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Una boccata d'aria
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E-book145 pagine2 ore

Una boccata d'aria

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Info su questo ebook

Qualcosa non va nella vita apparentemente perfetta di Eva. Sposata con Marco, uomo brillante, ha due splendidi figli, un lavoro appagante, eppure è preda di frequenti crisi di panico che le tolgono il fiato. In occasione di un viaggio in Austria, a Graz, scopre che il marito, colpito da un’aneurisma, ha un’amante. Le sole certezze della sua vita crollano e la donna capisce che è tempo di rivedere la propria esistenza ed iniziare la fuga dalla soffocante sensazione di dipendenza.
LinguaItaliano
EditoreIl Prato
Data di uscita12 feb 2018
ISBN9788863364446
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    Anteprima del libro

    Una boccata d'aria - Patrizia Marcato

    1.

    Eva

    Eva appoggia la testa sul finestrino laterale per non farsi notare da Marco mentre cerca di liberare il petto dal peso che la opprime.

    Da mesi ormai riesce quasi a passare inosservata mentre compie questo quotidiano rito di sopravvivenza. Respirare. È come se qualcuno si fosse seduto sul suo sterno le avesse ridotto il condotto dell’aria e non le restasse che boccheggiare. L’abitacolo dell’auto non le consente il riparo che cerca e si accorge quasi subito del fastidio nell’espressione di Marco, che la sbircia, di tanto in tanto, mentre continua a guidare.

    All’inizio, sembrano secoli fa ormai, nei suoi occhi poteva scorgere preoccupazione, calore e il desiderio di capire la sua sete d’aria e di aiutarla. Ma la preoccupazione troppo in fretta ha lasciato spazio al fastidio… Fastidio… Dio come odia quella parola, se la sente appiccicata addosso, come se qualcuno l’avesse coniata per descrivere le persone come lei. Eva cerca nei pensieri una parola che la definisca, indecisa tra debole, fragile, accomodante. Ma sa che la parola giusta è dipendente! Ha sempre sentito di doversi appoggiare a qualcuno o qualcosa. Da quando le erano mancati i genitori da bambina si era cercata ogni forma di dipendenza possibile: gli zii che l’avevano cresciuta con affetto e ai quali lei si era attaccata con una riconoscenza quasi morbosa. Marco, che aveva amato incredula di essere stata scelta tra le molte ragazze di gran lunga più attraenti di lei. Poi era arrivata la famiglia di Marco, così numerosa e affettuosa da stordirla e che lei aveva cercato in ogni modo di compiacere nella speranza di essere assimilata e digerita per tornare a essere trasparente. Infine i figli, Piero e Tommaso, dai cui sorrisi e umori dipendeva il colore della sua giornata.

    Ma la sua vita non le dispiaceva, non sarebbe stata poi così male… se solo avesse potuto tirare ogni tanto una bella boccata d’aria, di quelle fresche che ripuliscono il corpo e la mente. Perché era così che immaginava se stessa, come una camera buia, dall’aria viziata perché chiusa da troppo tempo.

    «Tutto ok? Vuoi che ci fermiamo?»

    Le parole di Marco sono gentili, ma il tono è quello lontano che ormai sembra sottolineare tutte le loro conversazioni. È chiaro che fermarsi è l’ultima cosa che vorrebbe fare, ma lui è troppo educato e formale per mostrarsi infastidito, porta avanti il suo ruolo fino in fondo, interprete impeccabile nella parte di marito forte e comprensivo nei confronti di una moglie psicologicamente fragile. Ora è Eva a provar fastidio e questo la rende più forte alleviando un poco il peso sul petto. E poi non vuole iniziare questa piccola vacanza trascinandosi appresso tutti i tic del loro matrimonio.

    «Sto bene» risponde, aprendo un po’ il finestrino. «Il riscaldamento dell’auto mi disturba sempre. Preferisco il freddo, lo sai».

    Ma lui ha già ripreso il corso dei suoi pensieri, che ormai le sono del tutto estranei, lo sguardo sull’autostrada e quello di Eva sul suo profilo. I pensieri ritornano alla prima volta che l’aveva visto, in occasione del suo ultimo esame universitario di letteratura tedesca, il motivo per cui si erano incontrati, un milione di anni fa.

    "Beh Mutter, pensa, In fondo in fondo lo devo a te l’amore della mia vita".

    La mamma di Eva, Agathe, era una giovane cameriera austriaca che faceva la stagione in una pensione a Venezia. Gianni, suo padre, si era innamorato di lei immediatamente e l’aveva assediata fino a convincerla a sposarlo nel giro di pochi mesi. Insieme al fratello e alla cognata, avevano aperto una trattoria in via Garibaldi a Castello, dove si poteva mangiare del buon pesce a un ottimo prezzo. Si era subito trovata a suo agio e aveva amato ogni minuto della loro breve vita assieme.

    Eva era arrivata quasi subito e aveva completato un mondo che agli occhi di Agathe era praticamente perfetto. Così la bambina era cresciuta con le ninna nanne e le favole in tedesco, le estati dai nonni a Radenthein mescolate all’italiano della scuola e al veneziano del padre e dei clienti della trattoria Vecia Casteo.

    La morte della madre, per una forma di leucemia che l’aveva letteralmente spazzata via in poche settimane, aveva lasciato Eva e il padre sgomenti e incapaci di reagire di fronte alla solitudine della loro casa alla Giudecca. Solo l’affettuosa ospitalità di Anna e Davide, gli zii, aveva dato loro un rifugio nel quale affrontare l’inevitabile consapevolezza che la vita continua. Il dolore aveva trovato una giusta dimensione in un angolo del loro cuore. Si era sopito ed era diventato accettabile.

    Il trasloco nel piccolo appartamento sopra la trattoria aveva rappresentato un cambiamento positivo. L’allontanamento dalla Giudecca aveva connotati scaramantici per la piccola Eva, che da allora era riuscita a non tornare sull’isola nemmeno una volta. Quando qualche anno dopo anche Gianni se n’era andato per un infarto, Eva, sebbene prostrata dal dolore, non ne era rimasta sorpresa, convinta com’era che il cuore del padre fosse stato irrimediabilmente ferito dalla perdita della moglie. Lo spostamento precedente l’aveva resa diffidente nei confronti di ogni abitazione. Si era perciò trasferita dagli zii con poche cose e da allora aveva viaggiato da un alloggio all’altro con pochi bagagli e libera da aspettative di permanenze durature… Fino a Marco.

    Gli getta uno sguardo senza che lui se ne accorga; è un uomo particolare, non bello in senso canonico, ma gli anni hanno reso interessante il ragazzo alto e dinoccolato, dai lunghi capelli mossi, così studioso e recalcitrante a qualsiasi attività sportiva che non consentisse in contemporanea la lettura di un libro. Anche da giovane tutta la sua vita sembrava ruotare attorno ai libri e allo studio, apolide in una famiglia di gente ricca, sportiva e dedita in modo esagerato alla socialità. I De Bei si tramandavano da generazioni una delle compagnie assicurative navali più prestigiose di Venezia. Tutti i fratelli di Marco vi lavoravano con il padre conducendo una vita agiatamentre la madre si dedicava con successo alla gestione di fondazioni benefiche, tra un bridge e un burraco. Nonostante la loro posizione sociale, erano persone estremamente gioviali, con un’apertura mentale che li portava a trattare ogni essere umano senza pregiudizi. Per i De Bei l’alterigia era spazzatura, chiunque era ben accetto nella loro magnifica casa alle Zattere, adiacente al consolato Svizzero.

    Eva pensava, con un po’ di vergogna, che ci fosse una certa dose di supponenza in questo atteggiamento. È facile per chi non deve dimostrare di valere qualcosa, accettare o peggio ancora tollerare chi invece un attestato lo deve dare. E poi la parola tolleranza… Eva ne detesta il significato nascosto. Tollerare! Troppo simile a sopportare, porsi in una posizione di superiorità rispetto a tutto il resto! Ma Marco viveva in un’altra dimensione. Ultimo nato di cinque fratelli, a molti anni di distanza dagli altri, si era creato un mondo alternativo e felicemente alieno dalle dinamiche rumorose della famiglia. Coccolato da tutti, aveva percorso gli anni dell’infanzia prima e dell’adolescenza poi, libero da ogni richiesta di partecipazione, se non nelle inevitabili occasioni pubbliche. Il suo straordinario rendimento scolastico aveva chiarito da subito che la sua carriera avrebbe seguito binari diversi da quelli familiari e così era stato. Lo studio delle lingue lo aveva portato a sviluppare una curiosità quasi ossessiva nei confronti della cultura tedesca. Si era laureato a pieni voti a Ca’ Foscari al dipartimento di Germanistica nel 1985. Per anni aveva affiancato come assistente il prof. Kruger, relatore della sua tesi su Lutero e il De Servo Arbitrio, e nel 1998 lo aveva sostituito nella docenza ottenendo, ancora molto giovane, una cattedra a palazzo Cosulich al dipartimento di Studi europei post-coloniali.

    «A che ora devi fare il tuo intervento domani mattina?» chiede per rompere un silenzio che dura ormai da molti chilometri.

    «Beck farà l’introduzione sulle undici, poi toccherà a me. Non credo durerà più di un’ora. Poi c’è la solita noiosissima colazione di lavoro che non si può evitare in alcun modo» risponde.

    «Di che parlerai?».

    «Presenterò la mia ultima pubblicazione sull’intesa tra testo poetico e melodia nel Lied Romantico» Marco assume involontariamente il tono che usa con i suoi studenti.

    «Ventitré!» esclama Eva.

    «Cosa?».

    «Ventitré. È il voto che mi hai dato proprio su questo argomento quando ci siamo conosciuti».

    «Già» dice Marco sorridendo. «Ancora ricordo quanto mi aveva irritato il tuo atteggiamento».

    A Ca’ Foscari, durante l’ultimo esame di letteratura tedesca, Eva aveva incontrato Marco, si erano ritrovati seduti l’uno di fronte all’altra con il libretto universitario in mezzo.

    «Che ne dice di 23 trentesimi?» aveva detto il giovane assistente.

    «Ok» aveva risposto lei senza batter ciglio, nonostante avesse dedicato alla preparazione di quell’esame tutte le sue energie per almeno cinque mesi.

    «Come ok? Il suo libretto mostra una media del 29. Il mio voto mortifica questa media. Mi chieda di farle altre domande, questo è il suo ultimo esame». Marco trovava spiazzante questa ragazza tranquilla, non riusciva a capire se il suo sguardo fosse rassegnato o indifferente.

    «No», aveva risposto serenamente Eva, «Accetto il voto».

    Lui non poteva sapere che quel giorno per Eva si chiudeva un capitolo della sua vita, deciso e desiderato da altri e portato avanti da lei come pegno della gratitudine che provava per gli zii. La tesi era pronta e in capo a due mesi lei avrebbe potuto finalmente pensare a quello che avrebbe veramente voluto essere da grande. Tutto ciò che desiderava era lasciarsi l’università alle spalle.

    Era uscita e si era incamminata verso il ponte di Campo San Barnaba, quando qualcuno l’aveva afferrata gentilmente alle spalle: «Ha proprio l’aspetto di una fuga. Quando hai firmato il registro ti sei dimenticata il libretto».

    Marco guardava incuriosito questa strana ragazza riporre come se niente fosse il libretto nella tracolla. La lunga coda di cavallo conteneva a fatica una criniera di riccioli biondi che sfuggivano vittoriosi alla presa dell’elastico.

    «Grazie, è stato molto gentile».

    E come se niente fosse, Eva si era girata e aveva ripreso a camminare lasciando Marco a bocca aperta sul ponte. Non che lui fosse un Don Giovanni incallito, come i suoi fratelli, ma la posizione di assistente universitario gli aveva garantito un certo successo tra le studentesse e la consapevolezza di essere considerato attraente. Per la prima volta aveva sperimentato la sensazione di essere trasparente. La studentessa, come si chiamava… Eva… Eva Scarpa, non lo aveva filato neanche di striscio. Non aveva mostrato la benché minima emozione durante l’esame, per la verità non aveva mostrato nessun interesse reale per la materia, e questo era il

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