi accorgo se non all'ultimo momento di essere arrivato alla Biblioteca; entro e mi inoltro con cautela al suo interno. Comincio a girare per i locali percorrendo lunghi corridoi nei quali troneggiano file di scaffali in cui sono riposti, ognuno all’interno di un contenitore di metallo, innumerevoli papiri: un'opera di copiatura titanica! In ogni scaffale una targa reca un'incisione che elenca le opere lì riposte e a ogni papiro è legata una piccola placca di legno che ne indica posizione e contenuto. A malapena con i miei occhi non allenati alla penombra mi rendo conto che vi è scritto qualcosa, quindi non provo neanche a decifrare i caratteri. Mentre girovago per i locali, nessuno si cura di me; da lontano scorgo l'aula nella quale Ipazia istruisce i suoi allievi: non può che essere lei la donna che parla in quella che più in piccolo è l'aula magna di una moderna università. Quale altra donna del IV secolo potrebbe intrattenersi con un numero così numeroso di giovani maschi che la ascoltano nel silenzio più assoluto?

    Mi fermo in disparte, guardando da lontano e aspettando la fine della lezione; l'aula è poco illuminata nonostante le due grandi finestre che si aprono al suo interno. Parlo di aula e di lezione e probabilmente sto usando un linguaggio non adeguato perché non credo che le attività che si svolgono al suo interno si possano paragonare alle attività didattiche che si tengono nelle nostre università, nelle quali c'è un programma da svolgere ed esami da sostenere, ma non saprei quale altra definizione usare.

    Finita la lezione, tutti si avviano lentamente verso l'uscita, rispettando ancora quel silenzio che conferisce un che di religioso alla scena. Ipazia aspetta che tutti escano, indugia ancora qualche minuto, poi si allontana.

    È sola e potrei avvicinarla, ma improvvisamente mi manca il coraggio; rimango in disparte, osservandola da lontano in modo da non essere notato. Non riesco a vederla bene perché la distanza e la luce insufficiente non me lo permettono, ciononostante mi sembra molto bella, ma potrei essere influenzato dal parere unanime degli autori che hanno parlato di lei e quindi mi dico che è meglio aspettare prima di dare un giudizio.

    Mi allontano in fretta in preda all'agitazione: le frasi che tanto diligentemente avevo imparato a memoria prima del balzo nel tempo all’improvviso si erano dileguate nel nulla e la mia mente era una tabula rasa sconfortante; decido che sarei tornato il giorno dopo. Bisognava che avessi il tempo di prepararmi all'idea di avvicinarla e parlarle, non avevo previsto che mi sarei emozionato così tanto e soprattutto dovevo ripassare quello che dovevo dire perché ad aiutarmi qui non ci sarebbe stato il mio vocabolario e una parola sbagliata avrebbe potuto rovinare tutto. E se Ipazia non parlasse il latino? Il pensiero mi colpì come un colpo di maglio: non avevo preso in considerazione questa eventualità, tanto che non avevo pensato a una strategia alternativa. L'impero era sul punto di essere diviso e Roma aveva perso la sua centralità, quindi il latino poteva non aver più la diffusione di un tempo e d'altra parte la lingua franca, in questa parte dell'impero, era da sempre il Greco. Era tardi ormai per rimediare, i pensieri cominciarono ad accavallarsi in modo caotico nel mio cervello, ma niente emerse che potesse aiutarmi su cosa fare se mi fossi trovato di fronte una persona con la quale sarebbe stato impossibile comunicare. Passai una notte agitata e al mattino mi sentivo uno straccio; quanto avrei voluto fare una doccia! Ma l'acqua che avevo a disposizione, gentilmente offerta dal padrone di casa, il mio ebreo gentile, era poco più di quella con la quale ci si lavano i denti nelle nostre case del XXI secolo. Non vi meravigliate: quanti chiudono l'acqua mentre se li stanno spazzolando? Nel calcolo computo anche quella che si spreca, perché nel posto in cui ero tutto si poteva fare, meno che sprecare l'acqua.

    ‘Al mio rientro organizzerò viaggi nel passato per insegnare ai turisti a usare con parsimonia le risorse del pianeta’, pensai. Con poca acqua e niente sapone, ma usando una pasta di cenere e argilla addolcita con olio di oliva fornitami dal padrone di casa, in qualche modo mi tolsi lo sporco di dosso. In guisa di deodorante mi cosparsi un olio profumato; oggi quell'olio non lo definiremmo profumato, ma il suo era comunque molto migliore dell’odore che emanavo, lo stesso odore che riempiva i vicoli, le strade e le piazze di Alessandria e che si adattava perfettamente al ciarlare caotico dal suono volgare degli straccioni vocianti, i parabolani, talebani ante litteram e per assonanza.

    Esco di casa. La preoccupazione che mi attanaglia mentre mi dirigo verso la Biblioteca mi fa dimenticare l'altro timore e cioè che Ipazia non parli il latino, ma il risultato finale è lo stesso: sono nervoso. Il giorno prima l'atmosfera era più tranquilla, ma oggi c'è molta agitazione e la tensione che aleggia nell'aria è palpabile; cammino a passo spedito e quando arrivo alla Biblioteca è ancora molto presto. Chissà che ore sono, nell'aula non c'è ancora nessuno, comincio a girare all'interno dell'enorme edificio curiosando, anche questa volta senza che alcuno dei pochi presenti si curi di me, cosa che continua a meravigliarmi moltissimo. Come spesso mi accade perdo la sensazione del tempo e quando mi risveglio mi precipito alla ricerca dell'aula di Ipazia; quando finalmente la trovo, impresa non semplice in quel dedalo di corridoi, la lezione è già cominciata. Mi faccio coraggio, non posso rimandare ancora, voglio tornare nel mio tempo e nel mio spazio, non ne posso già più di mancanza d'acqua, cibo dal sapore orribile e soprattutto di straccioni vocianti. Entro nell'aula cercando di camminare su un cuscinetto d'aria per non fare rumore, nessuno si volta a guardarmi, ma colgo immediatamente l'occhiata che Ipazia, senza smettere di parlare, mi lancia. Ci fissiamo negli occhi, ho un sussulto: La mia Ipazia!.

    È un urlo represso da tempo immemorabile.

    Sei tu, sei la mia Ipazia e io ti amo da sempre.

    Un groppo mi stringe la gola: ‘Sto diventando pazzo, ma chi riconosco? Chi amo? Una donna del IV secolo dopo Cristo mai vista prima? Ma che mi prende? Il viaggio nel tempo mi ha fatto uscire di senno!’.

    Avanzo turbato e cauto all'interno dell'aula, trattenendo il respiro e cercando un posto dove sedermi.

    ‘Se mi dovesse fare una domanda, non capirei, pensai, e se anche capissi, non saprei cosa rispondere. Che figura sto per fare!’.

    Con mia grande sorpresa invece Ipazia continua a parlare, apparentemente senza curarsi di me, il nuovo arrivato, come se fosse una cosa perfettamente normale che una persona sconosciuta si aggregasse a lezione iniziata. Pur senza capire una parola di quello che diceva perché la lezione si svolgeva in greco, mi metto ad ascoltare con attenzione. Ipazia parla con voce ferma e sicura, il timbro è limpido e il tono gentile e a tratti musicale; si percepisce nella sua voce un'autorevolezza che immobilizza.

    ‘Ieri mi sei sembrata bella, ma in realtà sei bellissima’.

    Soggiogato dalla sua presenza, sono muto tra muti. Alla fine della lezione aspetto che tutti escano per poterla avvicinare, ma invece di fermarsi come il giorno prima questa volta se ne va circondata dai suoi discepoli. Rimango solo, ancora inebetito dall'esperienza fatta e in preda alla delusione; mi rassegno a tornare indietro, rimandando una volta di più il momento del nostro incontro.

    Rientrando a casa fui assalito da un altro timore: che Ipazia non mi avrebbe creduto quando le avrei detto che venivo dal futuro. Quel giorno alla biblioteca non avevo portato niente, nel timore che se per una qualche malaugurata ventura la macchina fotografica fosse caduta in mano di qualche scalmanato, mi avrebbero fatto a pezzi. Come la storia ci insegna, ci voleva molto meno che una aggeggio in grado di fissare le immagini in questo secolo di decadenza e di superstizione per essere accusati di aver sottoscritto un patto con il diavolo e quindi per essere massacrati e io non volevo vivere quell'esperienza nella maniera più assoluta. E se non mi avesse creduto?

    Ci penserò domani, borbottai tra me e me. Per ora avevo aggiunto un motivo in più alla mia ansia: prima del viaggio mi sembrava tutto così semplice che non mi ero posto molti problemi. Ero sicuro e lo ero tutt'ora che mostrarle una macchina fotografica l'avrebbe convinta, ma il problema era che dovevo riuscire a condurla nella mia stanza, lontano dagli sguardi indiscreti, dove sarebbe stato possibile darle la dimostrazione che non mentivo. ‘Avrò inevitabilmente un'altra notte agitata, pensai, e sarà resa ancora più penosa dalla combinazione dell'ansia e della cena, perché né il mio naso né il mio stomaco vogliono rassegnarsi. L'uno sostiene l'altro nella convinzione che rifiutarsi di digerire del cibo dall'odore sospetto e dal sapore dubbio sia del tutto legittimo e non riesco a convincerli che non ho alternative’.

    Come Dio volle venne il mattino e mi accinsi ad uscire, ma questa volta presi con me il taccuino e la matita, oggetti che avrebbero potuto essermi utili. La tensione sembrava meno intensa, la gente si muoveva tranquilla lungo la via Canopica e il mio stato d'animo migliorò. Entrai nell’aula con i primi allievi e mi sedetti in un angolo un po' in disparte, perché volevo evitare che qualcuno mi rivolgesse la parola.

    Ipazia entra nell'aula, il suo incedere è elegante, il viso serio… no austero, non serio. Il suo sguardo scorre lentamente tutta l'aula, mi vede e fa una pausa... L'espressione del viso cambia, improvvisamente sembra intimorita. Ma da cosa o da chi? Non certo da me che ho più paura di lei, addirittura più ora di quanta non ne abbia provata quando ho fotografato il Faro! L'espressione del suo viso cambia nuovamente, ora è ammiccante, complice... Ma che stupidaggini penso? I miei alunni più giovani esclamerebbero: ‘Prof., si sta facendo un film!’. Hanno ragione, sono come in preda a un'allucinazione, la bellezza di questa donna mi ha stregato. No, non è così, ho frequentato donne altrettanto belle e mai ho vissuto un momento di così grande intensità solo guardandole. È sicuramente un effetto collaterale dei viaggi nel tempo, sto perdendo il contatto con la realtà... Per un attimo provo il terrore di essere diventato schizofrenico, poi lo sguardo di Ipazia finisce il suo giro e comincia a parlare, di nuovo sono tagliato fuori; aspetto con pazienza che l'incomprensibile lezione abbia termine ma sono molto più calmo ora. La voce gentile di Ipazia mi ha rasserenato.

    Questa volta alla fine della lezione riesco ad avvicinare Ipazia, la dizione mia Ipazia non vuole abbandonare la mia mente. Il cuore mi batte all'impazzata e mi scoppia un feroce mal di testa; non ne soffro abitualmente, ma in quel frangente la grande emozione e il timore di non farcela mi avevano sottoposto ad un forte stress. ‘Accidenti, avrei potuto portarmi qualche farmaco! E io che pensavo che la mia organizzazione fosse perfetta!’.

    Eccola di fronte a me, è più alta di come me l'ero immaginata; secondo i miei calcoli dobbiamo essere a ridosso del 395 e quindi deve avere più o meno 35 anni. Il suo aspetto è serio e l’aura di austerità che la circonda la rende, se possibile, ancora più affascinante. Incapace di pronunciare anche una sillaba, la guardo in silenzio; devo avere un'aria molto stupida! Gli occhi nerissimi di Ipazia, un abisso di profondità racchiuso nella cornice luminosa dei suoi capelli, figli dell'ossidiana, mi scrutano penetrandomi come lame, ma non dice una parola: lascia a me l'iniziativa e allora con un barlume di coraggio, finalmente le parlo.

    Lingua Graeca uti nequeo. An sermone latino uti possimus? (Non conosco il Greco. Possiamo usare il Latino?), le chiedo con voce tremula e roca.

    Possumus, certe possumus (Possiamo, certamente possiamo), risponde.

    Quanto è calda e affettuosa la sua voce! Nonostante sia molto agitato sono cosciente che sto vivendo un momento di assurdo: mi sta parlando con il tono di chi si sta rivolgendo non a un conoscente, ma ad un amico intimo. Comunque, Deo gratias, il primo motivo di ansia è sparito: parla Latino.

    Ma non riesco a muovermi.

    Ipazia mi guarda fisso negli occhi e mi accorgo che i suoi, nel nero abissale, hanno pagliuzze verdi: brevi e intensi lampi di luce nel buio della notte. All'improvviso vengo sommerso da un'ondata di amore, un amore antico e inspiegabile e il primo pensiero che mi balena nella mente è di essere una inutile macchina guidata da un autista ubriaco. La mia mente, per la seconda volta, formula quel pensiero tanto inverosimile quanto concreto e palpabile, appartenente al mio essere più profondo: ‘Ti amo da sempre!’.

    Una pulsione formidabile mi spinge al pianto, cerco di contrastarla, così come blocco la forza inumana che mi vorrebbe costringere a prenderla tra le mie braccia. Impassibile, Ipazia mi scruta mentre mi dibatto nel mare tempestoso di quasi due millenni di sentimenti.

    Quid igitur?(E allora?), esclama e io rinvengo da quel sogno che mi ha fatto sospettare della mia sanità mentale; ma ci ripiombo immediatamente. ‘Il tuo odore, l'odore del muschio! È il tuo, appartiene solo a te Ipazia, lo riconoscerei tra decine, macché, centinaia di migliaia di odori. Sono impazzito, ma cosa sto pensando? Credo di riconoscere l'odore di una donna mai vista prima... No, non di una donna, il tuo, sono sicuro di quello che dico. Sto descrivendo il profumo della mia Ipazia e se questo significa che ho perso il senno, allora andrò a cercarlo sulla luna’.

    Quello del muschio è da sempre il tuo profumo!, penso.

    Valde scio (Lo so benissimo).

    La voce tranquilla di Ipazia mi riporta alla realtà, non capisco però quello che voglia dire. ‘Valde scio cosa? Io non ho parlato!’, penso in preda all’agitazione.

    Ma lei mi sorride e mi calmo; il cuore ricomincia a battere con un ritmo quasi normale, mi sento protetto, sono sicuro che con lei vicino niente potrà andar male.

    Recuperato in parte il controllo di me stesso, mi avvicino al complicatissimo modello geocentrico del quale si serviva durante le lezioni per mostrare il movimento degli astri come descritto da Tolomeo e con un dito disegno nella polvere del tavolo a fianco di esso un’ellisse; sul perimetro dell'ellisse traccio un piccolo cerchio e in posizione di uno dei fuochi un cerchio più grande e indicandoglieli con un dito, dico:

    Parvus circulus orbis terrarum est; magnus autem sol. (Il cerchio più piccolo è la terra, mentre il più grande è il sole). La terra, la cui forma è approssimativamente una sfera, ruota su se stessa e girando intorno al sole percorre un'orbita ellittica; il suo asse di rotazione è inclinato rispetto al piano di rotazione intorno al sole. La rotazione della terra su se stessa dura un giorno; quella intorno al sole un anno. Il movimento intorno al sole lo chiamiamo rivoluzione e insieme con l'inclinazione dell'asse terrestre, rende conto dell'alternarsi delle stagioni; rotazione chiamiamo quello che essa compie intorno a se stessa ed esso è responsabile dell'alternarsi del giorno e della notte.

    Lo sguardo di Ipazia si fece indagatore e mi sembrò di scorgervi una sorta di sorriso, al posto dello smarrimento che sarebbe stato lecito aspettarsi; esitò per un po', poi chiese:

    Quis es, igitur? (Chi sei, dunque?).

    Ascoltami Ipazia, rispondo con un certo timore, devi credermi, anche se sembra impossibile: vengo da un tempo futuro, lontano dal tuo di quasi diciassette secoli e vorrei parlarti, ma non qui, quando saremo soli.

    Il suo sguardo cambia ancora, questa volta mi sembra uno sguardo divertito, quasi mi stia prendendo in giro; non capisco.

    Non mi sembra impossibile, ma non ti credo. Quali evidenze puoi dare, a sostegno di quanto dici? Devi convincermi che in questo mondo così pieno di pazzi tu pazzo non sia.

    Lo sapevo, siamo arrivati al dunque; e ora? Sono disorientato, non le è bastata la spiegazione che le ho data. Annaspo, ma all'improvviso mi viene un'idea e le chiedo:

    Se ti illustro un modo diverso di rappresentare i numeri, che fa uso di un concetto nuovo che oggi non esiste, anche se nonostante ciò tu non dovessi credere che vengo da un tempo futuro, mi darai la possibilità di darti la prova che cerchi? Mihi scribendum est (Devo scrivere), aggiunsi.

    Senza parlare mi guida in un piccolo cortile interno tenendo lontani, con un cenno della mano, alcuni dei suoi discepoli che vogliono avvicinarsi. Mi porge un coccio di terracotta, facendo cenno di scrivere sul lastricato di pietra bianca ma, assicuratomi che fossimo soli, tiro fuori il taccuino e la matita e comincio a scrivere. In breve voglio riportare cosa scrissi, perché il risultato che ebbe fu sorprendente, assolutamente superiore alle mie aspettative; cominciai con lo scrivere i numeri romani da 1 a 10 e a fianco di ognuno scrissi l'equivalente in cifre arabe:

    I 1

    II 2

    III 3

    IV 4

    V 5

    VI 6

    VII 7

    VIII 8

    IX 9

    X 10

    Ipazia, le dico, adspice: decem duobus notis conficitur, (osserva: dieci è rappresentato con due cifre) la prima è 1, l'altra, quae zero Italica lingua vocatur, lingua latina ‘nihil’ vocari potest. (l’altra che in Italiano è chiamata zero, in latino può essere definita come ‘nulla’)

    Sono emozionato, la voce mi trema e il cuore batte all'impazzata, mi accorgo che sto mescolando italiano al latino, ma continuo a parlare.

    "Ora osserva bene i numeri successivi al dieci:

    11, 12, 13, …. 20

    XI, XII, XIII, …XX

    …….

    91, 92, 93, ….. 99

    XCI, XCII, XCIII ….. IC, C

    Ora rappresentiamo il centum, e scrissi:

    C

    Con mia grande sorpresa Ipazia afferra la mia mano bloccandomi e senza dire una parola, prende il taccuino e la matita e scrive con sicurezza: 100.

    L'avrei abbracciata tanto era l'entusiasmo e mi sfuggì un ‘Siiiiiiiiiì’ urlato che la sorprese, tanto che mi disse di rimando :

    Num insanus es? Nec hoc nescivi. Tace! (Sei pazzo? Certo che lo sei, lo so bene. Taci!) Vuoi che accorrano tutti a vedere cosa succede? È così che vuoi mantenere la cosa segreta? Non sai che in quest'epoca tribolata anche i sassi hanno le orecchie e subito serpit fama per auras? (la notizia si diffonde immediatamente? Lett. La fama serpeggia nell’aria).

    Per la verità, più che pazzo mi sentivo uno stupido, mi ero lasciato andare come un bambino ed era stata una sciocchezza, ma la tensione accumulata fino ad allora era stata grande e non ero riuscito a controllarmi. Scrivendo ‘100’ Ipazia aveva dimostrato di avere capito il significato

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