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Il mio lato B(polare): Storia di una malattia
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Il mio lato B(polare): Storia di una malattia
E-book164 pagine2 ore

Il mio lato B(polare): Storia di una malattia

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Info su questo ebook

A. Andrea Pinna è giunto alla popolarità grazie ai suoi aforismi irriverenti, le celebri “Perle di Pinna”: prima blogger, poi influencer, quindi volto televisivo… Una vita in costante accelerazione, come una corsa a perdifiato in discesa. Eppure, è proprio all’apice del successo che si è trovato a dover fare i conti con una malattia che, da latente, si è scatenata in tutta la sua portata sconvolgente: il disturbo bipolare. Una diagnosi durissima da accettare, anche perché le malattie psichiatriche sembrano rubare la tua stessa identità e, ancora oggi, portano con sé uno stigma davvero difficile da superare: quante volte definiamo una persona come se fosse tutt’uno con la sua patologia? Anche per andare oltre questo tipo di pregiudizio, Pinna ha deciso di ripercorrere la sua storia senza edulcorare nulla, condividendo ricordi e momenti che in pochi hanno il coraggio di raccontare.

Dai momenti più bui agli incredibili episodi allucinatori, dall’eccitazione maniacale della fase up al cupo malessere della fase down, dalle richieste di aiuto fino all’incontro determinante con lo psichiatra che lo ha indirizzato verso la terapia più adatta per lui: Pinna non censura nulla, scavando con lucidità tra i ricordi più dolorosi ma senza perdere mai la sua dissacrante vena ironica. Perché, grazie all’adeguata terapia medica e al supporto degli affetti, Andrea ha imparato a convivere con la malattia e ha riscoperto la sua inconfondibile capacità di vedere il lato assurdo e paradossalmente divertente di ogni situazione.

Il mio lato B(polare) è un viaggio sulle montagne russe, un coraggioso contributo al discorso pubblico sulla salute mentale, e un messaggio di incoraggiamento per chiunque abbia incontrato la malattia psichiatrica sulla propria strada.

LinguaItaliano
Data di uscita13 ott 2023
ISBN9788830592971
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    Anteprima del libro

    Il mio lato B(polare) - A. Andrea Pinna

    SONO SCAPPATO DAI CARTELLI, NON MI INCASTRERAI CERTO TU: DIALOGHI NOTTURNI CON UN COLTELLO ALLA GOLA

    Un elegante palazzo di una centralissima via milanese, con quarantotto appartamenti di cui solo due abitati: in uno viveva un professore universitario in pensione, anziano e molto, molto benestante, che raramente stava in casa. Sullo stesso pianerottolo si affacciava l’unica altra porta dietro cui c’era vita. Se aveste suonato a quel campanello, vi avrei aperto io.

    Quella solitudine era mia, il baricentro instabile di un periodo non proprio felice.

    Per ragioni che poi approfondiremo, trascorrevo lunghissime giornate in compagnia di una bottiglia di vino, impegnato nel disperato tentativo di annebbiare i pensieri con l’alcol (non funziona mai), abbassare il volume delle emozioni, zittire le infinite paranoie che rendevano la mia vita un complicato campo di battaglia. Vini e amari erano la mia prima scelta. Cocktail no, perché implicavano un po’ di organizzazione. Coordinare almeno due ingredienti e sufficienti cubetti di ghiaccio rappresentava uno sforzo di cui non potevo farmi carico. Il vino invece era facile. Non mi chiedeva nulla di più che un cavatappi. Non disdegnavo tutto quello che mi arrivava in regalo in quanto influencer, comunque: gin, Martini, limoncello. Una notte ho finito una bottiglia di Baileys in quaranta minuti.

    Era diventata la mia principale occupazione, soprattutto da quando il Covid-19 aveva costretto il presidente a firmare quell’incredibile documento che fermava il paese, costringendo tra le mura di casa chiunque non avesse una ragione più che valida per uscire. Poiché né l’influencing, né la content creation rientravano in alcun modo nelle categorie lavorative essenziali,¹ eccomi confinato nel mio enorme e centralissimo appartamento: sei stanze e nessuno a riempirle, a parte me e le bottiglie. Sul vicino vecchissimo e ricchissimo non c’era da fare affidamento; escluso persino che ci si ritrovasse alle sei ad applaudire affacciati alle finestre. Non era quel genere di persona, spiace dirlo. Quindi ho trascorso gran parte di quei mesi di lockdown a casa, a vedermela con le mie paranoie, momenti allucinatori e feroci ansie, di quelle che ti tolgono il fiato.

    Prima di procedere anche solo di una riga nel racconto dell’assurda vicenda che mi ha visto mio malgrado protagonista – e che intendo raccontare nel primo capitolo, giusto per condividere subito una delle più atroci conseguenze della mia malattia mentale – sento l’esigenza di chiarirlo: quel che è accaduto, e che sto per esporre, è stato anche causato da me, dal mio bipolarismo, dal cattivo funzionamento del mio cervello.

    Chiarito questo, torniamo nel palazzo centralissimo e molto borghese, quarantotto appartamenti di cui quarantasei vuoti. Mesi prima in quella casa avevo vissuto con un carissimo amico, Tony, che si era trasferito in una delle stanze. Insieme a lui (ma ovviamente non per colpa sua: Tony non ha responsabilità, anzi, a un certo punto ha scelto di andarsene, per ragioni che vedremo più avanti) erano arrivati un via vai di persone, conoscenti, amici di amici. I criteri con cui aprivo le porte agli ospiti non erano particolarmente severi. Ha cominciato a presentarsi anche tale Ernesto.² Latinoamericano, giovane, bellissimo, arrivato in Italia non si sa come; professione: rivenditore di sostanze stupefacenti. O forse anche gigolò. O entrambe le cose.

    Era il contatto di qualcuno, che si faceva consegnare a domicilio quel che gli serviva. E domicilio poteva anche essere casa mia, all’occasione. Solo che, se lo stabile in cui vivi dispone di portineria e relativo portinaio, lo spacciatore non può semplicemente salire, darti quel che ha da darti e poi andarsene, perché il portinaio – che solitamente non è uno stupido – capirebbe cosa sta accadendo e potrebbe voler dire il suo parere a riguardo. Quindi lo spacciatore veniva invitato a entrare e intrattenuto, magari con un caffè e due chiacchiere, per dare l’impressione che fosse un amico in visita. Qualche volta mi ha visto chiuso in camera, altre volte mi ha sentito urlare, delirante. Si doveva essere fatto un’idea abbastanza veritiera di me: non ero tutto dritto. Inoltre, doveva aver notato l’incredibile numero di sacchetti di cibo d’asporto presenti in casa. Erano ovunque, sul tavolo, sul bancone della cucina, nella spazzatura. Vaschette di plastica trasparente, contenitori di cartone riciclabile, vassoi e bacchette e bottigliette di salsa di soia. Non cucinavo, mai. Non so neppure farlo, per nulla. Pranzo e cena mi arrivavano a casa, grazie a una generosa sponsorizzazione – oggi la chiamiamo #suppliedby – che copriva le mie esigenze nutrizionali, interamente. Avevo un budget mensile da spendere, con cui riuscivo a fare sei pranzi e cinque cene a settimana.

    Così Ernesto, che non era neppure il mio spacciatore, sapeva molte cose di me e delle mie abitudini di vita. E si era accorto che in quell’appartamento accadeva qualcosa di strano.

    Poi il mio amico Tony ha lasciato casa e io sono rimasto solo. Qualche settimana dopo è esplosa la pandemia, che è stata catastrofica per moltissime persone ma forse è stata particolarmente dura per tutti quelli che si guadagnavano da vivere con un lavoro disonesto. Non voglio scusare o giustificare nessuno, ma se Ernesto avesse lavorato in un ufficio o in un negozio, magari avrebbe potuto accedere a qualche sussidio statale, una disoccupazione, un incentivo. Da spacciatore o escort, questa possibilità era esclusa. Chiuso in casa non poteva raggiungere i clienti. Dopo mesi di nulla, era economicamente allo stremo (sembra che io lo stia giustificando? No, più che altro cerco di dare una spiegazione logica ai fatti).

    Il primo giorno in cui si è potuto uscire nuovamente di casa, a Ernesto deve essere tornato in mente quel tizio strano, che viveva tutto solo nell’appartamento enorme, quello che spesso non era del tutto lucido. Cioè, io.

    Quella notte, finita la bottiglia di rito, ignaro di tutto io mi sono connesso alla solita app e ho ordinato un trancio di pizza con parmigiana di zucchine e stracchino. Poco dopo il rider ha suonato al citofono, ho aperto e aspettato all’ingresso del mio appartamento. Il ragazzo non ha notato che qualcuno si era infilato nel palazzo, dietro di lui. Mi ha consegnato il sacchetto e io ho chiuso la porta mentre lui se ne andava. Qualche secondo dopo, il campanello di casa ha suonato ancora. Avrà dimenticato la bibita, ho pensato riaprendo.

    Un istante dopo, mi sono ritrovato con il pacco della pizza in mano e un coltello puntato alla gola. Un coltello vero, enorme, di quelli che vedi nei film. Un coltello che luccica al buio, sussurrando morte.

    Un coltello! ho pensato con sorpresa. Alcol, psicofarmaci e sostanze stupefacenti solitamente annebbiano la mente, ma in quell’eccezionale momento in me hanno sortito l’effetto opposto, accentuando la concentrazione e appannando qualsiasi sensazione potesse portarmi a reazioni avventate.

    Lucido, coraggioso, presente: ecco com’ero, mentre Ernesto mi spiegava che dovevo starmene buono, mentre lui e i due soggetti che lo accompagnavano, un ragazzo e una ragazza, svuotavano casa mia.

    Ho annuito, e questa è la dimostrazione del fatto che non fossi del tutto in me.

    «Prendete quel che volete» ho detto con voce calma. «Sono anche assicurato, ho una polizza completa.»³

    Le regole dei tre erano semplici e chiare. Io dovevo restare con Ernesto, che non mi avrebbe fatto nulla di male, e permettere agli altri due di darsi da fare.

    E così è stato: mi hanno letteralmente smontato la casa, con una professionalità da traslocatori più che da ladri, tanto che immagino avessero un furgoncino parcheggiato in strada. E con strada intendo corso Buenos Aires, enorme e centralissima (e piena di videocamere) arteria del traffico milanese; e questo dettaglio la dice lunga sul tipo di ladri che erano…

    Ho avuto un solo momento di ribellione, ma piccolo; si è trattato quasi di un mio tentativo di sollevare la testa e riportare la situazione in parità. Ho guardato Ernesto negli occhi e l’ho informato del fatto che in quel palazzo aveva vissuto Mussolini – questo sconcertante dettaglio l’avevo scoperto dopo aver firmato il contratto d’affitto – e che c’erano quindi diverse telecamere di sicurezza sistemate all’ingresso, nell’androne, per scongiurare potenziali attentati.

    «Ti hanno ripreso di sicuro» gli ho detto, in un guizzo d’orgoglio, vedendolo frugare tra le mie cose insieme ai suoi amici.

    «Sono scappato dai cartelli, scapperò anche da te» ha risposto lui raggelandomi.

    Lì ho capito che quei tre non avevano nulla da perdere. Spacciatori, disperati, con mesi di Covid alle spalle.

    Hanno cominciato dalla prima porta del corridoio, sulla sinistra, quella dei regali e della tv. Hanno preso ogni pacchetto e l’hanno accatastato all’ingresso. Poi sono passati ai quadri del salotto, non disdegnando anche i soprammobili. In bagno la ragazza si è servita delle mie creme, quelle che mi regalavano in quanto influencer, riempiendo diverse sacche.

    Io ho seguito Ernesto nella mia cabina armadio, dove ha passato in rassegna i vestiti, dimostrando di avere ben poco occhio.

    «Guarda che quello non ti sta, hai le spalle troppo larghe… piuttosto prova il cappotto Armani.»

    «No, ma ho un amico più magro di me.»

    «Allora prendilo, è cachemire.»

    «Che scarpe ci abbino?»

    «Le stringate Church’s sono belle e anche comode.»

    In quel momento, dal mio stato di torpore lucido, lo guidavo e consigliavo nella scelta dei vestiti.

    Collaborativo, rilassato, persino assicurato (falsamente) con una buona polizza. Questo ha certamente contribuito a creare tra me ed Ernesto un clima sorprendentemente disteso e rilassato.

    La situazione aveva anche altri aspetti di assurdità: la ragazza si era coperta il viso con un passamontagna, e così anche l’amico di Ernesto. Lui, Ernesto, non aveva fatto alcun tentativo per non farsi riconoscere, benché io avessi persino il suo numero di cellulare salvato in rubrica. Sapevo nome, indirizzo, numero di telefono. Mancavano giusto il cognome e il codice fiscale.

    Con me parlavano italiano, tra loro spagnolo, lingua che comunque io capivo perfettamente. Non che si parlassero molto, comunque. C’è poco da dire mentre stai vuotando una casa.

    Puntavano sulla quantità, piuttosto che sulla qualità, senza andare per il sottile. Gli oggetti di maggiore valore erano i quadri della sala, che non erano nemmeno miei. Avevo un accordo con una galleria d’arte del centro, che si impegnava a riempirmi le pareti con opere di loro scelta. Quelle del periodo avevano alcuni inserti d’oro. Se le sono prese. Quelle, e due iPad, e un bel po’ di telefoni: tutto impilato all’ingresso, pronto per essere portato giù.

    Io osservavo, tranquillo, dispensando consigli.

    Finché Ernesto non è entrato in camera mia e ha allungato le mani sulla cornice dorata in cui avevo messo la foto dei miei nipotini, dimostrando di non saper riconoscere una cornice Ikea da 2,99 euro da una di valore.

    «Eh, no! Tutto, ma questa no.»

    Lui mi ha guardato, senza capire.

    «Sono i miei nipoti. Questa non la prendi, vale due euro. Ti do due euro io, piuttosto.»

    Gliel’ho detto con tono improvvisamente serio, ma lui non ha saputo leggere il cambiamento emotivo. Credo che davvero fosse convinto di avere tra le mani una vera cornice d’oro, perché non l’ha affatto rimessa sul comodino. Ed è stato in quel momento che io sono esploso.

    Accade a chi soffre di disagio mentale: non puoi immaginare cosa conta per davvero, quale dettaglio finisce all’inizio della lista delle cose importanti della vita; la scala dei valori è leggermente alterata e le persone con cui hai a che fare non possono prevedere cosa farà scattare in te l’interruttore

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